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Addio Bourke

Darling Farm, Bourke, NSW, 23 dic 2012, ore 14:10, giorni visto circa 60/88

Non sono più un dipendente della Darling Farm. Tante cose sono capitate tra ora e l’ultima volta che ho scritto qui sopra. Avrei potuto scrivere di più, ma ero sempre o troppo stanco o troppo affaticato o troppo poco felice per farlo. Quindi riassumiamo.

Il 12 dicembre Sal è partito. Partito, andato via, visto scaduto, ritorno a casa, non so. Lui non mi è venuto a salutare ed io non gli ho augurato buon viaggio. Per tutti coloro che credono nel Karma posso dire che mi è giunta voce che mentre si recava a Sydney, abbia investito un grosso animale ed abbia disfatto la macchina. Solo voci, nulla di certo.

Dal 12 dicembre a ieri le cose sono andate meglio, soprattutto nei rapporti umani. Coi coreani c’era più complicità, qualche discorso, rapporti più normali. Durante la raccolta si sono susseguiti un buon numero di ragazzi di Bourke tra le nostre fila. Alcuni duravano qualche giorno, altri solo un paio d’ore. E’ un lavoro troppo duro per quelli di Bourke, per gli umani normali. I coreani sono invincibili, gli australiani sono pigri e non hanno la loro resistenza. Io credo di stare nel mezzo. Il mio rendimento lavorativo è stato sempre al di sotto di quello dei miei colleghi dagli occhi a mandorla. Non ho mai fatto tanta fatica in vita mia. La schiena sempre a pezzi, le gambe con la carne greve, le vesciche sulle mani e le dita che non facevano più forza. E’ stato terribile lavorare col caldo, con la polvere, con dei padroni che badavano soltanto a non lasciare indietro nemmeno un melone e chi se ne importa se fanno quaranta gradi e la gente sta male. Però non ho mai mollato. Non ho alzato bandiera bianca, non mi sono arreso, non me ne sono andato, e di questo vado molto fiero.

Credevo insomma che stesse andando tutto bene. Eravamo quasi alla fine della raccolta. Vedevo la luce. Dopo sarebbe stato solo un gennaio speso a seminare, seduti dietro al trattore, all’ombra. Una passeggiata rispetto al mese passato a raccogliere. Sarebbero bastati altri trenta giorni ed io avrei finito la farm. Ho aspettato quel giorno dalla prima ora in cui sono arrivato qui. Sarebbe stato il giorno più bello della mia vita e non per modo di dire. Sarebbe stato il giorno in cui avrei buttato tutto, i vestiti logori, le padelle, le scarpe, tutto. Sarebbe stato il giorno in cui avrei aspettato che Judy mi venisse a prendere per portarmi alla stazione dei bus. Avrei lasciato Bourke e la farm per sempre. Via, verso altre città, verso l’ultimo viaggio australiano, verso il ritorno a casa. Sarebbe stato un giorno atteso per 2160 ore: il giorno più bello della mia vita. Invece gli eventi me lo hanno portato via per sempre.

Negli ultimi giorni i rumors tra di noi per chi sarebbe rimasto erano insistenti e vari. Nessuno tra i coreani sapeva se sarebbe rimasto. Io avevo chiesto a Judy più e più volte se era sicuro che io e Sylvie saremmo potuti restare. La risposta era sempre: “Sicuro!”. Mi sentivo blindato, tranquillo. Avrei seminato e poi me ne sarei andato con i miei 88 giorni per il secondo visto spalmati nero su bianco su tutte le payslip. Sarei stato in una botte di ferro. Poi la doccia fredda.

Ieri, poco prima della fine della giornata lavorativa, Judy si è assentata per un po’. Al suo ritorno avevamo finito di raccogliere il campo numero 6; otto corse e cinquanta bins di meloni raccolti in tre ore. Lei ci ha raggruppato tutti e ha detto: “Ero da Andrew. Mi ha detto che lunedì è l’ultimo giorno di lavoro per tutti. Non vuole più nessuno”, poi è salita e ci ha portati a casa. Avevo pensato a questa possibilità. Pensavo che sarebbe potuto succedere, che il capo avrebbe potuto mandarmi via all’ultimo per non rischiare di perdere i lavoratori fino alla fine della raccolta. Pensavo: se mi succede, allora mi incazzo di brutto. Invece no, non è successo. Curiosamente, alla notizia, ero felice. Sì, non avevo finito la farm ed ero in mezzo alla strada in periodo natalizio: ma non mi è importato. E’ l’Australia, la terra delle infinite possibilità. Oggi va tutto bene e domani è un disastro. Però ci si può sempre rialzare. Ormai ho capito che fare piani è inutile ed impossibile. L’Australia ti frega, ti sorprende, ti ammutolisce e poi ti lascia a bocca aperta, però mai ti trascura. E questa è una gran cosa.

Pensavo che dare la notizia a Sylvie fosse dura. Pensavo che reagisse male. Dopo averglielo comunicato, al contrario, un sorrisone immenso le ha illuminato il viso. Non ho mai visto nessuno così felice. Basta caldo soffocante, basta fare bisogni nel secchio, basta vita da reclusi. Non più topi che girano per casa di giorno e di notte, non più ragni giganti e serpenti in agguato. Fine della dieta a base di riso e noodles, fine della sofferenza lavorativa, fine di tutto: lascio Bourke per sempre.

Domani alle nove un bus mi porterà a Sydney, dove trascorrerò il Natale in spiaggia a Bondi. Quello che doveva essere il peggior Natale della mia vita potrebbe rivelarsi invece essere uno dei migliori. Non ho mai festeggiato il Natale con trenta gradi, in spiaggia, col berretto natalizio ed il costume da bagno. Sarà bello, di sicuro meglio che passarlo chiusi in questo vagone abbandonato. Dopo Natale andremo a Melbourne passando per Canberra. L’ultimo dell’anno lo passeremo nella capitale del Victoria e dopo cercheremo un farm per gli ultimi quaranta giorni di farm. Domani non sarà il giorno più bello della mia vita, ma certo è in top tre.

Come disse Henry Lawson, “Se conosci Bourke conosci l’Australia”, e se ho conosciuto bene Bourke posso dire che l’Australia, quella vera, è quella dove per andare a fare la spesa grossa prendi la macchina e ti fai seicento chilometri fino a Dubbo, oppure ne fai trecento fino a Cobart per andare dal dentista. È quella che non ha strade asfaltate e che quando non piove da tanto ogni mezzo che passa solleva una tempesta di sabbia visibile per miglia. È la terra rossa che brucia sotto al sole o quella polvere rossa di quella stessa terra che ti ricopre e si infila ovunque. È il caldo soffocante alle sei del mattino. E’ la campagna che al mattino ti regala i canguri e la sera gli emu. Sono le case con la cisterna di acqua in giardino per i giorni di siccità. È il paese con un bar, un ristorante ed un circolo del bowling e basta. L’Australia vera è tutta qui. Il resto è America importata.

Addio Bourke, non credo che ci rivedremo. Ti ricorderò bene, nonostante tutto. Sei stata una maestra severa, ma comunque hai tenuto una straordinaria lezione.


L’inferno è per gli eroi

Darling Farm, Bourke, NSW, 26 nov 2012, ore 12:33, giorno visto irrilevante

Qui Bourke, si va avanti ma le cose potrebbero andare meglio. Chiuso il capitolo potatura, oggi è iniziata la fase della raccolta. Prima il corn, il mais. Diciotto persone per raccogliere pochi filari. Si raccoglie a mano, i chicchi appena tinti di giallo. Un trattore con un nastro trasportatore sta davanti a noi che raccogliamo pannocchia per pannocchia. Tutto bello se non fosse per il caldo. Alle 5:30 il termometro segnava 25 gradi. Il sole non era nemmeno spuntato e già l’aria era calda e secca. Alle 10:30 i gradi sono diventati 35. Per raccogliere, oltre alla tuta e alla felpa, indosso anche la sciarpa adesso. Il sudore sul collo si impasta con la polvere e i pollini e irrita tutto. Senza è un suicidio, meglio il caldo. Col sopravanzare della calura il ritmo si è abbassato, la raccolta rallentava e tra i filari di granoturco la temperatura era, se possibile, anche più alta. Non un filo di vento e quel poco che spirava era bloccato dal muro di piante. Sylvie è svenuta. Stava bene, poi il cuore ha accelerato, poi tutto nero. E’ stramazzata ma si è ripresa in fretta. Alle undici nemmeno il supervisor ci ha fermati. Troppo caldo, se continuate domani la metà di voi sarà ammalata. Visi stremati, rossi per il caldo e la fatica, odore di sudore misto a polvere rossa, polline e moccio. Non ho mai fatto una cosa così in vita mia. Ma non vi preoccupate, aggiungono i veterani delle raccolte, i veri cittadini di Bourke, siamo ancora in primavera. I 50 gradi preannunciati un po’ da tutti per dicembre, adesso mi fanno più paura. Il problema vero è un altro. I meloni ed i cocomeri non possono restare sotto al sole. Quando sono maturi vanno raccolti. Qualunque cosa accada. Se rimangono sul campo il sole li brucia e se viene a piovere tutto è da buttare. No, vanno raccolti tutti al momento giusto. Caldo, sole, svenimenti, non c’è scusa. Anche se ci fosse da lavorare fino a sera sotto al solleone. Quando si torna nel vagone, dopo che la giornata è finita e si fa la doccia, una volta asciugati sembra di avere la febbre. E’ come se il corpo espellesse tutto il calore accumulato. La pelle è rovente e le membra sfinite. Più passa il tempo e meno capisco come si possa pensare di farlo tutta la vita. Judy, la mia cara Judy, il supervisor migliore del mondo, è il mio eroe. Ha 62 anni e non batte ciglio. Dice sempre che ha caldo, ma beve pochissimo e non si ferma mai. Altra stoffa, altre abitudini. Io non sono paragonabile. Io spero solo che tutto finisca il più presto possibile.

 


Prosciutto crudo

Darling Farm, Bourke, NSW, 7 nov 2012, ore 14:46, giorno visto 17/88

Qui Bourke, tutto bene, si va avanti. L’avvenimento che mi ha spinto a battere sui tasti è proprio il prosciutto. Proprio ora, mentre sto scrivendo, sto gustando un toast al prosciutto crudo. La sensazione è indescrivibile. Il prosciutto crudo, quello vero, quello rosso, tagliato a macchina, un taglio fine, con una striscia sottile di dolcissimo grasso. Un pezzo di casa piovuto dal cielo, o meglio, piovuto da Dan. Il signor Dan è lo zio di Andrew, il ragazzo (non ha nemmeno trent’anni) che mi paga per vivere qui e strappare a mano rami secchi dagli alberi di mandarini. Questo signore è molto simpatico e durante le pause del mattino e del pranzo mi chiede sempre cose sull’Italia. Quando non cerco di spiegargli il motivo per cui Berlusconi non va effettivamente in carcere, generalmente parliamo di cibo. Qualche giorno fa abbiamo parlato a lungo del maiale. Quando mio nonno lo macellava, dopo qualche mese casa mia era invasa da ogni tipo di salume e di tagli di carne. Quando il tempo era passato a sufficienza arrivava anche il crudo. Ci voleva di più, ma l’attesa valeva il premio. Pochi giorni fa Dan ha macellato un maiale e tutto quello che ne è uscito sono state bistecche. Niente affettati o salumi: bistecche. Non mangiano nemmeno lo zampone ed il cotechino. Gli ho spiegato che in Italia questa cosa non esiste. Abbiamo un detto: del maiale non si butta via niente. Lui deve esserne rimasto molto colpito, soprattutto del fatto che la coscia del maiale da noi diventa prosciutto crudo. Quel velo di mistero che cela al profano il  processo per la stagionatura della carne. Bè Dan è andato a Dubbo, una città città a 370 chilometri da Bourke, ed ha chiesto se ne poteva averne un po’. Non so bene con chi abbia parlato o dove sia andato. Io a Perth lo trovavo solo in un negozio di emigranti italiani. L’ha trovato. Poi ce l’ha portato. 12 dollari per due etti di crudo. Quando me lo ha consegnato il pacco era ancora chiuso. Non credo l’abbia assaggiato. Credo che l’abbia fatto solo per portarci davvero un piccolo pezzo di casa. Non ha voluto nemmeno un dollaro. Io e Sylvie ci siamo rimasti di sasso. Non ce lo aspettavamo proprio. Stavamo mangiando quando Dan è arrivato e ci ha chiamati a sé con un segno del dito. Questo è per voi, a piece of home. Meraviglioso. Viene voglia di sdebitarsi, ma come si fa? E’ stato un gesto bellissimo. Appena rientrati nel container io e Sylvie ce lo siamo litigati ma siamo riusciti a salvarne almeno la metà per domani. Mi mancava il crudo e ora, grazie alla generosità di Dan, casa è un po’ meno lontana e Bourke è un po’ più vicina.


Venti, serpenti e tramonti

Darling Farm, Bourke, NSW, 26 ott 2012, ore 20:27, giorno visto 5/88

Bourke ha due venti, o almeno così pare a me, uno buono ed uno cattivo. Quello buono spira da est, dal mare. Passa da Sydney, spazza Bondi Beach e arriva fino a quaggiù a mitigare le sofferenze dei lavoratori. La sua brezza fresca e pura sfiora dolcemente le schiene sudate e i visi impolverati e porta benessere. E’ una delle godurie maggiori che offrono i campi in questa stagione. L’altro, il cattivo, viene dall’outback. Soffia dall’ovest e la frescura di Perth si secca e scompare attraverso il deserto. E’ un’aria che toglie il respiro e secca la gola. E’ una delle torture che offrono i campi in questa stagione. O tutto l’anno, chissà. Questi due venti sono le uniche fonti d’aria che spargono la polvere che alza la mia zappa. Quando va bene. Ieri abbiamo potato. Ad un primo impatto, la mattina presto, era anche piacevole tagliare i rami con le cesoie. Un poco di ombra offerta dagli alberi, la schiena dritta, un albero dopo l’altro. Alle undici e mezza il termometro segnava quaranta gradi e tutta l’aria del mondo non riusciva a penetrare la spessa coltre di alberi. Tutti in fila e compatti formavano una barriera impenetrabile a qualunque vento. E’ stato il giorno più lungo di tutti. Non sentivo più le braccia e il sole e la felpa che indossavo rendevano il tutto ancora più insopportabile. Volevo rinunciare, ero ad un passo, ma poi Judy, quella santa donna che amo sempre più, alle due nemmeno è arrivata e ha detto che poteva bastare. Faceva troppo caldo. Un altro giorno era andato. Dopo la doccia pensavo di avere la febbre a quaranta, tanto era il calore che avevo accumulato. Volevo scrivere ma le braccia erano troppo stanche. Potare è certo peggio che zappare. Ho notato una cosa: in campagna qualunque nuovo lavoro è peggio del precedente. Sempre, è una costante. Il problema è che sono tutti noiosi e faticosi. Davvero non riesco a comprendere come possa l’umanità fare affidamento sull’agricoltura. Fosse per me coprirei tutto di cemento e farei parcheggi per supermercati. Per fortuna non decido io.

Oggi la giornata si è aperta con un bel fresco. Era nuvoloso, e zappare i campi non più sotto al sole è tutta un’altra cosa. Ventinove gradi anziché quaranta fanno una bella differenza. Oggi è stato anche il giorno del serpente. Di fronte al mio container c’è un tronco di legno appoggiato sull’erba. Di solito è lì che attendiamo tutti l’arrivo di Judy. Dopo la pausa pranzo mi sono messo lì come al solito a parlare con Sylvie. Poi, con la coda dell’occhio ho visto un movimento. E’ stato strano. Ho guardato in direzione del movimento e ci ho messo almeno cinque secondi a rendermi conto che quello era un serpente. Un lungo serpente marrone. Lo vedevo, era lì di fronte a me, ma il mio cervello l’ha collegato ad un tubo per annaffiare mollato per terra ed impazzito a causa della pressione dell’acqua. Ricordo che il pensiero che mi ronzava per la testa era: “Non può essere un tubo”. Non so perchè abbia pensato a questo, ma quando ho realizzato il pericolo il serpente stava venendo verso di noi. Ho preso Sylvie da una parte, lei non aveva visto nulla. Sono silenziosi i ragazzi. Io non lo perdevo di vista, l’ho seguito finchè la distanza non è aumentata sufficientemente. Judy è scesa dalla macchina e anche Cathy, la vice supervisore. Anche lei è aborigena, e da donna dell’outback è scesa con la zappa in mano. Si è avvicinata ed ha iniziato a guardare a terra. Indicava dei punti dove la sabbia era smossa in un certo modo. Seguiva le tracce del serpente. Le due hanno ricostruito la strada presa dal rettile e hanno concluso che se si era avvicinato tanto era perchè forse cercava dell’acqua. Fine? Tutti a zappare. Così vanno le cose a Bourke. Al ritorno sempre quel serpente, o comunque un suo parente molto simile, strisciava sulla terra rossa che portava ai container. L’abbiamo schiacciato con la macchina ma dopo il nostro passaggio non c’era nessun cadavere. Forse era morto, forse era scappato. Chissà. Fine? Tutti sotto la doccia, la cui porta ha giusto giusto una fessura che sembra studiata apposta per i serpenti. Non è stata la doccia più rilassante dell’ultimo anno.

Non è affatto una vita facile. Tra la fatica e i pericoli ce n’è più che abbastanza per impazzire o scappare ma ci sono anche degli aspetti unici e positivi. Questo è quello che vedevo dalla mia finestra poche ore fa.

Non c’è Photoshop in questa foto. L’ho scattata e postata così com’era, sul mio onore. I tramonti dell’outback valgono quasi la fatica di vivere qui. Non è molto, ma è forse un primo passo per vedere quella bellezza che ad un primo sguardo sembra totalmente assente qui, a Bourke, terra di venti, serpenti e tramonti


L’Australia è una puttana

Darling Farm, Bourke, NSW, 24 ott 2012, ore 20:01, giorno visto 3/88

Chipping. E’ la parola australiana che significa zappare. E’ forse la parola che al momento odio maggiormente. Anche oggi otto ore a zappare sotto al sole. Le mie gambe non rispondono più, la mia schiena è a pezzi e le braccia sempre più pesanti. E rosse. Mentre tagliavo la mia bistecca al burro ho notato che gli avambracci sono quasi ustionati. Li definirei “rosso tramonto australiano”. Oggi stavo scoppiando dal caldo e ho tenuto le maniche della felpa tirate su fino ai gomiti per un paio d’ore nel pomeriggio. Nonostante la mia pelle si sia abbronzata sotto ad uno strato protettivo di crema al cocco durante il mio peregrinare per il Queensland, il sole dell’outback l’ha quasi bruciata. Ci è davvero mancato poco. Domani dovrò stare attento o mettermi la crema, anche se il pastone che deve saltare fuori con la polvere rossa non deve essere piacevole.

Mentre zappavo, sotto al cappello, pensavo a quanto sia puttana questa terra. Non perché offre il suo corpo per soldi, anche se un po’ lo fa, quanto perché le tue volontà qui sembrano contare davvero poco. La farm. A Perth parlavo sempre con Carlo della farm. Le sue intenzioni erano cristalline: era un’esperienza che voleva fare da solo, in un posto sperduto, lontano da tutto e da tutti, a fare un lavoro duro e a cercare di trovare il Nirvana in una specie di ritiro spirituale. Come è andata? Adesso è a Bowen e appena smette di lavorare si sbronza in una casa da urlo, in compagnia di gente sempre diversa, le domeniche al mare e i sabati in disco. Un caso? Sylvie non voleva assolutamente fare la farm. Dov’è ora? A fianco a me nel posto più sperduto e spietato d’Australia, dove l’erba è secca e l’acqua dei billabong è marrone. E io? Io ero indeciso. Avrei voluto una cosa soft, magari un lavoro in città, che so, a Darwin, valido per il visto, circondato da cemento e da vita. Certo non zappare sotto al sole a due passi da quel deserto che inizia al di là del recinto di Darling Farm e finisce quasi alle porte di Perth. Ma l’Australia ha deciso il contrario, tutti i piani sconvolti, tutto diverso. E’ bellissimo, da un lato. Niente certezze sul domani, ogni giorno un’incognita, una sfida, un cambiamento. Qui non si lucidano le maniglie sul Titanic: qui non ci sono maniglie né Titanic. Qui c’è solo una terra che offre l’evoluzione dell’avventura. Cook esplorava mondi inesplorati e lande sconosciute, ma l’avventura dell’Ottocento non tornerà mai più. Oggi si conosce tutto ma qui ancora non si conosce il domani e questa è l’avventura più grande di tutte. E’ l’avventura di oggi. Chilometri, van, esperienze, genti, padroni, mates, donne, giorni, tramonti, lavori, moduli, amici passati e futuri, case e ostelli. Tutto cambia, tutto passa e rimane solo nel cuore. Domani è un altro giorno ed è quasi inutile pensare a dove vorresti essere. Spesso non ci sei ma comunque tutto va per il meglio. Siamo nel migliore dei mondi possibili per davvero e Pangloss non ha mai avuto tanta ragione. Certo, ti capitano anche i giorni in cui ti svegli a Bourke, fuori da tutto e da tutti. Anche questa, però, è l’Australia.


La terra rossa

Darling Farm, Bourke, NSW, 23 ott 2012, giorno visto 2/88

Tra ieri e oggi il mio corpo ha subito uno stress incredibile. Non riesco quasi a muovere le gambe, le braccia sono pesantissime e la schiena mi fa male. Primi due giorni di farm, quella vera. Sveglia alle cinque e mezza, inizio lavoro alle sei e mezza e termine alle tre con mezz’ora di pausa pranzo. Le mie mansioni, fino ad ora, sono state strappare le erbacce a mano e zappare infiniti filari di cocomeri e meloni. E’ il lavoro più duro che abbia mai fatto in vita mia. Già lavorare in campagna è duro di suo, in più bisogna aggiungere all’equazione l’Australia. Il clima è torrido. Fino alle nove si sopporta bene, ma poi il sole si alza e se il vento non è fresco è come zappare in un gigantesco forno a cielo aperto. Mai una nuvola in cielo, il quale è azzurro come nei disegni. Purtroppo per proteggermi dal sole che ustiona sono costretto ad indossare abiti lunghi, quindi lavoro in felpa e tuta. Si possono quindi facilmente immaginare le mie condizioni nel primo pomeriggio. Il periodo di tempo che va dall’una alle tre è infinito. I minuti sembrano ore e la fatica fisica raggiunge il culmine. Lavoro in automatico, uno zombie nei campi coperto di terra rossa. La terra d’Australia è composta da polvere rossa. Questa polvere super fine penetra ovunque. Le scarpe sono rosse, gli abiti rossi, le lacrime e il muco rosso. E’ impossibile fermarla. Anche il pavimento del container ne è cosparso. Nelle foto è bellissima, ma lavorarci in mezzo è un’altra cosa. Però ci sono anche un sacco di aspetti felici. Judy, la supervisore, il mio capo diretto, è la donna più buona che abbia mai incontrato. E’ gentile, ti spiega sempre le cose tante volte e se lavori non al meglio, vinto dalla fatica, non ti rimprovera mai. Credo che sia un’aborigena, ma il colore della sua pelle potrebbe anche derivare dagli anni di lavoro nei campi, quindi non lo so di preciso. Anche negli orari è ultra flessibile. Ieri abbiamo smesso mezz’ora prima e oggi un’ora. Sempre otto ore segnate e via al riposo. Non so se lo faccia perché si rende conto che le nostre condizioni fisiche siano del tutto impreparate o se lo faccia perché anche in campagna la mentalità australiana del lavorare il meno possibile prevale, ma non mi importa. Quando si rientra è sempre una grande gioia, anche se fatico a salire in macchina per via dello stress muscolare. In Italia ho lavorato spesso in campagna, d’estate, a raccogliere la frutta, e non si sono mai sognati di regalarmi ore in questo modo. Mai. Rientrato nel container faccio la doccia e aspetto il giorno dopo cercando di non addormentarmi troppo presto. E’ forse il momento peggiore, dopo che ti sei un poco ripreso. Non si va da nessuna parte, non si parla con nessuno, non c’è nulla da fare se non aspettare. E’ una vita terribile. Non mi spiego come la si possa scegliere deliberatamente. E’ solo il secondo giorno e già non ne posso più. Spero solo che dalla settimana prossima il mio fisico si sia abituato. Mancano 86 giorni e desidero con tutto il cuore che passino in fretta, tipo quel paio d’ore di lavoro all’alba.


La pioggia porta conforto

Darling Farm, Bourke, NSW, 21 ott 2012, ore 15:43, domenica

Oggi va un poco meglio. Il senso di spaesatezza si è un po’ placato. La giornata si è presentata nuvolosa fin dal mattino e per un po’ ha persino piovuto. Poche gocce selvagge. Il fresco non è durato tanto, ma mi sembra che sia tutto lievemente più familiare. La natura non è così violenta, oggi. I rumori misteriosi che provengono la notte dall’esterno del container non ci sono durante il giorno e le nubi, placando il sole, diffondono tutto intorno un che di rassicurante. Anche il vento è più fresco. Non più un perenne asciugacapelli che spira in ogni dove ma una forte brezza carica di una lieve frescura. Nessuno in giro. Niente. Forse mi sto abituando alla situazione o forse oggi è solo una buona giornata, ma non mi pesa più come ieri. Leggo, scrivo, guardo film. Mi tengo impegnato nell’attesa che venga domani. Il mio primo giorno di lavoro nella farm, il giorno 1 su 88. Nelle 48 ore che ho trascorso qui ho sviluppato una serie di piani alternativi. Ad essere sincero non ci tengo poi più di tanto ad avere il secondo visto. Non a questo prezzo. Ora come ora è solo una gara di resistenza ed io, purtroppo, mi sento più favorito sulle brevi distanze. Non sono l’uomo delle maratone nell’outback, ma forse anche questa è solo questione di abitudine. Il mio problema più grande credo che sia il fatto di non riuscire ancora a ridurre tutto ai minimi termini. Sono qui, ho un tetto sulla testa, un letto e un condizionatore. Ho a fianco a me la donna che amo, ho un frigo pieno, un computer ed una connessione funzionante. Sono in un ventre di vacca. E invece penso al fatto che non c’è nulla, che sto sprecando giorni, ore, minuti preziosi della mia vita senza ricavarne nulla. So che non è vero, che quello che c’è qua fuori ha una sua bellezza e che se riuscissi a coglierla allora sarei nuovamente ricco, ma purtroppo non la vedo ancora. L’essenziale è invisibile agli occhi ed io sono cieco. E’ ancora troppo presto. Ho però iniziato ad esplorare i dintorni. Ieri ho camminato lungo la terra battuta che forma quella che possiamo definire la strada per arrivare al capannone dove si impacchetta la frutta. Dopo appena un centinaio di metri ho sentito un rumore nell’erba alta che costeggia la lingua rossa. Un lungo serpente marrone spuntava da un pezzo di terra nudo. Non ho visto la testa, mi sono volto tardi, ma il lungo corpo che precedeva la coda sembrava non finire mai. Non mi ha fatto tanto effetto, eravamo distanti. Anzi, mi ha quasi fatto piacere iniziare a fare la conoscenza delle creature che mi circondano. Sono comunque rientrato nel container perché non ho idea di come comportarmi di fronte ad una situazione del genere. Nessuno mi ha ancora ragguagliato a proposito, ma almeno abbiamo fatto conoscenza. La notte però fa ancora paura. Quei duecento metri che mi separano dal bagno per me sono come duecento chilometri. Troppi rumori, troppa vita sconosciuta, troppo buio. Un muro nero e impenetrabile che apre lo scrigno delle paure arcaiche, le paure provate dall’uomo fin dalla notte dei tempi. Non so cosa cela quell’oscurità, ma per ora non ho voglia di saperlo. Aspetto sempre con ansia il mattino, la luce e, quando si può, le nuvole cariche di pioggia. Domani alle sei e un quarto si va nei campi. Da quanto ho capito si seminano i meloni. Sdraiati tutto il giorno sulla terra rossa a fare buchi con uno stecco e a piantare semini. Sdraiati sulla terra dei serpenti aspettando il mattino dopo.


Quel treno per Bourke

Linea Sydney – Dubbo, NSW, 19 ott 2012, ore 12:39

Così è deciso: Bourke. Questa piccola comunità del Nuovo Galles del Sud è la prima meta scelta per conquistare gli 88 giorni di lavoro nei campi che mi permetteranno di restare un altro anno in Australia. Seduto sul sedile di questo treno penso ad un sacco di cose su questo lavoro e sul mio futuro. Sono così eccitato che non riesco a stare seduto. E’ quell’eccitazione che si prova quando la conclusione del viaggio è incerta, quando si sa dove si vuole arrivare ma non attraverso cosa si deve passare per arrivarci. E’ il momento peggiore: è il dubbio.

“Se si conosce Bourke, si conosce l’Australia”. E’ la frase forse più scritta a Bourke. E’ stata scritta dal famoso poeta australiano Henry Lawson. Questo signore era stato mandato qui nel 1892 dal suo editore per monitorare la vita ai confini dell’outback e anche per disintossicarsi dall’alcol. In questo luogo ha scritto alcuni dei suoi componimenti migliori. E’ un luogo che ispira, dicono. Una di quelle parti del continente in cui l’Australia è ancora vera, autentica. 2000 persone circa, clima semi arido, canguri e uccelli e farm. La farm che ho trovato coltiva limoni, arance e meloni. Sono tre settimane di lavoro che si potrebbero estendere fino a Natale, dipende da me e da loro. Dipende da Bourke. Un’ altro detto che laggiù va alla grande è Back’o Bourke ed è significativo che si pensi a Bourke come punto di ritorno dal nulla.

Non so davvero cosa mi devo aspettare. Il lavoro è sicuramente molto duro, anche il proprietario me l’ha detto. Via via che il treno si allontana da Sydney, gli alberi si diradano, l’erba si fa meno verde e spuntano pecore, vacche e canguri. Il paesaggio è splendido, come sempre, ma ora mi concentro sul fatto che non sarà solo un’immagine che scorre dal finestrino: sarà la mia casa per un po’. Il dovere prima del piacere. Quello che forse mi pesa maggiormente è il motivo per cui sono qui. Questa volta non è propriamente una mia scelta. Se avessi la possibilità di restare in Australia un altro anno senza andare in nessun Bourke o in nessun Bowen sicuramente adesso sarei a Sydney a cercare casa e lavoro a Bondi Beach. L’Australia però non lo concede. Se vuoi restare devi fare per 88 giorni molti di quei lavori che gli australiani ricchi non vogliono più fare. Sono da quella parte della televisione che a volte in Italia si vede nei telegiornali. Sono un immigrato che cerca di restare. Posso raccontarmela ma la verità è questa. Sono un italiano che come tanti suoi compatrioti prima di lui cerca fortuna in un altro Paese quando a casa tutto va male. Non è una novità, non è nulla di eccezionale; semplicemente, quando studiavo questo fenomeno sui banchi di scuola, non avrei mai pensato di farne parte. Quindi non c’è scelta, o Bourke o Italia, e da quello che leggo sui giornali e dal fatto che sono su questo treno, la mia scelta è molto chiara. Posso solo dire che adesso i racconti di John Steinbeck suonano diversi, anche se lui scriveva di America e non di Australia.

Bourke, container nella piantagione di meloni, 19 ott 2012, ore 23:54

Dove diavolo sono capitato? Vorrei proprio dire due parole al signor Lawson. Capisco che alla fine dell’ottocento non esistevano né l’Opera House né Surfers Paradise, ma se devo fare un dipinto di tutta l’Australia partendo da qui, bè non sarebbe un bel dipinto. Vivo in un container, a dieci chilometri da un centro abitato morto e a circa ottocento da quella che io definisco “città più vicina”. Al momento l’Italia non i sembra nemmeno così male. Sì, rubano tutti e non c’è lavoro, però almeno non mi sento annientato. Non credo che resisterò a lungo. Non c’è nulla a parte un milione di insetti che ruotano sulla mia testa e mi camminano addosso. Il bagno è esterno ed è a un centinaio di metri. Cento metri di buio e mistero. Per quello che mi riguarda potrebbe essere a Sydney. C’è troppa solitudine, troppa natura e troppo nulla. Mi sembra di impazzire, chiuso nel mio container ad aspettare che venga il mattino per capire almeno dove mi trovo, cosa ho intorno. Non è la mia dimensione, non lo è affatto. Se penso anche che questo week end non conta per i famosi 88 giorni mi viene davvero voglia di prendere il bus domattina e ritornare a Sydney. Ma non lo farò, non ancora, anche se non è detto che non prenderò quello di mercoledì. Per ora la farm vince e vince alla grande.


Noosa

Noosa, QLD, 14 ott 2012, ore 23:34, sulla via per  Gold Coast

Noosa mi ricorda un sacco un modellino di città ideale che ho visto una volta al museo dell’architettura di Stoccolma. E’ proprio quello spazio urbano che un architetto disegna e sogna di costruire da qualche parte. Qui l’hanno fatto. E’ un paesino talmente elegantone che Port Douglas non ne esce bene. Pochi van, da queste parti. Il mio, col suo dragone arancione appiccicato sulla fiancata, è visto se non di cattivo occhio almeno con sguardo compassionevole. Porche, BMW, fuoristrada, sì. Van pochi e in periferia.

Noosa è una città formata da molte Noosa: Noosaville, Noosa Heads, Noosa Junction, Noosa Waters, Noosa Hill, Noosa Springs. Il Noosa è un fiume e alla sua foce sorge questo complesso di paesi/quartieri che prendono il nome dal corso d’acqua su cui sono adagiati. Noosa Heads è il più bello di tutti. Sorge proprio dove il fiume si getta nel mare. Questa foce ha un estuario che ricorda tantissimo quello di Whiteheven Beach, alle Whitsundays, con la sostanziale differenza che la sabbia è gialla e non bianca. Poco prima di gettarsi nel mare il fiume fa una serie di meandri che danno vita ad isolette più o meno grandi. L’industria immobiliare australiana ha preso queste isolette e ci ha costruito sopra delle case che non hanno eguali come posizione, lusso e sfarzo. Lungo la strada che passa accanto a queste isolette si vedono ville bianche o color mogano con piscine e porticcioli che si gettano nelle acque azzurre del fiume. Spiagge immacolate e larghe un metro fanno da alternativa alla piscina nei giorni d’estate.

Ovunque barche di qualunque tipo, dai motoscafi alle vele passando per tutte le altre imbarcazioni, purché siano piccole e costose. Il centro è una lunga via di negozietti che vendono articoli inerenti alla vita da spiaggia. Molti i caffè lungo i quali si affollano gli australiani. Questi esercizi hanno immancabilmente un portico sotto al quale sono ammassati fitti fitti tavolini rotondi le cui sedie sono tutte rivolte alla strada. Non tanto luoghi dove consumare cibi e bevande rinfrescanti (anche perché qui comprano tè caldi) quanto vetrine per osservare ed essere osservati. Non di rado si vedono passare per le strade signore e signorine in abiti da cocktail, tutte tiratissime e profumate a tal punto da rimanere inebriati. Anche per il basso volgo la vita a Noosa offre di più. Nei Mac Donald’s, a colazione, la marmellata alle fragole, quella  all’albicocca e la vegemite sono servite all’interno ci un cesto di vimini e sono offerte dalla ditta. Dev’essere proprio bella la vita a Noosa.


Rotolando verso Sud

Noosa Heads, QLD, 13 ott 2013, ore 12:18, Noosa Public Library

Un paio di giorni fa, ad Agnes Waters, ho visitato inaspettatamente la stazione di servizio migliore d’Australia. Mentre le altre che ho incontrato generalmente sono buie, dai servizi non tanto puliti e spesso gestite da tizi e tizie che non vedono l’ora di andarsene a casa, la stazione di servizio all’incrocio con la strada per 1770 è senz’altro di un’altra categoria. Innanzitutto sta aperta fino a tardi, e con tardi intendo le dieci. Al suo interno si trova di tutto, dai bagel al prosciutto ai fusibili di ricambio per il van, passando per rotoli di bava da 60 libbre e ciabatte infradito. Ha tutto quello che può servire ed a prezzi onestissimi. Offre una cucina che farebbe invidia ad alcuni locali che ho visto in città, con un menù a base di pesce fritto, hamburgers e pollo al forno. Fantastico. Le due signore che ci lavorano sono gentili, sorridono e mantengono i bagni talmente puliti e profumati che se non ti scappa fai di tutto comunque per andarci. Ho fatto loro i miei complimenti e dalla loro reazione deduco di non essere stato il primo. Da applausi.

Agnes Waters e 1770 non sono state due tappe molto aprrezzate. Credo che dipenda da cosa si voglia trovare. Se si cerca pace e relax, allora sono il posto giusto. Se si cerca altro, qualsiasi altra cosa, allora si ha sbagliato posto. Io ho sbagliato posto. La guida diceva che erano due cittadine un poco fuori dal percorso turistico. Forse proprio per questo ho scelto di andare a visitarle. A parte una lunga serie di case favolose affacciate all’oceano, credo che ci sia un motivo per cui queste due cittadine non abbiano cattuarto l’attenzione delle moltitudini di backpackers che si spostano lungo la costa. Sono molto sonnolente e non offrono grandi svaghi. Anche le spiagge non sono belle come si vorrebbe. Ci sono un sacco di barche e si capisce che i frequentatori non hanno problemi economici, ma nulla di più, e probabilmente e è tutto quello che avrei dovuto aspettarmi.

Continuando la Bruce Highway verso sud si arriva a Hervey Bay. Prima di arrivarci, però, mi sono imbattuto in un episodio che mi ha ricordato tanto casa. Lungo la strada, saranno state le tre del pomeriggio, alcune macchine hanno iniziato a lampeggiare coi fari. Non mi era mai successo, quindi ho pensato di avere qualcosa che non andava. Ho dato una rapida occhiata e tutto sembrava a posto. Portiere chiuse, tappo della benzina chiuso e non c’era nulla che andasse a fuoco. Tutto regolare. Poi ho pensato: che ci siano i poliziotti? La strada in quel punto era caratterizzata da una lunga e ripida discesa fiencheggiata da alberi. Appena prima che la strada iniziasse a puntare verso il basso, un cartello segnalava il limite: gli 80 all’ora! Io ho rallentato per tenermi ben sotto al limite e, appostata dietro ad un albero, ecco spuntare una macchina bianca con un poliziotto che misurava la velocità delle auto in discesa. Mi sono veramente sentito a casa. Lungo una strada quasi deserta, grazie agli altri automobilisti ed alla polizia mi sono sentito sulla via Emilia per cinque minuti.

Hervey Bay è il punto di partenza prediletto da tutti per raggiungere Fraser Island. Qust’isola fatta interamente di sabbia è una delle mete più ambite da tutti i viaggiatori. Non so per quale motivo, ma ho deciso di non visitarla. Semplicemente non mi andava. Non avevo voglia di mettermi nelle mani di un altro tour opertor, prendere una barca e farmi scorrazzare da sconosciuti come a Whitsunday. Per stavolta ho deciso di passare. Ho girato il van e mi sono diretto al lungo molo che, partendo da Hervey Bay, si tuffa a perdita d’occhio nel Pacifico. Una volta ci passava il treno. Lo caricavano di tutto punto e quello ritornava poi verso Sydney. Oggi lo percorrono anziani, bambini, pescatori e backpackers. L’ho percorso tutto avanti e indietro, ho salutato Hervey Bay e mi sono diretto a sud verso Noosa. Fraser Island al prossimo giro.


All good?

Clermont, QLD, 10 ott 2012, ore 21:15, Rose Harris Park

Clermont ha circa 1800 abitanti. E’ situata tra Charters Tower ed Emerald. Clermont è l’inferno.

Sono stato obbligato a fermarmi qui per colpa di un amico. A Bowen, qualche giorno fa, parlando del più e del meno con Carlo, è saltato fuori il discorso del guidare di notte. Io l’ho sempre fatto, nonostante le innumerevoli carcasse di canguri che si incontrano lungo il ciglio della strada. Quando gli ho raccontato delle mie esperienze di guida notturna, Carlo ha sgranato gli occhi ed ha iniziato ad elencarmi le innumerevoli volte che è stato costretto ad evitare canguri di notte mentre guidava con un australiano per arrivare a Bowen. Mi ha riferito le indicazioni del suo esperto conducente, il quale sottolineava quanto fosse pericoloso guidare di notte lungo le strade del Queensland proprio per via dei canguri. Questi animali sono attratti dalle luci delle auto, quindi di notte iniziano a saltellare e a dirigersi verso le auto in corsa. Il risultato è chiaramente visibile ai bordi delle strade. Le auto australiane sono per la maggior parte gipponi forniti di paraurti in acciaio grandi quasi come il cofano. Potrebbero sfondare un muro e non ne risentirebbero affatto. Il mio van non ha niente di simile, quindi quando è scesa la notte, le parole del mio amico hanno iniziato a ronzarmi in testa, creandomi non poche paranoie. Investire un canguro può sfasciarti la macchina e l’idea di pernottare in mezzo al nulla australiano con l’auto in panne senza una tacca di linea nel telefono non mi entusiasmava. Così, guidando con estrema cautela ed osservando il bush intorno alla strada più che la strada stessa, mi sono fermato nel primo paese che ho incontrato: Clermont.

Forse se ci fossi arrivato di giorno lo avrei considerato un paese come un altro. Arrivarci in piena notte, invece, ha fatto sì che il piccolo centro assumesse un aspetto spettrale. L’illuminazione pubblica è molto scarsa. Un lampione per incrocio quando va bene. Il centro è più illuminato, ma la cosa che inquieta davvero è che, al solito, non si incontra nessuno per la strada. La città è deserta. Tutto chiuso, tutti a letto. Le uniche cose aperte sono i liquor store e nei loro pressi si incontrano solo gruppi di bifolchi che gridano spesso e fanno pensare che, ovviamente, non essendoci nulla di meglio da fare che bere, essi siano già piuttosto avanti nel farlo.

Il tramonto, prima di arrivare qui, è stato bellissimo. Un cielo viola che contrastava la terra rossa del bush che mano a mano che il sole calava si faceva sempre più nera. Mi sono fermato sul bordo della strada a godermi il momento. Una macchina mi sfreccia accanto e poco prima di sparire in lontananza inverte la marcia e si riavvicina. Accosta davanti a me. Il guidatore era un operaio delle strade che stava tornando a casa. Con lui c’erano alcuni suoi colleghi. Tira giù il finestrino, mi sorride e mi chiede: “All good?”, tutto bene? Sì, sì, solo il tramonto, tutto ok. Ok, fa lui. Tutti sorridono. L’auto riparte, inverte la marcia e dopo poco sparisce all’orizzonte. Gli australiani guidano veloci e sicuri. Conoscono le strade e non temono i canguri. Era tornato indietro di un bel pezzo solo per vedere se era tutto a posto. Gran persone gli australiani. Si preoccupano per te anche se tu fossi talmente stupido da non fermare le auto che ti sfrecciano accanto quando sei in panne. Li amo sinceramente e amo il loro atteggiamento nei confronti del prossimo. L’unica cosa, è che non amo Clermont.


Sizzler

Townsville, QLD, 6 ott 2012, ore 22:12, parcheggio

Da quando sono in Australia ho preso circa 10 chili. Come già detto in precedenza, questo è davvero un Paese in cui è impossibile non mangiare. Dovunque ti giri ci sono esercizi che vendono cibo. Oggi credo di aver incontrato il tempio massimo dedicato al cibo e all’ingrasso collettivo.

Onestamente, cercavo un Pizza Hut per mangiare giusto qualcosa e spendere poco. Non avevo una gran fame. Era giusto per cenare sommariamente. Cerco la pizzeria con il mio iPhone e guido fin dove il mio collega mi dice di andare. Parcheggio. Proprio di fronte a me stava questo ristorante immenso, tutto vetri e luci. Sizzler. Non avevo mai sentito questo nome. Aveva l’aria di una catena, ma non ne avevo mai sentito parlare. Incuriosito, e sempre deciso a comprare la mia pizzetta da 5 dollari, mi avvicino e do un’occhiata. Forse saranno state tutte le persone in fila, forse l’ambiente decisamente carino o forse l’immenso buffet piazzato in bella vista a centro sala ma  mi sono incuriosito. Non riuscivo a capire il meccanismo di funzionamento. Il menù era stampato sulla parete e aveva solo dieci piatti, quasi tutti di carne o pesce. Il buffet non era menzionato. Niente dolci o bevande. Proprio non capivo. La gente davanti a me era in fila alla cassa ma non aveva ancora cenato. Ero un po’ intimidito. Non ero mai entrato in un posto così. Ad un certo punto fermo un cameriere e gli dico: “Ciao, sono italiano, non sono mai stato qui. Come funziona?”. Lui ride e mi illumina. Funziona in questo modo. C’è un prezzo fisso da pagare. Con quel prezzo tu hai diritto al buffet. Puoi mangiare quello che vuoi e quanto ne vuoi. Aggiungendo un altro piccolo extra puoi anche avere le bevande, tutte quelle che vuoi e quante ne vuoi. Se invece prendi uno dei piatti stampati sulla parete, costa di più ma hai comunque tutto il buffet che vuoi. Il buffet era immenso. Pasta, riso, cucine di ogni tipo, contorni, salse, pane, verdure e dolci. La mia pizza da cinque dollari era ormai un lontano ricordo. Ho pagato, ho riempito il piatto e tanti saluti al mangiare equilibrato. E’ davvero impossibile resistere. Ti sbattono montagne, letteralmente montagne di cibo sotto al naso e agli occhi e tutto quello che si può fare è mangiarlo. Il mio stomaco, già notevolmente allenato e allargato, è stato messo a dura prova. Mi sono alzato a fatica dal tavolo, molto tempo e molti giri dopo. Il dolce non ci stava affatto, ma era lì, era già pagato. Ho preso un piatto di tutto e l’ho cacciato giù, fino a riempire quell’ultimo barlume di spazio che c’era. Ho mangiato anche la pasta al ragù, lontano ricordo dei tempi di Perth. Non sarà stato vero sugo alla bolognese, ma così lontani da casa ha fatto comunque la sua figura. Tranquilla nonna: mangio abbastanza!


Quel che non ti aspetti

Townsville, QLD, 6 ott 2012, ore 21:48, parcheggio sul lungomare

Non capisco come mai questa città stia all’ombra di Cairns. Nessuno me ne ha mai parlato e la guida ne parla con leggerezza. Townsville è tanto bella che ci resterò per un po’. Cairns, il gioiello del Queensland, non mi ha fatto un grande effetto. Sono contento di esserci stato ma non mi mancherà. Townsville pensavo di considerarla il giusto, ed invece mi ha colpito profondamente.

Sorge ai piedi di una montagna. E’ un ammasso di roccia marrone costellato di vegetazione. Domina tutta la città e la baia e, non so, fa effetto, ti fa sentire protetto. Ad un certo punto, mentre giri per strada, scopri una parete rocciosa che si estende fino a diventare la cima della montagna. E’ un ottimo biglietto da visita. Poi c’è il lungomare. Giochi di parole a parte è ilpiù lungo lungomare che abbia visto finora. La spiaggia è sabbiosa, ordinata e pulita. Il mare non è azzurro ma non è il peggiore che abbia visto qui a nord. Tra la spiaggia e la camminata che la costeggia ci sono parchi, giochi d’acqua per i bambini, bagni con docce, gelaterie e sdraio bianche di legno che ricordano tanto i tempi dei Beach Boys. L’erba arriva quasi fino alla spiaggia e per la prima volta da tanto tempo ho visto campi da beach volley sulla sabbia. Naturalmente ci sono i cartelli per le meduse e i contenitori di aceto e naturalmente c’è un waterfront. Non è proprio un waterfront, è più una piscina a bordo mare. Intorno non mancano gli immancabili barbecue e le palme. Già fin qui è uno spettacolo. La ciliegina sulla torta, però, è costituita da una cosa che non tutti notano: la luce. Al tramonto, il color salmone violetto del cielo si fonde alla perfezione con le tinte pastello delle casette in legno di foggia antica che costituiscono il centro della città. E’ una magia intensa, che il mio occhio fotografico non si lascia sfuggire. I neon colorati delle discoteche e dei ristoranti fanno anche loro un abbinamento perfetto con il cielo. Ristoranti ospitati dentro a vecchi uffici postali, strip club in edifici coloniali, cascate pseudo naturali lungo le strade che costeggiano il mare, parchi colmi di gente e un’aria da città di frontiera che è stata e di città moderna che è e sarà. Tutto fuso, tutto mischiato con gusto e maestria. Tutto quello che serve per catturare l’attenzione e trattenere più del previsto. Benvenuti a Townsville.


Pioggia e problemi

Cairns, QLD, 3 ott 2012, ore 20:11, Mc Donald’s

Vivere on the road a Cairns è davvero dura. Il clima è quanto di peggio si possa desiderare per non avere una casa. Dormire in un van è difficile per via della temperature e dell’umidità. Stamattina, dopo avere faticato parecchio a prendere sonno, una pioggia insistente e dispettosa mi ha destato all’alba. Ha piovuto a sprazzi per tutta la giornata. Il clima tropicale di Cairns in tutta la sua forma.

Oggi è stata anche il giorno in cui ho perso la mia casetta mobile. Persa, andata, sparita, cambiata. Occorre fare un passo indietro.

A Byron Bay, circa una settimana o due fa, pioveva. Stanco di sfuggire il cattivo tempo avevo deciso di inseguire l’estate. Anziché fare le tappe andando in su, avevo deciso di arrivare a nord e poi ridiscendere gradualmente fino a Sydney. Avevo chiamato la compagnia che mi noleggia il van per chiedere il permesso e loro mi avevano detto di sì. Tutto a posto, rotta per Cairns. Durante questo viaggio ho fatto solo una breve sosta a Whitsunday per spezzare la marcia. Stamattina sono andato all’ufficio della compagnia dei van per farmi cambiare la bombola del gas che perdeva. Per scrupolo gli ho chiesto anche se fosse tutto a posto con il cambio destinazione, se avessero ricevuto la chiamata dall’assistenza. No. Nessuna chiamata. Il van è da lasciare a Cairns. Panico. Qui non siamo in Italia, quindi so per esperienza che quando ti dicono no, è no davvero. In genere non ci sono scappatoie. Era una tragedia, avrebbe rovinato tutto. Ho saltato innumerevoli luoghi da sogno per arrivare qui e non potevo concepire l’idea di dover tornare indietro e poi nuovamente a Cairns. Surfers Paradise è una tappa obbligata del mio tour e per visitarla sarei dovuto tornare indietro fino a sotto Brisbane e poi ritornare qui facendo tutte le fermate. Tutto in due settimane e mezzo. La fatica superava decisamente il gusto. Ho fatto un sorrisone alla signora della reception e le ho detto che sicuramente ci doveva essere un errore. Lei era accomodante, ha chiamato il servizio assistenza e mi ha detto che non c’era nessun errore. Il van aveva una nuova prenotazione da Cairns e doveva per forza essere riconsegnato qui. Da questo momento in poi si è svolto tutto per telefono. Ho chiamato il tipo all’assistenza con cui avevo parlato ed egli, naturalmente, ha negato tutto. Secondo lui ero uno scemo che non aveva capito nulla. Allora mi hanno passato un piccolo manager e poi un grande manager. Ho spiegato la mia situazione almeno dieci volte e tutti non sapevano cosa fare. Incredulità. Davvero tutti se ne sarebbero lavati le mani? Davvero questo viaggio sarebbe stato distrutto in questo modo? Dicevano che sicuramente, siccome io non ero inglese, non avevo capito bene il problema. Come potevo, allora, capire tutte le loro obiezioni e rispondere tono su tono? Come mai oggi mi avevano passato l’assistenza e non l’altra volta? No, dovevano aiutarmi. Ho chiesto e richiesto una soluzione e tutto quello che hanno trovato è stato quasi un insulto: quattro giorni extra gratis per avere più tempo o cento dollari di rimborso. Are you f*****g kidding me? Ho fatto mille chiamate inutili, ho versato fiumi di parole e poi ho deciso di fare l’ultima chiamata. Volevo solo che tutti sapessero che il mio viaggio, un viaggio che a volte si fa una volta nella vita, era rovinato, distrutto, sciupato per sempre. Volevo solo che tutti lo sapessero, poi mi sarei arrangiato come al solito. Ho chiamato con tono stanco, arrendevole. Ho detto che dopo averci pensato tutto il giorno non c’era proprio soluzione. Bè, in quel momento, quel manager con cui ho litigato durante le ore precedenti per ottenere un rimedio mi dice: “A meno che, ovviamente, tu non voglia cambiare van”. Cioè? In pratica mi danno un van di categoria inferiore, senza nessun tipo di rimborso, senza nessun giorno extra ma con la possibilità di riportarlo a Sydney. Così facendo perdo la facoltà di stare in piedi nel van, il tavolino, la cucina interna e il frigo, però posso tornare nel Nuovo Galles del Sud. E’ una rapina, ma sapendo che sarebbe stato il meglio che avrei potuto ottenere ho accettato. Domattina ho il cambio e spero di non trovare intoppi di nessun genere. Se non altro il meteo per domani promette sole, ed è meglio litigare sotto al sole che sotto alla pioggia.


Da Bowen a Cairns

Cairns, QLD, 2 ott 2012, ore 21:22, parcheggio

Cairns è una città che mi ricorda un sacco la riviera romagnola. A dirla tutta è una fusione tra Cattolica e Lloret de Mar in Spagna. Un lungomare interminabile, pieno di negozi e ristoranti, culmina con il waterfront, un’enorme piscina pubblica affacciata sull’oceano che a Cattolica proprio non esiste. I pesci tropicali di metallo, una scultura presente all’interno della piscina, sono probabilmente l’icona più famosa di questa città del Nord del Queensland. Altra cosa che manca alle due europee sono i pipistrelli. A Cairns ce ne sono a migliaia e al tramonto la città si riempie delle loro strida. Li si può vedere volare solitari o a stormi nel cielo al crepuscolo, mentre la città sottostante si affretta negli ultimi negozi aperti o è già in fila per mangiare ai ristoranti. All’apparenza sembrano del tutto innocui. Loro stanno lassù e noi quaggiù, nessun contatto. Quando sono stanchi di volare si appollaiano su una qualche palma del lungo mare e buonanotte. Questa è davvero Australia.

Anche Bowen era davvero Australia, ma in una diversa sfumatura. E’ vero che ieri il Queensland festeggiava il compleanno della Regina e quindi era tutto chiuso, però sono sicuro di non avere mai visto una città così desolata. Nessuno in giro per miglia, per tutto il giorno. Una città fantasma. Già la conformazione un po’ impressiona. Una sere di quadrati sagomati da vie che in Italia sarebbero tangenziali forma il reticolato urbano. Lungo questi stradoni infiniti solo casette in legno un po’ trascurate, chiese di ogni genere e bottle shop o liquor store. Non scherzo: ho visto più negozi che vendevano alcolici che persone. Mi ero fermato a Bowen per salutare un amico di Perth che è in farm, al momento. Era il suo compleanno e così sono restato per tutto il giorno. E’ stata una giornata che ricorderò di sicuro per molto tempo. Intanto la sua casa. Metà casa privata, metà ostello, non si capiva; però talmente sporca che preferivo andare in bagno nel mio secchio dentro al van. Lui era arrivato da un giorno, quindi non aveva praticamente fatto nulla eccetto schivare lo schivabile. La cucina indecente, mosche ovunque e la tipica mano di unto che caratterizza le case non pulite. Pessima prima impressione. Tra questo e la desolazione mi sentivo un sacco lontano da casa. Poi ci ha pensato l’Australia e il suo modo di essere a cambiare tutto.

Non avendo nulla da fare, essendo tutto chiuso a parte il liquor store, ci siamo messi a bere e parlare sul portico. Il portico. Non dovrebbero esistere abitazioni senza portico. E’ un elemento troppo essenziale per l’espressione della pace, della felicità e dell’interazione umana. Quel portico era sporco anch’esso, privo di sedie ma con cinque cuscini vecchi come gli aborigeni ed un tavolino assemblato con un asse di legno ed una cassetta da frutta. Ci siamo messi lì, quasi obbligati, e il vento di Bowen non ha mai smesso di soffiare e di farci compagnia. E’ passata la mattina, è passato il pomeriggio ed è arrivata la sera. Infiniti dialoghi ed infinite riflessioni hanno fatto sì che, nonostante le premesse avverse io possa dire di essere effettivamente stato da re a Bowen, Queensland, un paese dimenticato da Dio. Niente spiagge, un mare pessimo. Solo farm, strade enormi e desolazione. E di farm si è parlato a lungo.

Il mio amico lavora in una piantagione di pomodori. Strappa le erbacce per 19 dollari e 70 meno le tasse. Passa dieci ore al giorno sotto al sole a rompersi la schiena per ottenere il secondo anno di visto in Australia. Dieci ore, sole malsano, schiena curva, sudore, sporco, strappare erbacce che crescono sulla terra. E’ davvero finita la schiavitù? Da fuori può sembrare una paga ottima per un lavoro che in altre parti del mondo, anche se civilizzate, viene pagato la metà o meno. Da australiano, invece, è una paga da fame, una miseria. Però questo è il prezzo da pagare se si vuole stare in Australia un altro anno. Tre mesi di inferno, tre mesi che fanno piangere e maledire la vita ed imprecare per ottenere dodici nuovi mesi di amore e paradiso. Tre mesi come a Bowen, con niente da fare ed un portico che, se sei nuovo, ti salva i day off.


Questo sabato qualunque è un sabato australiano

Airlie Beach, QLD, 29 set 2012, ore 21:37, parcheggio

Il sabato mattina ad Airlie Beach inizia presto se si dorme in van. Tra le cinque e le sei passate c’è quel fresco inaspettato che a volte ti desta dal sonno e ti costringe a coprirti, mentre subito dopo le sei e mezza il sole ti fa pentire di esserti coperto. In un modo o nell’altro alle otto sei già bello sveglio.

Passeggiare lungo la via principale regala alcune novità. Innanzitutto, contrariamente ad altre parti d’Australia, i negozi aprono presto. Otto e mezza quasi tutto aperto. A Perth non esiste proprio. In secondo luogo, se si guarda bene, si può notare un signore che segna con un gesso rosso gli pneumatici delle macchine. Una dopo l’altra tutte quante vengono segnate. Non è un vandalo e nemmeno un pazzo: è il controllore dei parcheggi. In Australia non esiste il disco orario, quindi per far rispettare la sosta massima di un’ora, in centro gira questo signore. Segna le auto, fa un giro di un’ora e poi ripassa. Se vede auto coi segni sugli pneumatici, allora fa la multa. Non sono sicuro che sia una trovata geniale, ma sono sicuro di non averlo mai visto girare tra le auto tra la settimana. Una maniera tutta australiana per ciudere un occhio sulle regole vigenti.

In giro a quest’ora non ci sono tanti giovani, in compenso le famigliole complete di cucciolata e nonni appresso sono sparse un po’ ovunque. Il waterfront, però, è il loro regno. Già a metà mattinata la piscina è gremita di bambini che giocano coi papà e schizzano le mamme e le nonne che li guardano divertite dal bordo piscina. Se durante la settimana ci si chiede se non lavori nessuno in questo paese, nel fine settimana si capisce bene che in effetti qualcuno lavora. Verso mezzogiorno iniziano a comparire anche i giovani e a metà pomeriggio gli spazi liberi sul prato che circona lo specchio d’acqua sono davvero pochi. In genere le famigliole si prestano anche per il barbeque del pomeriggio. Già sin dalle undici le griglie più vicine all’acque, sempre quelle griglie che il comune mette a disposizione di tutti gratuitamente, cominciano ad essere occupate da rotoli di carta assorbente e bottiglie di olio. Accanto, maschi più o meno alfa fanno sfoggio delle loro attrezzature da pic nic. Tavoli pieghevoli, frigo portatili, seggiole da campeggio e quant’altro, riempiono i petti d’orgoglio di chi li adopera. L’importante è saperli montare. Al minimo accenno di tentennamento ecco che scatta l’occhiata condiscendente del vicino. Come a dire: “E’ bello, sì, ma se non lo sai montare…”.

La ‘iornata scorre così tranquilla, tra bagni, sole e barbecue. Al tramonto, a volte metà pomeriggio, le famigliole si dileguano. Tavolini, seggioli e teli: tutto sparito. Pochi bambini in piscina. A metà pomeriggio spariscono, o appaiono, a seconda dell’ora del venerdì notte, anche i patiti del football. All’orario della partita i pub del centro sono gremiti di tifosi e di gente che approfitta della scusa della partita per iniziare a bere prima del solito. Niente calcio o rugby o cricket: football australiano. E’ uno sport tra il calcio e il rugby. Tre porte, la palla si calcia e si passa con le mani e vince chi segna di più. Si capisce che inizia la partita perchè le urla dei tifosi si spandono per tutta la città. Se non sai che giocano ti viene da preoccuparti. Che succede? Una manifestazione? Una rivolta? No, solo football. Tutto il mondo è paese. I non patiti di sport o i non beventi si consolano al parco, dove un palco è stato allestito e dove una serie di band si esibisce dal tramonto fino alle dieci di sera. Intorno al palco sono spuntati stand gastronomici e bancarelle di vestiti. Niente piade, porchette o borlenghi, ma torte di carne, sorbetto di mango e cibo thailandese. Un banco che vende fragole freschissime spande i suoi odori per mezza festa. Coloro che invece proprio non vogliono saperne di tutta questa confusione accendono un falò sulla spiaggia e si passano la serata bevendo e cantando. Non faranno il bagno di mezzanotte tutti nudi, per via delle meduse, o forse lo faranno e domani si chiederanno come mai non riescono più a sentire parti del loro corpo. Quelli che hanno iniziato a bere per via della partita stanno ormai vagando per le strade del centro, cercando di accalappiare una delle numerosissime ragazze che passeggiano tranquille. I più resistenti stanno ancora dentro ai locali, ma il tono di voce e la compostezza sono decisamente cambiati rispetto alle sei del pomeriggio. Le ragazze, invece, sono sempre magnifiche. La serata finirà quando termineranno di servire alcolici, quando i locali chiuderanno e tutti saranno a dormire. Chi a casa, chi su una panchina, chi in spiaggia e chi in van.

Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno il suo pensier farà ritorno”. O forse non ad Airlie Beach, Australia.


Il paradiso bianco

Whitehaven Beach, Whitsunday Island, QLD, 28 set 2012, ore 13:39, nave Siska all’ancora

Paradiso, idillio, sogno, incanto, eden. Tutte queste parole sono azzeccatissime per l’occasione. La spiaggia di Whitehaven è quasi sicuramente la spiaggia più bella del mondo. E’ la terza location australiana per numero di foto scattate ogni anno, preceduta solo dall’Opera House di Sydney e da Uluru. Decisamente non a tutti i torti.

Quei mattacchioni della nave lo sanno come fare salire l’attesa. Il primo giorno non ti portano nemmeno vicino alla spiaggia sognata. E tu pensi e pensi a quella spiaggia. Il giorno dopo ti scaricano su una spiaggia, ma non è quella per cui hai pagato. E dentro rodi. Quando caspita arriva quella dannata spiaggia? Cammina, ti dicono, quando finisce il sentiero nella foresta sarai arrivato. In marcia, tutti in fila, a passo lungo, in attesa del piccolo pezzo di paradiso tanto atteso. Quel sentiero nel bosco sembra non finire mai. Turisti ovunque, un secco da paura e il sole coperto dai rami. Un passo dopo l’altro. Tanti Danti che sognano Beatrice. Un bivio dopo l’altro ad un certo punto si arriva ad una passerella di legno. Ci siamo, pensi, è quasi arrivata! Poi uno sprazzo improvviso alla tua destra, un lampo di turchino accesissimo ti dà l’ulteriore conferma. La spiaggia del paradiso. Tante lingue di sabbia bianchissima che si attorcigliano con altrettante lingue di mare del blu più puro che si possa immaginare. Il trionfo delle sfumature. La foto che hai visto sul sito non rende minimamente l’idea. E’ lì, ci sei. Pensi a Cook la prima volta che l’ha vista, cosa può avere pensato. Pensi a quanto sia distante casa tua. Pensi se tornarci o meno. Pensi sì, ce l’ho fatta sono in paradiso. Sono arrivato alla tana del lungo serpente azzurro. La maggior parte delle persone arriva a questo punto, scatta una foto ricordo e se ne torna da dove è venuta più contenta di prima. Io mi sono fermato un attimo ad osservare l’industria del turismo al suo massimo splendore. Secondo un cartello presente lungo il sentiero, circa 350 persone passano di lì ogni giorno. Sono 2450 persone la settimana, 9.800 al mese e 117.600 all’anno. Sono un sacco di persone. Tutte rigorosamente in fila, tutte che scattano una foto, sorridono alla guida abbronzatissima che le accompagna e sono felici. Il compito della guida è quello di far sì che il meccanismo non si inceppi. Puoi fare la foto ma non puoi metterci troppo. Ci sono altre persone che devono far morire di invidia gli amici a casa. Tu spostati! Sei nell’inquadratura del mio gruppo! E’ davvero una cosa terribile.

Per preservare la spiaggia nella sua natura incontaminata, il parco nazionale di cui fa parte questo luogo ha coniato un bello slogan: “Take nothing but photos. Leave nothing but footprints”. E’ un bello slogan e devo dire che funziona. Scendendo sulla spiaggia la prima cosa che si percepisce è la qualità della sabbia: sembra farina. E’ fatta di polvere di silicio ed è talmente fine che vola col vento quasi fosse inconsistente. E’ quella classica amica che ti si infila nella macchina fotografica e nel cellulare senza che tu nemmeno te ne accorga. E’ bianca e pura come la neve a Natale. I piedi affondano che è una meraviglia. Il livello del mare è diverso a seconda della sponda. A sinistra è profondo e si dice ci siano anche gli squali. A destra puoi camminarci per decine di metri e hai l’acqua alle ginocchia al massimo. Quest’ultima è calda e trasparente. In alcuni punti ti accorgi della sua presenza solo quando la pesti tanto si mimetizza con la sabbia bianca. La notte, quando nessun piede umano la calpesta, le onde del mare si disegnano sulla sabbia e le danno quella inconfondibile impronta che è propria delle onde. Onde che scolpiscono onde sulla sabbia. Alle 10:30 di mattina quelle onde sono per lo più sgretolate dai piedi che le calpestano. Anche qui è come sopra: turisti. Ad ogni angolo ragazzi in posa e vecchie in gruppo che immortalano il loro passaggio sul candido nulla che forma questo istmo paradisiaco.

Vorrei davvero dire due parole alle diecimila compagnie che offrono tour organizzati qui e alla Canon e alla Nikon. Però, per il momento, io mi metto in coda. Tra poco tocca a me!


Alla ricerca di Elvis

Whitsunday Islands, Great Barrier Reef, QLD, 27 set 2012, ore 20:14, Nave Siska, Hook Passage

La grande barriera corallina è la casa di Nemo, il pesce pagliaccio più famoso del mondo. Da queste parti, però, non è lui la maggiore celebrità. Le Whitsunday Islands, letteralmente le isole della pentecoste, furono scoperte dal capitano Cook nel 1770 la domenica di Pentecoste. Sono paradisi naturali e sono tutelate dal governo australiano che ne preserva con leggi severe la vita ittica e dei coralli.

L’isola Hook è una delle più grandi. Situata a nord dell’arcipelago, è un’isola semi deserta coperta di vegetazione dalle spiagge rocciose fino alle cime delle alture. Naturalmente il mare che la bagna è quanto di più meraviglioso si possa immaginare. La Blue Pearl Bay, nella parte nord ovest dell’isola, è una delle baie più ambite e famose, meta di quasi tutti i tour organizzati e tappa obbligatoria per chi possiede una barca. A proposito, qui tutti hanno una barca. Questa mattina stavo curiosando al molo nella bacheca degli annunci delle barche in vendita. Un australiano mi avvicina e mi chiede se ho trovato qualcosa di buono. Io gli rispondo che tutto sembra buono, ma che non credo di potermi permettere nessuna delle barche che vedo. In tutta risposta questo signore sulla cinquantina si toglie gli occhiali da sole, mi guarda sornione e i dice: “Dude, everyone has money for a boat”. Che bello essere australiani, ricchi e spensierati. Tornando alla Blue Pearl Bay, una volta immersi nelle sue acque si cambia mondo. A pochi centimetri dalla superficie, branchi di pesci multicolore sguazzano nell’acqua cristallina e fanno da ignari ciceroni ai turisti. Nuotano con te, non ti toccano ma nemmeno ti temono. Il fondo marino ha tutti i colori dell’arcobaleno: il rosso dei coralli, l’arancione degli anemoni, il giallo delle pinne, il verde e i blu dei pesci tropicali. Ci sono talmente tante specie di pesci che è impossibile vederne uno uguale all’altro. Anche le tartarughe bazzigano tra queste acque, ma sono più schive nei confronti dell’uomo. Girano tra le barche e, se si è fortunati, le si può vedere fare capolino sul pelo dell’acqua in lontananza, prima che si immergano per sparire alla vista. Le guide dicevano che non c’erano squali. Non ne ho mai dubitato, naturalmente. Tutto però è cambiato quando un’enorme squalo pinna bianca mi è passato tra le gambe, pancia rasa al fondo, muso cattivo, da predatore in caccia. Lì ho cominciato a dubitare della sicurezza indottami dalle guide, ma il pescione si è dileguato in fretta ed io non ci ho più pensato. Tra tutti quanti, perché avrebbe dovuto mangiare proprio me? Paradossalmente, nuotare nella Blue Pearl Bay è come entrare in una discoteca. Anche il nome è un po’ da discoteca di vacanza. Ci sono un sacco di tizi mai visti che ballano in una pista formata da acqua e coralli. Ognuno è vestito in maniera diversa. Non ci sono mode, solo originalità, e nessun vestito è uguale all’altro. C’è chi veste di blu, chi di rosso, chi di giallo, chi a righe e chi a strisce. C’è persino chi è cangiante e muta il vestito a seconda della direzione e dell’intensità del sole. Ci sono visi dolci, musi duri e facce stravolte. Però tutti si divertono. Tutti sono in pace.

Questo è il regno di Elvis. Elvis è un Cheilinus Undulatus ed è il re incontrastato della baia. Tutti lo conoscono, da Airlie Beach fino a Laguna Whitsunday ed è per questo che lo chiamano Elvis. E’ il pesce più grande che abbia mai visto! Senza esagerare, è grande come mezzo tavolo da ping pong. Dicono che abbia sette anni e anno dopo anno è diventato sempre più grande. Da queste parti è rispettato come il sindaco. Lo si vede girare placido placido tra gli altri pesci e di solito ha un piccolo seguito, una scia di pesciolini che lo seguono e gli nuotano intorno. Di primo acchito un po’ impressiona. E’ enorme e ti guarda, però non si scompone. Anzi, si comporta quasi come sapesse di essere molto più famoso di te: ti lancia un’occhiata di striscio e poi se ne va senza nemmeno salutarti. Questo suo comportamento altezzoso, almeno, conferma una cosa: le celebrità, di qualunque natura siano, se la tirano.


Airlie Beach

Airlie Beach, QLD, 25 set 2012, ore 20:15, un ostello a caso con la wifi

Sono sempre più affascinato dal meccanismo che si attiva in me tutte le volte che arrivo in un posto nuovo. Non si può spiegare in maniera scientifica, ma tenterò. E’ un trionfo di dettagli che si esulano dal tutto nonostante effettivamente lo compongano. Credo che sia la spiegazione migliore. Le piccolezze, le cose che normalmente si tralasciano, si impossessano di me e dettano le linee per stilare un giudizio. Non dipende solo da elementi banalmente deducibili da una fotografia come il mare o il clima o l’architettura. E’ più sfumato. E’ una questione di sensazioni. Il traffico leggero, il venticello, l’atmosfera, il van che romba tra una discesa ed una curva dolce, un panorama semi nascosto dalle palme. Tutto fa pensare ad un buon giudizio. A dirla tutta è un paradiso. L’ennesimo.

Appena si arriva ad Airlie Beach la cosa che colpisce sono le luci. Questa località si presenta come una collinetta tutta illuminata di luci pastello che altro non sono che le finestre e le verande delle case che docilmente si adagiano sul pendio. Ai loro piedi il centro, una lunga via piena di insegne e di negozi aperti a tutte le ore. Tutto il resto è solo backpackers. Lungo le vie una miriade di giovani provenienti da tutte le parti di Australia e del mondo si spande, e mira ed è mirata. I parcheggi, gratuiti dopo le sette di sera, sono pieni di van, camper e auto caricate tipo le vacanze italiane degli anni’50. Tutta la città, si scopre, è a misura di backpackers. Ovunque panchine e barbecue occupati da cappellini e gonnelle, ostelli e sistemazioni economiche che trasbordano di giovani. I parcheggi gratuiti e disponibili. Pub e ristoranti dai prezzi modici completano il tutto. Come si fa a non amare questo posto? Come si torna a Sydney o a Perth?

Airlie Beach è famosa nel mondo come punto di partenza per le barche che portano a Whitsundays, quello che da tutti è ritenuto il miglior arcipelago della Great Barrier Reef. Spiagge bianche come neve, mare azzurro come in Photoshop e la vita sotto all’acqua che solo il più grande ecosistema del mondo può offrire. Sebbene la Lonely consigliasse di non accettare la prima offerta proposta dalle decine di agenzie che si occupano delle escursioni laggiù, ho prenotato subito. Entro, chiedo, pago inframmezzato dai mille sorrisi della ragazza al banco. Due giorni ed una notte in barca a vela, attrezzatura e pasti inclusi, a 279 dollari. Forse avrei potuto risparmiare, ma non me ne importa. E’ come se tutto fosse rimasto sulla Motorway. Brisbane è solo un lontano ricordo. L’Australia non mi è mai sembrata generosa come ad Airlie Beach. E il paradiso continua.


Roadhouse

Motorway tra Rockingham e Mackay, QLD, 25 set 2012, ore 14:10, Kalinka Roadhouse

Lasciando Brisbane e guidando senza sosta per un paio di giorni si vedono quelle cose che in televisione diventano documentari. La strada attraversa foreste pluviali, temporali biblici, fulmini da giorno del giudizio, fiumi limacciosi e si inoltra nel bush, dopo aver attraversato lavori in corso e carcasse di canguri schiacciati da camion lungo i bordi della carreggiata. Tra un paese e l’altro, tra un distributore di benzina e l’altro, soprattutto, possono esserci anche centinaia di chilometri. Vederne uno quando la lancetta segna quasi zero è una soddisfazione pari a poche cose. Immaginarsi di rimanere a piedi lungo una statale in mezzo ad un quasi deserto con il sole che picchia implacabile sulla testa è un pensiero che innesca una paranoia che può durare ore. Poi si vede un cartello, un’insegna che dice “Hei, c’è civiltà, tranquillo” e si arriva ad una roadhouse.

Le “case della strada” sono in genere baracche, con poche cose dentro e ancora meno intorno. Generalmente hanno benzina, non tutte, le classiche ed immangiabili torte di carne australiane e dei servizi igenici che hanno molto poco di igienico. Però sono pittoresche e a volte sono anche graziose.

Il Kalinka mi è piaciuta da subito, da quando un cartello a dieci chilometri da qui diceva “Riposati e rinfrescati: sopravvivi a questa guida”. Poi altri, lungo la via, indicavano l’area con un panino che rideva e soprattutto il disegno di un distributore. Scendendo dal van per fare il pieno, un cartello fatto di lavagna recante una scritta in gesso blu che dice: “Homemade Bacon Egg Muffin” invoglia ad entrare. Mentre il prezioso liquido scende nel serbatoio ci si accorge di una cosa che mancava da ore, forse più: l’aria fresca. Questo luogo, questa roadhouse, è la cosa più fresca che abbia assaporato da quando la bottiglietta di acqua che ho preso fuori dal frigo questa mattina si è trasformata in pipì subito dopo. Mentre tutto questo accade, la strada scorre accanto e tante auto e camion vanno e vengono. Qualcuno si ferma ed ordina una soda, parla del più e del meno, fa i suoi bisogni e riparte. Io ho ordinato un hamburger. Pensavo ci fosse la carne ma me l’hanno servito con solo l’uovo e il bacon. Non so, sarà stato l’odore, o forse le due vecchiette che gestiscono il posto, oppure la verandina nel parco all’ombra, ma ho pensato che sarebbe stato bello fermarsi e scrivere qualcosa. Mangiare anche e prendere del fresco. A conti fatti, se ci si aggiunge anche la benzina, un luogo come questo lungo una strada come questa è il meglio del meglio del meglio.


And then came the Hippies!

Pacific Highway tra Byron Bay e Tweed Heads, NSW, 21 set 2012, ore 18:09, Mac Donald’s

Byron Bay è semplicemente incantevole. Un piccolo centro, un reticolo di strade costeggiate da negozietti e ristoranti. Un faro, dieci spiagge e milioni di surfisti. Questa piccola cittadina dedicata al famoso poeta Lord Byron è il punto più orientale dell’Australia. Il promontorio su cui è costruito il bianco faro di Byron Bay è il punto esatto. Da lassù la vista è magnifica. Da entrambe le parti solo spiaggia infinita, un mare verde e ondoso e surfisti che lo cavalcano. All’ora dell’uscita dalle scuole, su qualunque spiaggia di Byron Bay si riversano studenti e studentesse che, senza nemmeno togliersi la divisa da scolari, si buttano in mare a fare il bagno e si siedono sull’infinito bagnasciuga a chiacchierare. Tutti ridono, tutti sono felici. Loro e il mare, due cose tanto diverse eppure tanto unite. Questa unione traspare anche osservando i surfisti di tutte le età che affrontano onde che vanno dal modesto cavallone all’onda enorme e pericolosissima. Bambini, teenagers, quarantenni, anziani: tutti surfano. Tutti al mare.

A pochi chilometri da Byron Bay si trova Nimbin. Questa minuscola località collinare si raggiunge solo dopo aver attraversato chilometri di campagna collinare, la versione italiana dei colli bolognesi solo che anziché le vigne qui ci sono le macademie. Una volta giunti alla meta, si arriva anche in un’altra epoca e più precisamente nel 1967. E’ stato quello l’anno in cui gli hippies sono giunti per la prima volta in questo sperduto paesino. La storia la si può apprendere al museo, se così lo possiamo chiamare, del furgone Wolkswagen, un agglomerato di carcasse dei celebri furgoncini simbolo degli hippies e della libertà. Dopo aver riassunto la storia del paese dal primo insediamento al 1966, solo una scritta rimane in fondo: And then came the hippies! L’atmosfera è davvero quella di Woodstock. Intanto qui la mariuana è più che tollerata. In caso di dubbi bastano le facce degli abitanti a confermare che la cannabis è presente in loco, e le persone sono tutte gentile in modo quasi psichedelico. Passeggiando per strada ti fermano persone mai viste o interpellate e un dialogo tipo potrebbe essere questo: “Ragazzi devo andare un attimo via, però la mia galleria di arte che vende lattine usate è lì dopo il caffè. Naturalmente non potete comprare nulla perchè io non sarò là, ma fate pure un giro dentro. Le chiavi le ha la ragazza del caffè. La vita è bella”. Cose così insomma.

Gli edifici sono tutti dipinti coi colori dell’arcobaleno o con immagini del Buddha o foglie di mariuana. Ogni tanto passano anziani coi capelli bianchissimi, tutti sorridenti e con le braccia piene di tatuaggi. Probabilmente sono lì dal 1967 e probabimente sono gli ultimi in grado di dire: “And then we came!”.


Port Macquarie

Port Macquarie, NSW, 19 set 2012, ore 20:41, parcheggio

Proseguendo verso Nord lungo la Pacific Highway si giunge a Port Macquarie. Dalla Lonely Planet viene presentata come una banalissima città del lungomare che però, una volta raggiunta, si rivela essere molto di più. La caratteristica che colpisce maggiormente di Port, come viene chiamata dalla gente del luogo e come è indicata sui cartelli, sono le mille spiagge che può vantare. Situata su un promontorio roccioso, è tutto un susseguirsi di spiagge incastonate nella roccia. Partendo dalla Lighthouse Beach, la spiaggia del faro, queste insenature continuano fino al centro città e alla centralissima Town Beach. Per gli abitanti di qui il mare deve essere come una seconda casa. Quasi davanti ad ogni giardino, e i giardini di qui appartengono a ville affacciate sull’oceano, c’è una barca parcheggiata. Lungo le strade si incontrano giovani in costume che, con una tavola da surf sotto al braccio, ridono e scherzano e si dirigono alle spiagge. Anche se qui non è ancora estate, sono tutti abbronzatissimi, biondissimi e con occhiali da sole e cappellino.

Il centro cittadino è un continuo sali scendi di strade intersecate da rotatorie. Il traffico non è soffocante anche se la città, nel complesso, è parecchio vivace. I negozi, e non i grattacieli pieni di uffici, formano il Central Business District e ce ne sono per tutti i gusti. A Port, infatti, sono finalmente riuscito a trovare un libro che cercavo da tempo. Il Camp 6 Australian Wide è la guida fondamentale per tutti coloro che si muovono in van attraverso l’Australia. E’ un librone di trecento pagine che racchiude uno stradario di tutto il Paese e una lista di oltre tremila aree di sosta con informazioni circa l’ubicazione, i servizi offerti e il prezzo di ogni campeggio. Farne a meno è quasi impensabile.

Seguendo la Lakes Way, prima di giungere a Port, si passa per Forster. Una città come tante, strade larghissime e case spaziali. Qui però ho visto una cosa che voglio ricordare. Ad un certo punto la strada prosegue su un ponte che attraversa lo stretto tra il lago Wallis e l’Oceano. Qui ho visto, finora, il fondo marino più bello d’Australia, con sabbia bianchissima e acqua dalle mille sfaccettature di turchese. In alcuni punti il fondale è così basso che si possono notare delle chiazze di acqua trasparente e bianchissima sabbia. Tutto intorno, case, parchi giochi e piccoli moli. E’ quasi surreale talmente è bello il contrasto tra il mare tropicale e una cittadina qualunque. Ero indeciso se prendere la Lakes Way. E’ una deviazione dalla Pacific Highway che costeggia la zona del lago Myall e si estende attraverso il Parco Nazionale da cui prende il nome. E’ stata però una gran scelta. Oltre ad avermi regalato Forster è stata una grande esperienza guidare attraverso le foreste pluviali che circondano il lago. Chilometri e chilometri di alberi e cartelli di koala e canguri ad ogni curva. Evviva l’Australia!

Come ogni sera, anche a Port Macquarie, il sole scende lento verso il mare e il cielo si infiamma. Tutto va per il meglio.

E il viaggio continua.


Sì viaggiare

Pacific Highway tra Newcastle e Nelson Bay, NSW, 18 set 2012, ore 20:15, Mac Donald’s

Viaggiare lungo le strade d’Australia è la cosa migliore che si possa fare se si ama guidare. Oggi ho anche sperimentato il “confronto” australiano. Mentre ero parcheggiato davanti ad un supermercato si è avvicinato un signore abbastanza anziano. Mi ha chiamato mate, amico, e mi ha chiesto se poteva vedere il mio van. Su due piedi non capivo cosa intendesse, ma poi ha spostato la sua figura, ha puntato il dito verso un mezzo simile al mio e ha detto: “Anche io ho un van!”. Fantastico. Abbiamo allora iniziato a vedere il retro, gli sportelli, la cucina e il letto del mio van, per poi passare al suo e fare il raffronto. Mi ha detto di avere acquistato il suo quando è andato in pensione. Voleva viaggiare. Poi però il figlio glielo ruba sempre e quindi non si è quasi mai mosso da dove vive. Mi ha stretto la mano, mi ha augurato buon viaggio e se n’è andato per la sua strada. Non mi ha nemmeno detto il suo nome. Gran gente gli australiani. Un tizio mai visto prima mi ferma e ci scambiamo pareri e opinioni come se ci fossimo conosciuti da sempre.

Oggi ho anche imboccato la Pacific Highway, una delle strade più famose e battute d’Australia e del mondo. E’ una superstrada gratuita che corre da Sydney fino a Brisbane e solca tutto il Nuovo Galles del Sud bordeggiando la costa. Ogni tot chilometri c’è un’area di sosta nella quale ci si può fermare, ci sono i servizi, l’acqua per il van e si può dormire la notte. Tutto gratuito. I bagni non sono da Waldorf Astoria, ma sono sempre meglio di un secchio. Il bello di viaggiare in van è la lentezza. Sull’Indian – Pacific ho capito la bellezza del viaggio lento. Non c’è fretta, non si deve andare da nessuna parte. L’obiettivo non è arrivare ma vedere. Gli australiani hanno una guida abbastanza rilassata e quindi finora tutto va come deve andare, ci si muove con piccoli spostamenti e se ci si perde non fa nulla, tanto non bisogna andare da nessuna parte. Basta andare a Nord, verso Cairns, verso il Queensland e i suoi mari dai mille azzurri e la sua barriera corallina. E verso il caldo.

Verso metà mattinata il Nord mi ha portato a Newcastle, una città divisa tra il fiume Hunter e l’Oceano Pacifico. E’ un bel posto per fermarsi una mezza giornata, soprattutto dalle parti del faro. Mentre camminavo lungo l’istmo che costeggia il porto, un ammasso di nubi blu ha deciso di annunciare un temporale di proporzioni bibliche. La luce era fantastica per le foto, ma i fulmini che hanno iniziato a saettare attraverso il blu sono stati il segnale che era ora di rientrare a “casa”. Arrivato al van ho deciso di ripartire.

Mi piace avere una casa mobile. Non ho mai viaggiato in questa maniera. Mattia, il ragazzo di Perth che mi ha dato i primi consigli, ha comprato un van in Queensland, ci ha girato l’Australia e poi è arrivato a Perth. Lì, dopo essersi stabilito, ha venduto il van dopo mesi di burocrazia e riparazioni. Due settimane dopo ne ha comprato un altro. Pazzia o amore?


Vivere in van: la guida, lo spazio, il bagno

Pearl Beach, NSW, 17 set 2012, ore 23:56, parcheggio di Coles

La nuova fase di questo viaggio è partita non benissimo e la potremmo chiamare “Riconsiderare”. Ci hanno messo un’eternità a consegnarci il mezzo e non ci hanno spiegato quasi nulla. Per fortuna avevo conosciuto un ragazzo a Perth che mi aveva accennato le principali funzionalità del van. Grazie Mattia. Il mezzo è molto vecchio, ha quasi 500.000 chilometri. Il cambio è indecente, le serrature non funzionano tutte e le chiavi sembrano fatte di burro. Curiosità: c’è una chiave per accendere il motore ed un’altra per aprire le portiere. Non appena ho avuto le chiavi in mano sono partito. Qui ho avuto la mia prima sorpresa: guidare al contrario.

Il volante è a destra e il senso di marcia è a sinistra. E’ tutto diverso. Sorprendentemente la cosa più difficile non è tanto imboccare le corsie giuste, spesso basta seguire le altre macchine, quanto mantenersi al centro della carreggiata. In Italia tendo a stare al centro della strada, quindi a destra. Qui è il contrario, ma l’abitudine mi spinge a cercare la destra. Il risultato è che spesso, senza accorgermene invado l’altra corsia. Così tutto ad un tratto accade e spesso gli altri automobilisti mi suonano dietro. Occorre davvero una forte concentrazione per guidare, non ci si può distrarre un attimo. Oggi è stato il primo giorno e spero che col tempo il mio senso della posizione stradale si adatti alla guida a sinistra. Le strade australiane mi sembravano enormi quando le guardavo dal finestrino. Ora che ci guido sopra scopro che sì, la carreggiata è larga, ma le corsie in cui è suddivisa non lo sono poi tanto. Per il momento sembro davvero il classico nonno col cappello, il tipico guidatore della domenica. Altra cosa che mi crea un’enorme confusione è che la freccia è a destra e i tergicristalli a sinistra. E’ tutto il giorno che anziché mettere la freccia, lavavo il parabrezza. Ad un certo punto ha iniziato a piovere e poi a grandinare e anziché regolare la velocità del tergicristalli mettevo la freccia. Fantastico. Patente, giorno uno, dieci anni dopo.

Appena ci si ferma e si vuole mangiare qualcosa, ecco che ci si accorge di un altro particolare: lo spazio è poco. La cucina è attaccata al letto che è attaccato al frigo che è attaccato al lavabo. L’elettricità c’è, ma bisogna essere attaccati ad una presa esterna per farla andare. Non c’è batteria per le prese, solo per le luci e per il frigo. Il tavolo è anche il letto, bisogna solo smontarlo e rimontarlo il giorno dopo. E poi il bagno. Non c’è.

Se sei in un’area di sosta non è un problema. Se sei in un parcheggio di Coles allora è un problema enorme. Qui, però, entra in gioco un altro fattore: la Cina. L’anno scorso, durante il mio peregrinare in quel Paese, ho visto bagni che non riesco a descrivere in questo momento senza ricorrere a brutte parole e questo mi ha insegnato una cosa che diventa preziosa in momenti come questi: quando non hai un water bastano un secchio, un sacco del pattume e una salvietta intima. Magari profumata.