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Scusa, hai detto Tibet?

Ulaanbaatar, Mongolia, 22 mar 2011, giorno 70, ore 16:20, ostello

Mi è arrivata la mail che tanto aspettavo: il Tibet è aperto, e sembra lo sia dal 18 di marzo. Sono felice e credo che me ne ritornerò in Cina dopodomani. Domani andrò all’ambasciata Kazaka per sapere se possono farmi il visto. In questi due giorni ho avuto un sacco di informazioni. L’agenzia che mi ha detto Manuel mi ha garantito il visto russo per 130$ americani e in dodici giorni lavorativi. Sono 25$ in meno dell’altra agenzia e in più ho un’assicurazione sanitaria mongola per l’intera durata del visto, cioè 21 giorni. Se le cose dovessero andare per il meglio, una volta giunto a Novosibirsk scenderei dalla Transiberiana per dirigermi verso il Kazakhistan e Astana. Lì farei richiesta per un nuovo visto russo e poi mi dirigerei su Mosca. Spero che la burocrazia, per una volta, non mi crei problemi. Ma torniamo al Tibet. Per motivi di ristrettezze economiche non posso permettermi il treno diretto Ulanbaatar – Beijing. Prenderò invece un treno nazionale per Zamyn-Uud, attraverserò il confine in autobus, in jeep o in autostop, e da Erlian prenderò un altro treno nazionale per Beijing. Il diretto costa 80 euro, la soluzione a tappe 30. E’ un bel risparmio ed è il modo in cui i ragazzi francesi sono arrivati a Ulaanbaatar. Una volta arrivato a Beijing prenderò il treno per Xian, e da lì proseguirò con un altro treno per Xining. Qui sosterò alcuni giorni per abituarmi all’altitudine e poi via, verso Golmud, una delle città più elevate del mondo. Un altro paio di giorni e poi, finalmente, il Tibet, Lhasa. Essendoci solo, “solo”, 800 metri di differenza di altitudine tra Golmud e Lhasa, con questo metodo non dovrei avere nessun tipo di problema per quello che riguarda il mal d’aria. Se dovessi avere qualche capogiro, Luciano, un argentino che ho incontrato a Beijing, mi ha detto di mangiare un po’ di cioccolato e tutto passa. E’ il metodo che lui usa quando vola in Perù dall’Argentina. Quindi direi che sia tutto. Il mio equipaggiamento da montagna/freddo è a postissimo. Gli scarponi mi fanno un po’ male, ma credo che riuscirò ad abituarmi. Passare da un paio di Nike ad un paio di anfibi militari sovietici richiede pazienza. Però il Tibet ha riaperto, il resto non mi interessa.


Il treno

Cina, 16 mar 2011, giorno 64, ore 12:00, treno Beijing, Ulaanbaatar, Mosca

Il treno su cui giungerò in Mongolia, mi dicono appartenere alla linea Transmongolica, il ramo mongolo della Transiberiana che arriva fino a Beijing. Questo stesso treno sul quale sono coricato a scrivere, arriverà a Mosca tra otto giorni. Tutto questo lo so per due motivi: il primo è che su ogni carrozza c’e scritto in cinese, russo e mongolo Beijing, Ulaanbaatar, Moskva, il secondo è che nel mio stesso scompartimento ho ritrovato un italiano: Manuel. Siamo gli unici due a dividere lo scompartimento. Costui ha quarantadue anni, come lavoro fa l’accompagnatore turistico ed è un esperto di treni. Vive a Londra, quando non è in viaggio, e laggiù per quindici anni ha lavorato come capotreno sull’Eurostar della tratta Londra – Parigi – Bruxelles. Da un paio d’anni ha voltato pagina e accompagna i turisti per un’agenzia londinese attraverso le ferrovie, soprattutto orientali, che conosce così bene. Russia, Cina, Mongolia, Europa dell’est e Turchia sono ormai per lui come una seconda casa. Mi ha raccontato tantissime cose interessanti, sia sui treni che su ciò che gli è capitato. Di gran lunga l’incontro migliore che abbia mai fatto su un treno.

La Transiberiana mi affascina tantissimo, non c’è che dire. Una strada ferrata che corre da un capo all’altro del mondo attraversando paesaggi incantati e desolati allo stesso tempo. Prometto a me stesso che quando sarà il momento farò di tutto per poter tornare a casa viaggiando su quel treno. La Russia, come sempre, esercita il suo richiamo su di me. Mi chiama e mi attira ogni volta che anche solo ne parlo.

Lasciando Beijing si attraversa una terra arida e inospitale. Tutto è dello stesso colore, un marrone terra secca che alla luce abbagliante del sole fa apparire tutto come se fosse un immenso deserto. Alberi spogli dello stesso colore della terra e fiumi ghiacciati grigio sporco sembrano dipinti sulla tela del Pianeta. Sullo sfondo, il pittore, ha posto delle catene montuose; brulle, aride, marroni anch’esse. Non una casa o una macchia di vegetazione si scorge sulla loro nuda roccia. Alcune serre, alcuni campi incolti su cui è riconoscibile la geometria dell’uomo. E’ tutto qui. Il treno scivola lentamente sulle rotaie, le quali formano l’unico segno inconfutabile della presenza dell’uomo su querste terre. Almeno su una piccola parte di esse. Sembra che il treno domandi il permesso per attraversarle. All’interno delle carrozze fa un po’ freddo. Il riscaldamento è indipendente per ogni carrozza, la quale possiede un comignolo ed una stufa a carbone. Si riesce proprio a percepire tutta la tradizione, tutta la storia di questa linea ferroviaria anche solamente passeggiando lungo i corridoi del treno. Tutto è poesia, tutto è romantico. Il viaggiatore sul treno storico che attraversa il deserto per giungere nell’Impero. Quali orizzonti mi porgeranno il saluto una volta attraversate le montagne? Un altro deserto, questa volta quello del Gobi, una creatura temuta da tutti e rispettata dai più. Mi sto avvicinando lentamente ad uno dei punti più inospitali ma allo stesso tempo affascinanti della Terra. La geografia remota del sussidiario delle elementari vissuta di persona. Non un rumore, non un movimento sembra trapelare al di là del finestrino. Una cartolina reale che scorre col treno, che viaggia con lui. Lo scompartimento sembra un piccolo salottino, per quanto eccezionalmenmte spartano. Quattro letti, non sei come sui treni di linea cinesi. Può sembrare una differenza da nulla, una bazzecola, ma dove si sta stretti e male in sei, si sta alquanto bene in quattro. Senza contare, poi, che per ora siamo solo in due. Nel salire sul treno ci consegnano anche due buoni pasto, premura del tutto inattesa. Pranzo dalle 11:30 a mezzogiorno e cena dalle 17:30 alle 18:00. Il bagno ha un water, un rotolo di carta igienica e persino un coprisedile igienico. Il letto è lungo e largo, ci sono un cuscino vero, un lenzuolo e una coperta. Un treno di lusso, secondo i miei standard, sebbene abbia pochi passeggeri. Ma non mi preoccupo, mi siedo col mio compagno di viaggio e mi godo il panorama.

Improvvisamente appare qualcosa a nord, nel paesaggio. E’ un muro enorme che si snoda lungo la vallata fino a perdersi tra i meandri della montagna. Un serpente di pietra disseminato da torri d’avvistamento che corre inarrestabile parallelo al treno. E’ lei, la grande muraglia. Un regalo d’addio giunto d’improvviso e prezioso, un souvenir da parte della Cina che mi augura buon viaggio. Per togliermi ogni dubbio chiedo conferma al controllore. E’ lei, giunge la conferma. Non posso chiedere di meglio da questa tratta. Nessun restauro, nessun turista. Niente cartelli, autobus o ambulanti. La muraglia cinese originale così come doveva apparire ai viaggiatori del passato. L’Atomica Cinese dei Modena in questo frangente ha tutto un altro sapore. Alcuni contadini cessano il loro lavoro per vedere il treno passare. Con due treni alla settimana, forse qui è ancora un avvenimento per cui valga la pena fermarsi a guardare.


Arrivederci Cina

Beijing, Cina, 15 mar 2011, giorno 63, ore 23:00, ostello
Ultima notte in Cina. I preparativi sono ultimati e dopodomani sarò in Mongolia. Ho conosciuto una coppia in ostello, lei svedese, lui australiano, che sono arrivati proprio da Ulaanbataar. Hanno parlato di una città accogliente e meravigliosa. Unico neo la temperatura che, a sentire loro, la notte, raggiunge i meno venti gradi. Il mio equipaggiamento non so se potrà reggere. Per i vestiti basta mettersi addosso tutti quelli che si hanno nello zaino, ma per i piedi c’è poco da fare. Le mie Nike si sono distinte durante questo viaggio, ma hanno parecchi buchi, quindi forse sarò costretto a rimpiazzarle. Lo farei con dispiacere. Per quanto mi sia stato sconsigliato di partire per un viaggio del genere con un paio di scarpe da ginnastica, devo smentire tutte le voci. Sono state eccezionali. Mai una vescica, mai i piedi bagnati o qualunque altro disagio. Nel fango, nella pioggia, lungo la strada o attraverso la foresta, non hanno mai dato alcun segno di debolezza. Chapeau per il signor Nike.

Sono contento di lasciare la Cina. Ho davvero voglia di cambiare aria, e per quanto non abbia la più pallida idea di quello che mi attenda, sono ricco di entusiasmo per il Paese che sto per raggiungere. La Mongolia, terra di deserti e di cavalli. Si dice che ci siano più cavalli che uomini. Si dice anche che i mongoli abbiano il vizio di alzare il gomito, ma perchè biasimarli? A sentire chi ci è già stato, essi si rivelano un popolo ospitale e gentile, disposto ad aiutarti e aperto agli stranieri. Questa è la teoria, per la pratica bisognerà aspettare. Per ingannare l’attesa ho pensato bene di farmi truffare. Una piccola truffa, la prima, una bazzecola che fa sorridere. Si tratta di Marlboro. Oggi ho comprato il mio primo pacchetto di sigarette falso. Bruciano in trenta secondi e hanno un gusto che sa di cartone. Le ho regalate ad un passante. Lui era tutto contento, mille sorrisi e ringraziamenti. Aspetta di fumarle, campione. Forse però, conoscendo i cinesi, le troverà buonissime.

L’unico scoglio che non sono riuscito a superare è quello della valuta. Gira voce che la valuta mongola, in Mongolia, riscuota poco successo. Il dollaro americano, d’altro canto, è accettato come l’oro, quasi come se fosse la valuta ufficiale. Quando ero ad Hong Kong avevo trovato una banca che al bancomat ti faceva scegliere se prelevare dollari o valuta locale. L’ho ricercata a lungo, ma invano. Sono costretto a cambiare i soldi cinesi che mi sono avanzati in dollari. E’ uno spreco enorme. Oltre a dover pagare la commissione della banca al prelievo, il tasso di cambio fa invidia a quello delgi strozzini. Su www.xe.com controllo periodicamente i tassi di cambio e verifico con l’estratto conto della mia banca quanto questi signori trattengano per il loro disturbo. Tutte le volte sono circa dieci euro, tra commissione e tasso sfavorevole. Se a questi ci si aggiunge la commissione dello sportello di cambio, quello che ci rimetto su 200 euro sono circa 15, 20 euro. Non male, per la fatica che fanno. Eppure i dollari sono necessari. Anche la svedese me lo ha detto. 150 dollari americani nel portafoglio possono fare la differenza in certe situazioni. Quando arriverò in città, pertanto, seppur malvolentieri cercherò un cambio.

Per la prima volta ho anche contattato l’ostello per farmi venire a prendere alla stazione. Come i veri signori. Arrivo, mi prendono il bagaglio e mi portano all’ostello. Il Montecristo dei poveri. Non mi costa nulla, quindi mi sembrava stupido non approfittarne. Chissà, magari ci prenderò gusto a farmi trattare come un signore. Oggi mi sono anche fatto la doccia e ho cambiato gli abiti. Alcuni, la tuta no. Da che io mi ricordi la indosso da Chegdu. Il bagno però era doveroso, più che altro per quelli che dormiranno in treno con me. Lavarsi è come il sonno e il mangiare. Se l’appetito vien mangiando e il sonno dormendo, la voglia di lavarsi viene lavandosi. Contando che non mi lavo molto, ne ho sempre meno voglia. E’ che è laborioso. Non ho nè l’accappatoio, nè l’asciugacapelli. Per asciugarmi uso un asciugamano grande come un francobollo e dopo che me lo sono passato in testa risulta essere irrimediabilmente spolto. Per asciugarmi i capelli metto in testa una maglietta fino a che non sono abbastanza asciutti per indossare la cuffia. Poi aspetto. Non è comodo, nemmeno rapido, però è il meglio che sia riuscito ad escogitare.

Amo la vita del viaggiatore. Fate largo, mongoli, sta arrivando il re dei topi!


Tre altre storie

Beijing, Cina, 14 mar 2011, giorno 62, ore 20:19, ostello

1 RIVELAZIONE
Beijing è Pechino

2 EUGE VS LA GRANDE MURAGLIA
Ieri volevo andare a vedere la grande Muraglia. Una leggenda metropolitana la racconta come l’unica costruzione dell’uomo visibile dalla luna. Ciò è impossibile. Per quanto i suoi quasi 8000 chilometri la rendano lunga, i suoi 10 metri di spessore la celano alla vista dell’uomo anche senza bisogno di arrivare fino alla luna. Parecchi astronauti hanno detto di non essere riusciti a vederla dallo spazio se non con un potente binocolo. Dalla luna sarebbe impensabile, poichè l’occhio umano non possiede una risoluzione di tale portata.
Il mio ostello organizza ogni giorno un tour guidato per arrivare laggiù. Il costo è però un po’ troppo elevato per le mie finanze, senza contare che aderire ad uno di questi tour guidati è un po’ come vederla a metà. Tanti turisti che fanno tante foto stupide. E poi file, controlli, biglietti e grida. No, visitarla in questa maniera sarebbe per me più penoso che piacevole. Andandoci da indipendente si risparmia parecchio, se non fosse che è difficile trovare gli autobus per arrivarci. Il governo cinese, ancora una volta, è stato molto abile nello sfruttare questa meraviglia. Sin dalla sua nascita questa costruzione è servita poco al suo scopo originale, cioè quello di tenere lontani i nemici del regno. Essi, infatti, hanno sempre trovato facile accesso grazie alle varie porte disseminate per forza di cose lungo il percorso. Come disse qulcuno, “Non è importante la larghezza del muro, quanto il coraggio degli uomini che lo difendono”. Uno dei suoi maggiori usi nell’antichità è stato quello di mezzo di spostamento. Una strada sopraelevata e lastricata che correva da un capo all’altro del Paese. Dopo svariate invasioni e dopo l’avvento di nuove armi, quest’opera è diventata inutile. Finchè, all’inizio del secolo, è intervenuto il turismo a valorizzarne la presenza. Il governo ha preso la palla la balzo, ne ha ristrutturato alcuni pezzi intorno alla capitale, e ha indirizzato lì la maggior parte del flusso turistico. In questo modo, milioni di turisti ogni anno hanno da spartirsi per alcune ore poche decine di chilometri di muro mentre altre migliaia osservano da lontano.
Devo confessarlo, non sono riuscito a trovare l’autobus. Ho seguito le indicazioni della guida, ma dove mi era stato indicato, non ho trovato nè autobus, nè segni di altro mezzo che potessero condurmi al muro. A conti fatti, però, ne sono contento. Sono andato in Cina e non ho visitato la muraglia. Almeno non condotto come una pecora, come un turista. Conoscendomi, so che una visita del genere avrebbe prodotto la più grande tempesta di rabbia interiore. Quindi, molto serenamente, ho preso la metropolitana e sono andato al Palazzo d’estate. Niente muraglia, dunque. Se riuscirò a vederne altri tratti, magari nell’interno del Paese e sempre da indipendente, ben venga, ma niente tour organizzato.

3 UNA BAMBINA
Passeggiando a caso per la città si arriva al China World. Questo è un complesso di edifici, tra cui quello più alto di Beijing, che racchiudono un grande centro commerciale, un hotel, uffici, un centro congressi e tutto quello che può stare dentro ad un agglomerato del genere. Camminando lungo i viali del centro commerciale si possono notare i marchi delle più prestigiose case di moda e gioielleria: Gucci, Luis Vuitton, Furla, Fendi, Tiffany, Cartier e Bulgari. In mezzo al complesso si trova anche una pista da pattinaggio sul ghiaccio. Bambini e ragazzi pattinano spensierati seguendo le note di una musica cinese. Qui ho assistito ad un fatto che mi ha colpito.
Cercavo qualcosa da mangiare, una merenda, niente più, quando la pista è stata sgombrata ed ha fatto il suo ingresso la macchinina che pulisce il ghiaccio. Adoro questo macchinario. Fa avanti e indietro lungo tutta la pista e quando il suo lavoro è terminato il ghiaccio pare uno specchio dal gran che è tirato a lucido. Mi sono fermato volentieri ad osservare il brav’uomo che adempiva a questo piacevole compito. Terminato il lavoro, però, nessuno è rientrato in pista. Le porte di accesso restavano inesorabilmente chiuse. Che stesseo chiudendo? Impossibile, erano appena le quattro di pomeriggio. Altamente incuriosito, attendo gli sviluppi. Ad un tratto, fanno la loro comparsa sul ghiaccio due figure: un uomo di trent’anni e una bambina di non più di otto. L’uomo prende il microfono e dice qualcosa in cinese che io non capisco. La bambina, invece, comincia a pattinare. Tutti gli occhi erano puntati su di lei. La cosa che più mi ha stupito, e che mi ha fatto pensare che quello fosse un allenamento, era il vestito della bambina. Una specie di calzamaglia nera che copriva tutto il corpo ed anche i pattini, proprio della specie che si osserva quando si guarda alla televisione un’esibizione di pattinaggio artistico. Non mi ingannai. Dopo qualche giro di riscaldamento la bambina si mette in posizione di partenza e l’uomo parla ad una radio che ha estratta dalla tasca. La musica, che fino a quel momento eraa cessata, riprende all’ordine dell’uomo, e la bambina inizia a danzare sul ghiaccio. Subito ho pensato a quanta pressione dovesse avere quella bambina sulle spalle. Tutto il centro commerciale la stava guardando. Ho immaginato che quella fosse una tattica, un allenamento per abituare l’atleta ad avere gli occhi puntati addosso mentre esegue gli stessi esercizi per una competizione internazionale. Gli occhi del pubblico delle olimpiadi sono come gli occhi del pubblico di un centro commerciale, in sostanza, quindi mi sono limitato ad ammirare l’astuzia e il grado di preparazione degli atleti cinesi. La bambina, d’altro canto, non doveva pensarla come me, perchè dopo appena due figure è caduta. L’uomo si è adirato. Urla, gesti secchi, ordini. Non so cosa gli abbia detto, ma dal suo atteggiamento non sembrava gli stesse dicendo “Hei, ti sei fatta male? Continuiamo?”. A questo punto qualcuno potrebbe cessare di pensarla come me, ma la mia convinzione è che anche questo sia giusto. Ogni maestro è diverso da un altro e magari, in questa sua intolleranza al minimo errore, si trova la chiave del successo che un giorno forse questa bambina raggiungerà. Certo, si può insegnare anche in altri modi, magari un po’ più affabili, ma l’importante credo sia il risultato. Così pensavo, mentre la bambina si rimetteva in posizione di partenza e la musica ricominciava. Questa volta, nessun errore. Un’esibizione bellissima. Questa bambina di otto anni danzava divinamente, scivolava sul ghiaccio con una padronanza di movimenti ed una sicurezza che nulla aveva da invidiare agli atleti professionisti. Non sono un esperto, va detto. Non distinguo un pattinatore olimpico da uno scandinavo che gozzoviglia sul ghiaccio in una domenica mattina qualsiasi di Stoccolma, però quella bambina era bellissima. Pattinava con la grazia di un angelo. Con i suoi movimenti metteva la gioia nel cuore. Ahimè diversamente la pensava il suo maestro. Grida, continue correzioni e gesti che esprimevano esasperazione hanno accompagnato fino in fondo tutta l’esibizione. Poi la bambina cadde di nuovo. Il maestro la chiamo a sè. Quando la bambina giunse a lui, le diede una pacca sulla spalla, non amichevole, ma come uno schiaffo, e poi le indicò ancora la posizione di partenza. Non so se il padre della bambina fosse presente all’allenamento della figlia. Se fossi stato io quel padre, di sicuro non avrei tollerato un simile gesto da parte dell’istruttore di mia figlia. Non tanto per lo schiaffo, quanto per il merito. Se al rimprovero dell’uomo ella si fosse alzata e l’avesse mandato a quel paese, avrei anche capito. Il rispetto è importante e ognuno lo amministra a modo suo. Ma quella bambina era l’impassibilità fatta a persona. Non una parola, non un gesto trapelavano dal suo atteggiamento. I suoi occhi erano dello stesso ghiaccio sul quale pattinava. Un’espressione da donna vissuta che non mostrava nessuna gioia. Questo è quello che mi ha fatto più pensare. Che valore può avere anche un oro olimpico se l’atleta che lo ottiene non prova emozione alcuna nell’ottenerlo? Se non c’è gioia, voglia di pattinare e di vincere, che valore può avere un’eventuale medaglia conquistata? A mio avviso nessuno. Considerando che un settimo dei talenti mondiale nasce sotto la bandiera cinese, mi sembra facile prendere questi talenti ed addestrarli ( e dico addestrarli, non allenarli, poichè questo mi pare di aver veduto) a vincere. Però non ci vedo il merito. In tutte le Olimpiadi che ho potuto vedere, a memoria ricordo che sempre la Cina abbia fatto incetta di medaglie. Ma quante di queste medaglie sono nate dal desiderio di vincerle e quante dalla costrizione a vincerle? Non c’è nulla di male a coltivare, ad assecondare il talento: il male sta nel perseguitarlo, nell’imporlo. Magari è tutto un mio farneticare, magari quella bambina era all’apice della gioia nel ricevere i rimproveri del maestro perchè sa che un giorno gli frutteranno. La sua espressione, però, non indicava niente di tutto questo. Avrei voluto sapere il nome di quella bambina. Forse un giorno, ho pensato, la si vedrà vincere un oro alle Olimpiadi ed io vorrò sapere se quella è proprio la bambina che ho visto allenarsi nel China World di Beijing. Purtroppo non sono riuscito nell’intento. Ero al piano superiore rispetto alla pista e nel tempo di trovare la strada per arrivare alla pista, questa si era aperta e aveva lasciato spazio alle altre persone. La bambina era sparita, ma se dovesse succedere ciò di cui sopra, credo che mi basterà guardarla negli occhi per sapere se è la stessa persona. Occhi di ghiaccio.


Le vacche

Beijing, Cina, 11 mar 2011, giorno 59, ostello

Ogni popolo potrebbe essere rappresentato nei modi e in quant’altro da un animale. Se per esempio dovessi dire quale animale rappresenta per me i giapponesi, direi senza dubbio alcuno le formiche. Ordinate, tutte in fila, pulite e laboriose. L’animale che invece rappresenta, sempre a mio avviso, i cinesi, è la vaccha. Una mandria sconfinata di vacche. Soffermiamoci su questo animale, considerato sacro dagli indiani e da noi mangiato e allevato. Immaginate vacche a perdita d’occhio. Esse, nella loro tranquilla esistenza, non hanno altro pensiero che mangiare, dormire, espellere le scorie e riprodursi. Immaginate adesso un campo sconfinato dove queste compiano il primo e il terzo dei bisogni sopra citati. Li compiono con noncuranza, senza alcuna remore ed esattamente nello stesso luogo. Nessuno si scandalizza. Immaginate adesso il mandriano che le deve condurre e controllare. Esso non può comunicare in alcun modo con loro se non tramite l’uso di suoni e di recinzioni. A volte le batte, ma in Cina questo non succede. Tutto il resto però sì. I miei occhi hanno veduto cose che se accadute in Europa, certo è successo solo in un passato assai lontano.

Stazione dei treni di Xian. Cinesi a perdita d’occhio che attendono il treno. Alcuni sulle panchine, altri a terra, qualcheduno in piedi ma tutti con un ingombrante bagaglio da portarsi appresso. In un angolo una madre e un pupo. I bambini cinesi, almeno quelli molto piccoli, hanno tutti un curioso vestiario. Le loro braghe e le loro mutande dispongono di un taglio verticale sul posteriore che lo attraversa in tutta la loro lunghezza. Quando questi stanno in piedi e camminano, una piega particolare nascondo le loro innocenti intimità, ma quando necessitaano di andare di corpo, non occorre che la madre tolga loro i calzoni. Essi sono già predisposti. Torniamo alla stazione e alla madre. Un suono, forse anche solo un’espressione del pupo, le fanno capire che egli deve fare la cacca. E che si può perdere forsse tempo prezioso per cercare un servizio? Giammai. Infatti la madre si alza e, condotto il bimbo in un angolo della stazione, gli dà il consenso per liberarsi. Così, mentre un signore anziano consuma i suoi noodles seduto appresso alla famigliola, il pupo fa la cacca. Non fa una grinza. Ecco però che il mandriano, in questo caso una sirena, dà il segnale: si aprono i cancelli. Subito è un calpestìo generale e una massa informe e indisciplinata si dirige verso uno strettissimo cancello. Se qualcuno dovesse cadere, sarebbe certamente perduto. Manca solo la polvere e vi sembrerebbe una mandria. Chi impreca, chi è tranquillo, chi ha perso il bagaglio, chi ha il pacco incastrato tra la gamba e il trolley di un vicino: non importa. Il flusso umano conduce tutti verso il cancelletto. Transenne lungo il camminamento impediscono ai più indisciplinati di lasciare la mandria. Non c’è da pensare, solo da muoversi. Niente formiche: vacche.

Beijing è una città straordinaria. Davvero un capolavoro di architettura e di storia. E di polizia. Forse la Cina è in guerra, forse ha paura, non so. Quello che so è che non ho mai visto tanti metal detector e punti di controllo in vita mia. Piazza Tienanmen. Uno si immagina, da viaggiatore che ha ancora fiducia negli uomini, di arrivarci e di camminarci immerso nello stupore dettato dalla dimensione e dalla sensazione di storia. Sì, si può fare, ma prima bisogna passare i controlli. Arrivi e ti fanno mettere lo zaino dentro all’apparecchio a raggi X. Davanti a te c’è una vecchia che viene quasi fatta spogliare. Poi è il tuo turno. Che fai? Vado in piazza. A fare che? Mah, un giro. Sei un terrorista? No, no. Che cos’hai in tasca? L’iPod. C’è dentro esplosivo? No, non è un’arma; potrei tirarlo, ma non lo farò. Cosa? No, no, agente. Costa troppo per ammazzarci un cristiano. E così si passa il controllo e si arriva in piaazza. Qui, ad ogni mattonella c’è un agente. E’ una cosa incredibile, davvero. Io aggiungo un po’ di finzione letteraria, ma non tanta da far offuscare i fatti. Controlli a parte, è un posto in cui recarsi almeno una volta ne3lla vita. In fronte alla piazza, la città proibita. Un enorme muro ne occulta la vista, e non è che il primo cortile. L’imperatore doveva amare davvero la privacy. Non sono entrato, lo farò domani. Oggi allenamento.

La tecnologia mi sta tradendo. La mia macchina fotografica da un po’ di giorni si è ammalata. Più che altro è vecchiaia. 33.000 scatti in un anno e mezzo sono tanti per la mia fedele amica. Spero che non decida di morire in Cina perchè altrimenti sarei rovinato. Come se non bastasse anche il mio pc ha cominciato a fare le bizze. Non so dare una definizione precisa del problema: si rifiuta di eseguire i miei ordini, è svogliato, spento. Se mi dovessero abbandonare entrambi, mi priverebbero di due dei miei principali interessi: la fotografia e la scrittura. Oppure potrebbero aprirmi nuovi orizzonti. Chissà? Staremo a vedere.

Il mio futuro si chiama Mongolia. Mercoledì, due giorni prima che mi scada il visto cinese, ho il treno per Ulaanbaatar. Per quelli di voi che desiderassero recarvisi da Beijing, due cose: il visto non costa 30 dollari americani ma 55 euro sonanti, mentre il biglietto del treno, il più economico, non costa 770 RMB ma 1350. Oggi ho quasi pianto a queste due notizie, ma fuori dal Paese ci devo andare, quindi c’è poca scelta.

Evviva la Cina. Evviva le vacche.