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Archive for February, 2011

Il monte del kung fu: Wudang

Autobus per la cima del monte Wudang, Wudangshan, Hubei, 26 feb 2011, giorno 46, ore 12:31

Questo posto è davvero caro. Il biglietto per l’autobus che percorre i 26 chilometri che mi separano dalla cima costa 210Y. Per la Cina sono cifre astronomiche e finora è tutto costruito ad arte per intrattenere i turisti. Spero di riuscire a restare su per la notte, altrimenti è un bel danno per le mie finanze. Qui ci sono tanti turisti. Li si riconosce dalla faccia e dalle macchine fotografiche appese al collo. Però nessun bianco, come al solito. Sono poco fiducioso, spero che il tutto non si risolva in un teatrino. Lo spero tanto.

Nanyan Palace, monte Wudang, Hubei, 26 feb 2011, ore 22:17, Xiang He Hotel

Questo posto vale ogni centesimo speso per arrivarci. Credo di poter dire che è il posto più bello che abbia visto finora in Cina.

Prima di arrivare in cima al monte mi fermo al Tempio delle nuvole viola dell’abate You Xuanda. Il nome già di per se vale l’emozione che suscita.

Ingresso del Tempio delle nuvole viola

Sono rimasto di stucco nel vederlo con i miei occhi. Tanta strada per giungere nel luogo sacro del kung – fu. La leggenda narra che sempre su questo monte un monaco del 13esimo secolo, tale Zhang San Feng, abbia preso la tecnica dura dei monaci Shaolin per trasformarla in qualcosa di più dolce: il Taichi. La spiritualità è presente in ogni dove. Viene quasi voglia di lasciarsi tutto alle spalle per stare un po’ qui, soli, in ritiro, lontano da tutto e da tutti. Entrando nel cortile la costruzione principale guarda immobile tutti dall’alto delle sue rampre di scale. E’ un mondo fuori dal tempo. Sono deciso a non perdere nemmeno un momento per visitare il resto del monte quando incontro una ragazza che parla inglese. E’ una guida del posto e si offre di darmi informazioni per il mio percorso. Mi consiglia di passare la notte a Nayan Palace per andare in cima il giorno dopo. Ormai è tardi e la salita è dura dice. Se non avessi incontrato questa ragazza avrei perso tanto di quello che questo monte aveva da offrire. Arrivato sul posto e trovato l’albergo (stanza singola a 100Y) deciso di continuare ad esplorare la meraviglia di questi luoghi. Inizio a salire una delle mille rampe di scale e mi ritrovo alla Grotta del Dio della tempesta, un piccolo tempietto situato sotto ad una parete rocciosa a picco sul monte. Proseguo lungo il sentiero di scalini e arrivo a quello che a mio avviso è il luogo più magico dell’intero monte. Non mi stupisce che sia stato scelto dai produttori di Hollywood come location del film “Karate kid la leggenda continua”, l’ultimo capitolo della famosa saga. Il Nanyan Palace è un tempio che si espande su un burrone quasi in cima alla montagna. Le sue sale e le sue divinità sono venerate con ossequio dai visitatori credenti e dai pellegrini. Il tempio taoista in inverno è avvolto dalle nubi e dalla nebbia, ma questo non fa che accrescere l’atmosfera spirituale. La roccia del drago, una sporgenza architettonica che si affaccia su un burrone, è forse il simbolo principale della location.

La sera è scesa sul monte Wudang, e io me ne torno in albergo dove mi aspetta una brutta sorpresa. Non c’è il riscaldamento. In camera è freddo, si vede il fiato quando si respira. Talmente freddo che dormo vestito con anche il piumino. Per fortuna almeno c’è l’acqua calda. Domani attaccherò la cima del monte. Se la giornata sarà bella come quella di oggi sarà una gran giornata. Se ci fosse anche un po’ di sereno sarebbe il massimo.

 


Approfondimento sul viaggio in treno e dopo

Treno 1562 Guilin – Wuhan, 25 feb 2011, giorno 45, ore 10:59

Anche in Cina come in Italia, i treni partono e arrivano in ritardo e si fermano inspiegabilmente per secoli a 500 metri dalla stazione di arrivo. Grazie Trenitalia, di nuovo, per avermi addestrato per anni a tutto questo. I cinesi sono degli zozzoni. Certo, non si può fare di tutta l’erba un fascio, ma se si dovessero cercare le eccezioni a questo assunto, sarebbe più la fatica e il tempo perso che il reale guadagno. Andando al bagno svariate volte durante la notte, sembrava di stare alla fiera mondiale della fece liquida. Se dovesse esserci uno slogan per questa manifestazione sarebbe: “Scegli un colore e una forma. Da noi c’è!”. Sarà poco fine riportarlo inmaniera così cruda ma questo di certo non lo leggete sulla Lonely Planet. Non appena il treno farà quei benedetti 500 metri, sarò arrivato a Wuhan. Spero di trovare subito un treno per Wudangshan. Ci sono tre stazioni in questa città e solo due la collegano a Wudangshan: 10 a 1 che io sono in quella sbagliata. Un giorno o l’altro scriverò un post sulle applicazioni pratiche della legge di Murphy durante un viaggio. Adesso si muove. Devo scendere.

Ore 17:05, autobus per Wudangshan

Sono stato stupido. il treno per Wudangshan partiva alle 22:30 e costava 70Y. Avrei viaggiato per tutta la notte e sarei arrivato alla mattina. Un bel risparmio. Invece ho optato per un autobus che è partito alle 17:30 e che arriverà a mezzanotte. Odio arrivare di notte. In aggiunta questo bus è costato 195Y. Non so come sia potuto essere così stupido, eppure è successo. Unico merito è che questo autobus non ha i seggiolini ma i letti, così saprò come si sta.

Ore 20:05, autobus per Wudangshan

Si sta da culo, ecco come si sta. Fa freddo e il letto è minuscolo. Maledetto me e quando ho deciso di prendere questo pullman. Stupido, stupido, stupido Euge

Ore 21:12, stesso posto

Il bello della vita è che a volte ci sono degli avvenimenti piccolissimi che la cambiano radicalmente. Ci siamo fermati in una specie di autogrill. Io avevo una fame terribile e dopo circa 15 minuti di ricerche ho deciso di buttarmi sui noodles in scatola. Si comprano, si aprono, si mette dentro la roba liofilizzata che c’è nelle bustine, si aggiunge acqua calda e si mangia. Ero appunto all’ultima fase quando l’autista mi chiama e mi dice che bisogna andare. Con l’umore sotto ai piedi, nero di rabbia per la pessima decisione e affamato come un leone mi siedo nel seggiolino di fianco all’autista e consumo il mio pasto. Dopo 5 minuti ho finito e non so dove buttare la confezione, la quale era anche piena di “brodo”. Mi guardi intorno con sguardo impaurito e faccio un cenno al secondo dell’autista. Questo capisce, prende la confezione, apre il finestrino e la butta fuori in autostrada. Così. 130 all’ora e il brodo che prende il volo mentre la confezione finisce sul parabrezza della macchina dietro. Io mi scompiscio. Lui mi guarda come se fossi scemo, ma io non riesco a smettere di ridere. Non lo so, mi ha preso così. Mi siedo un altro po’, mi riprendo e chiedo se posso fumare. Un altro passeggiero, il quale si vede che come me non ha più voglia di stare sdraiato a prendere del freddo mi dice di fare. Finisco la sigaretta e mi godo la strada vista dal mio nuovo posto. Vista dall’autobus la strada è più bella che vista da un auto. Sarà l’altezza, il parabrezza gigante, gli abbaglianti in Cina sempre accesi…. Non so, per me lo è. Dopo un po’ l’altro passeggero mi batte la spalla e mi chiede se voglio una sigaretta delle sue. Accetto e tutt’a un tratto sono felice. Io gli accendo e fumiamo insieme seduti in silenzio. Non mi importa più dell’errore e di tutto il resto. Anzi, se non fosse successo avrei perso una scena che, ancora adesso che la ricordo mentre scrivo, mi ha fatto letteralmente piangere. Tutto scomparso per via di un po’ di brodo e di una sigaretta.


Quel treno per Wuhan

Treno 1562, Guilin – Wuhan, 24 feb 2011, giorno 44, ore 20:34

Nella sala d’attesa ero un po’ teso. Non sapevo bene cosa aspettarmi da questo spostamento. Un autobus è un autobus quasi in tutto il mondo, ma un treno può riservare ogni genere di sorpresa. La sala d’attesa era molto affollata e io ero l’unico viso pallido. Non so come si spostino gli altri viaggiatori. Mi è difficile credere di essere l’unico maschio dall’aspetto occidentale in tutta la Cina. Eppure a giudicare dalla frequenza con cui ne incontro sui mezzi pubblici e dalle reazioni dei cinesi quando mi vedono si direbbe di sì. Dopo la chiamata del treno, una massa di persone si mette in fila disordinatamente. Io mi agrego e dopo 5 minuti di attesa sono sul binario. Il treno sembra un Eurostar, solo più lungo e più grande. Appena entro, nella carrozza scende il silenzio. Tutti mi guardano attoniti. Chi sorride timidamente, chi distoglie lo sguardo incontrando il mio, tutti osservano attentamente quello che faccio. Devo ancora abituarmi a questo genere di reazione, ad essere sempre al centro dell’attenzione con tutti gli occhi puntati addosso. E’ vero che ormai è dal Giappone che subisco questo trattamento, più o meno, però faccio ancora fatica a sentirmi a mio agio. Non è facile. Il viaggio dura 14 ore, quindi anzichè un seggiolino normale ho optato per un letto duro, come lo chiamano qui per differenziarlo dal letto morbido. Era disponibile anche quello, ma mi sembrava di viziarmi troppo. Arrivato al mio posto trovo che c’è una signora sdraiata sopra. Questa mi vede, si alza, farfuglia qualcosa in cinese e poi se ne va. Mi viene in mente quella scena di Fight Club dove Edward Norton legge l’articolo di giornale scritto in prima persona da una parte del corpo. “Sono il cuoio cappelluto di quella signora. Quando mi avranno lavato l’ultima volta? Sarò pulito?”. Appoggio lo zaino sul letto e mi dileguo in fretta verso il bagno. Tutto quel silenzio e quegli sguardi sono un fardello troppo gravoso da sopportare ulteriormente. Il bagno lo trovo quasi subito e dopo averlo trovato desidero non averlo mai fatto. Devo ringraziare, mio malgrado, Trenitalia se riesco afare la pipì senza vomitare. A quanto pare qualcuno a bordo ha male di stomaco e ha voluto condividere col resto dei passeggeri questa notizia evitando di tirare l’acqua. Io ci provo, ma quella non funziona. Torno al mio posto e, fortuna delle fortune, scopro che il mio letto è proprio al centro di un allegra combriccola di giovani gentiluomini cinesi, i quali certo non si curano dell’invisibile confine imposto dal numero stampato sul fronte del mio biglietto. Tutti fanno i loro comodi. Chi appoggia le mani, chi i piedi, chi persino il mangiare sul mio letto. Paese che vai, usanze che trovi, viaggiatore. In Germania non esisterebbe, in Giappone ti sparerebbero e qui, invece, è all’ordine del giorno. Si prospetta un lungo, lungo viaggio. Se non altro, la compagnia ferroviaria cinese è di parola: per essere duro, il letto è straordinariamente duro.


Incontri da ostello

Yangshuò, Guangxi, 23 feb 2011, giorno 43, ore 17:33, ostello

L’ho sempre detto che le migliori fonti di informazioni sono gli altri viaggiatori. In questo ostello ho incontrato Alex, un galiziano che è in viaggio da cinque mesi e che si è fatto dal Portogaallo alla Russia in autostop. Questo è uno da ammirare. Io sono un novellino implume a confronto. Parlando del più e del meno mi ha detto che se voglio andare in Tibet ho solo cinque giorni di tempo. Stando alle sue informazioni i valichi chiuderanno il 28 febbraio per riaprire solo ad aprile. Se dovesse succedere sarei obbligato a prendere un aereo (un altro) per arrivarci. Inutile dire che sarebbe una tragedia. Mi ha dato la mail di una tizia che ha avuto da un’altra tizia e che dice di potermi aiutare ad ottenere il permesso. Le ho scritto la mia situazione e adesso attendo risposta. Se le cose, per una volta, dovessero andarmi bene allora domani schizzerei alla velocità della luce a Chengdu per sistemare i documenti e partire. Ho paura di non farcela nemmeno questa volta. La burocrazia è la mia nemica numero uno. Numero due la nebbia, ma questo già si sa. Non appena avrò qualche certezza la riporterò. Per il momento, sperate con me.


Un uomo in barca

Yangshuò, Guangxi, 23 feb 2011, giorno 43, ore 16:05, ostello

Il fiume Li è quanto di meglio possa desiderare il viaggiatore. Le sue acque sono mansuete, docili, pulite. Guardando dall’impavesata dell’imbarcazione è possibile vedere il letto del fiume quasi in ogni momento. Non è molto trafficato, anche se una qualche barca di ronda lungo il fiume è sempre alla vista. Esso scorre tra le montagne del Guangxi e le attraversa in silenzio, accarezzandole ad una ad una. E’ un percorso idilliaco che appaga il desiderio del viaggiatore di vedere posti nuovi ed unici. La vita bucolica che lo accompagna lungo il suo corso è ricca di spunti: contadini, pescatori, venditori seduti sotto a capanne sulle sue rive, anatre ed uccelli in quantità. Ogni tango si incontrano un molo o un porticciuolo, usati dagli abitanti per introdursi nelle barche e scivolare lungo la corrente. C’è una gran pace, interrotta a sprazzi dal suono del motore che di tanto in tanto riporta la mente alla realtà. C’è anche la nebbia. Questa cosa sta diventando la mia rovina. Ieri, sulle terrazze di riso, tutto il panorama era saturo di nebbia al punto da non riuscire a vedere per più di due piani delle ingegnose costruzioni. Ho sperato tanto nel bel tempo per oggi, ma naturalmente non è servito. Sono abituato alla nebbia, a casa mia si vende per pochi centesimi il quintale, ma qui è un’altra faccenda. E’ una barriera che impedisce il pieno godimento dell’ambiente circostante ed è una disfatta per le fotografie. La macchian fotografica, giudice severo ed imparziale, si limita a raccogliere quello che gli si para dinnanzi, e se questo implica una parete di grigio informe che cela le vette e i panorami, lei lo coglie ugualmente. Non le interessa il risultato, le interessa mantenersi fedele al suo principio, e vi esorto su questo punto a non metterla alla prova. Io ci provo da tanto, ma inutilmente. Arrivato a Xingping ho scoperto un piccolo paese in riva al fiume. Non molto pittoresco ma, in compenso, molto pieno di fango. Nelle sue strade solo pochi punti possono vantare l’asfalto e il risultato è che in questa stagione l’intero paese sembra immerso nel fango. Il marroncino pallido è il colore che prevale. Non avendo a mia disposizione i mezzi per combattere tutta questa terra liquida e non avendo nemmeno vestiti e scarpe di ricambio per fare un tentativo, ho decisso di continuare fino a Yangshuò. Una gran decisione. Questo è il posto più bello che abbia visto finora in Cina. Case ordinate, strade lastricate di pietra, lanterne in ogni dove e una vivaace vita cittadina. Mi sarei aspettato di tutto fuorchè questo. Per una volta sono stato sorpreso in meglio. O forse no? Credo che sia giunto il momento di affrontare il tema con il quale ogni viaggiatore prima o poi deve fare i conti: il turismo. Il tursimo di massa per certi versi è una buona cosa: aiuta l’economia locale, rende i posti più predisposti all’accoglienza dei visitatori e rende il viaggio meno difficoltoso sotto gli aspetti della lingua e della ricerca di informazioni e strutture. Qui, per esempio, quasi tutti parlano inglese ed è pieno di ostelli ed alberghi. Però, questo turismo, è una lente che distorce. Questo luogo si presenterebbe così se non ci fosse stato l’intervento del turismo? Non credo proprio. Mi è capitato di vedere alcuni posti totalmente estranei al turismo e decisamente non erano così. La cosa peggiore, tuttavia, è quello che io chiamo l’intrattenimento forzato. Gli abitanti di un paese meta di turismo dicono ok, siamo turistici; ma perchè non diventarlo ancora di più? A questo punto vengono rispolverati antichi costumi, antichi riti e spettacoli dimenticati da secoli e spacciati per vero folklore locale. Si organizzano show, pullman e teatri appossitamente per intrattenere stranieri e trattenere i loro soldi. Li capisco gli autoctoni, nulla da dire, ma per me che lo vivo devo dire che preferirei evitarlo. Il problema è che diventa difficile distinguere il folklore genuino da quello forzato, perchè una volta messo in moto il meccaniosmo, tutto ha lo stesso sapore: una trappola per turisti. Si sono già sprecati milioni di parole su questo tema, quindi non mi dilungherò oltre. Soltanto vale la pena rifletterci sopra.

Mano a mano che mi avvicino all’ovest del Paese, non faccio che pensare al Tibet. Ormai sono arrivato al punto in cui ogni cosa che faccio è per esso. In ogni luogo chiedo informazioni per arrivarci, interpello agenzie e altri viaggiatori. Quando è così è meglio andare subito e togliersi il pensiero. Ho solo una tappa “obbligata” prima di lanciarmi verso la terra occupata: i monti del kung-fu del Wudan Shan. Sono proprio lungo la via (circa), lungo la strada ferrata che mi porterà a Chengdù, luogo che si presuppone essere la porta d’accesso per il Tibet. Non ho informazioni certe, solo frammentate, ma quasi tutte concordano nel dire che se voglio raggiungere Lhasa e l’Everest, quella è la città da raggiungere per prima. Nella speranza che il tempo migliori e che la mia macchina fotografica sia ben disposta, farò una cosa che erano settimane che non facevo: il bucato.


Guilin

Guilin, Guangxi, 21 feb 2011, giorno 41, ore 21:01, ostello

Secondo i cinesi sotto al cielo non c’è niente di meglio delle montagne e dei fiumi di Guilin. Gira voce che sia il posto dove ogni cinese sogna di andare. Effettivamente non posso dargli torto. Tutto intorno alla città ci sono queste montagne, questi picchi, che sono le tipiche montagne che si vedono nelle immagini della Cina. Sono veramente uniche. Ammassi di roccia che si ergono dal terreno all’improvviso, tempestati di vegetazione e di templi sulla loro cima. Tutto molto caratteristico. Il fiume Li accompagna la città da nord a sud e si perde nell’orizzonte della regione del Guangxi. E’ calmo, sereno, ispira tranquillità solo a guardarlo. Non mi stupisco che sia uno dei fiumi più amati della Cina. Domani mi recherò nelle campagne in cerca delle famose terrazze di riso. Spero che non piova ma soprattutto di trovarle. La prossima tappa sarà Xingping, tra due giorni. Per raggiungerla sperimenterò un po’ di gentilezza locale. Oggi mentre ero in contemplazione del fiume assorto nei miei pensieri, un signore mi si è avvicinato. Parlava inglese, così mi sono messo un po’ a chiacchierare con lui. E’ saltato fuori che io volessi andare a Xingping. E’ saltato fuori che lui avesse una barca. Morale della favola ho appuntamento con lui per il 23 alle 9:30 di mattina per discendere il fiume in barca. Ci ho parlato per quasi un pomeriggio e mi sembra proprio un tipo a posto. Non sono preoccupato, anzi, sono carichissimo. Il fiume Li è uno dei fiumi più celebrati del mondo e percorrerne un pezzo in barca nel punto più bello è un’esperienza che non ha prezzo. O meglio, ce l’ha ed è di 100Y. Un affare, se si conta che una mini crociera per turisti nei dintorni di Guilin costa dai 250Y ai 550Y per una guida in inglese. Io ho la mia barca personale per meno della metà. Vi mando un pezzettino di Guilin per salutarvi: le pagode gemelle del Sole e della Luna.

Pagode gemelle del sole e della luna, Guilin


Uomini e Topi

Guilin, Guanxi, 21 feb 2011, giorno 41, ore 3:55, ostello

Breve riassunto degli ultimi due giorni. I Diaolou si sono rivelati una delusione. Non ne sto a scrivere perchè è troppo tardi, voglio solo mettermi in pari e andarmene a dormire. Non mi piace scrivere oggi del ieri, amo la diretta.

Oggi sono stato a Guangzhou (Canton) nell’attesa dell’autobus che mi portasse dove sono ora. Una città estremamente caotica e disordinata che però merita una visita. Magari breve. Oggi ho preso anche la mia prima metro in Cina. E’ praticamente lo stesso sistema di Taipei, solo che a Taipei mi piaceva di più. Oggi ho fatto quaranta minuti di coda solo per prendere il gettone per poter entrare. Una ressa incredibile. Però è un sistema chiaro e in linea generale mi piace.

L’autobus per Guilin partiva alle 20:30. Io avevo il posto 4. Appena salito ho iniziato a cercare i posti e il mio era occupato da un ragazzo che aveva il 3. Il 4 era posto finestrino e quando fai un viaggio di sette, otto ore di notte, quel finestrino è l’elemento che ti fa dormire. Io però non dissi nulla e mi sedetti. Non è stata una mia decisione. Io volevo protestare e dire al tipo di alzare il culo e farmi sedere, ma non è successo. Più avanti avrei reso grazie per questa mia omissione, ma procediamo con ordine. Dopo mezz’ora di viaggio il ragazzo si volta e inizia a farmi domande. La solita routine. Io rispondo, e alle mie parole anche lui reagisce dicendomi che ero coraggioso. Questa cosa mi mette addosso una paranoia incredibile. Se nessuno mi dicesse nulla, io sarei tranquillo, ma quando uno del posto mi inizia a dire che sono coraggioso, la mia mente inizia a perdersi per delle vie che non portano a nulla di buono. Due ore e mezza dopo ne ho avuto un esempio. Non avevo fatto la pipì prima di salire a bordo e mi stava scoppiando la vescica. Mi ero anche un po’ addormentato e quando io mi addormento e poi mi sveglio devo pisciare. Garantito. Attendo un’ora e il bus si ferma. Non capisco dove siamo, sembra il retro di un magazzino, ma la gente scende e io non ce la faccio più. Guardandomi intorno e avvicinandomi alle latrine (non ai bagni) quel coraggio di cui si è tanto parlato mi abbandona passo dopo passo. Innanzitutto il tanfo. L’odore di piscio si sentiva a 15 metri di distanza. Il mio compagno di sedile era più scandalizzato di me. Entro nel locale delle latrine e trovo una specie di stalla per maiali piena di veri uomini cinesi che pisciano attaccato ai muri. Facce di quelle che non vorresti mai incontrare in un posto dove ti devi tirare fuori il pistolino. Facce che non vorresti mai incontrare. L’odore era insostenibile, io avevo la bocca sprofondata dentro alla giacca. Ci dovevo proprio andare. Mi avvicino al muro, tiro fuori Jimmy, sto per farla quando un topo mi passa in mezzo alle gambe, si butta nel piscio e schizza verso il canale di scolo. Ogni uomo ha un limite: il mio è stato quello. Ripongo Jimmy al sicuro ed esco. Mi scappava troppo però, dovevo farla. Faccio per avvicinarmi ad un angolo del cortile quando mi rendo conto che tutta l’area di parcheggio è circondata da topi. Uno qua, un paio là, tranquilli che sguazzavano nel piscio e nel sudiciume. Ho pensato che alla fine non era poi così male resistere un altro paio d’ore.

Risalito sull’autobus ho chiesto al ragazzo come si chiamasse quel posto, un posto dove il 2000 non è ancora arrivato. Ling Feng. Non sono sicurissimo del nome, lo riporto come lui me lo ha scritto sul taccuino. Se vi offrono un soggiorno gratis di una settimana non andateci. E’ un consiglio.

Sono arrivato a Gulin alle tre di notte. Il piano era arrivarci alle sei, ma a quanto pare qualcuno ha capito male. Ho viaggiato abbastanza per sapere che è meglio non arrivare in una stazione sconosciuta alle tre di notte, ma so anche che se capita non è un gran problema: è solo più costoso. Ho interpellato ancora una volta il ragazzo che era seduto accanto a me sul bus (bello non avergli sclerato in faccia per il posto) e tra una cosa e un’altra con un taxi sono arrivato in ostello e ho una camera. Fantastico. Non so ancora nulla di questo posto, è troppo buio. Però c’è internet e un bagno dove fare la pipì senza topi. Il massimo.


Kaipin Confidential

Kaiping, Guangdong, 19 feb 2011, giorno 39, hotel

Questa città pare avere due hotel, uno per ogni stazione degli autobus. Dell’altro ignoravo l’esistenza al mio arrivo, ma la sorte mi ha favorito con quello più economico. 80Y, 10 euro per una camera con bagno. Sembra fantastico. Non lo è. Gli hotel sono tristi, mi fanno sentire come gli uomini soli della canzone dei Pooh, perduti nel Corriere della sera. Non ho compagni di stanza, non ho una sala comune dove fare quattro chiacchiere con qualcuno, non ho contatto umano. L’economicità di questo posto traspare piano piano. Niente internet e niente riscaldamento. Fuori ci sono 8 gradi e io non ho nemmeno una giacca. Quella con cui sono partito da casa in questo momento si trova tranquilla al calduccio nell’armadio del proprietario dell’ostello di Taipei. Era caldo, era ingombrante era inutile. Se tornassi indietro lo rifarei.

Ieri in aeroporto non ho dormito tanto e in autobus non ho chiuso occhio. Faceva troppo freddo. Per qualche motivo assurdo l’aria condizionata era accesa. L’autista guidava coi guanti mentre io mi chiudevo a riccio per il freddo. Nota personale: comprare una giacca. Alle sei del pomeriggio mi sono messo a letto dentro al sacco a pelo e sotto la coperta. Adesso è l’una, mi sono svegliato e non credo che riuscirò a riprendere sonno. Ho un libro nel pc, un e-book, “Tre uomini in barca” di Jerome K. Jerome. Ha un modo di scrivere strano, molto dispersivo, però non è male. Credo che sarà il mio coinquilino per le prossime ore. Potrei uscire, ma non ho la chiave della stanza. Quando l’ho chiesta alla reception mi hanno detto di non preoccuparmi, che avrebbero aperto loro. La hall è deserta e alla reception non c’è nessuno. Il mio desiderio di disagio è stato esauidito. Attento a ciò che desideri, mi ha detto una volta il mio capitano, perchè potrebbe avverarsi. Mi sento un po’ come uno dei protagonisti di un qualche film pulp degli anni ’80: uno squallido albergo, luci al neon rosse che filtrano dall’esterno attraverso la tensa sottile, il rumore dell’intermittenza dell’insegna e il traffico al di là del vetro della finestra. Manca solo la bottiglia di burbon e l’impermeabile grigio. Non c’è il water nel bagno. Solo la turca, e la cosa non mi emoziona. Scrivo coi guanti di pile perchè fa un freddo del diavolo e ho le mani congelate. Rido, mi sento un po’ sfigato ma sono stato anche peggio. Seduto fissando il monitor e la barra di scrittura che lampeggia aspetto il mattino. Quel burbon ci vorrebbe proprio.


Il popolo che ride

Chikan, Guangdong, 18 feb 2011, giorno 38, ore 17:25

“… scambiare quattro chiacchiere in lingue che non sai, comunicare con un semplice sorriso o con un gesto solo, scoprirsi Marco Polo, e non sentirsi solo tra gli umani. Stringere milioni di mani in ogni posto…”

Lorenzo Cherubini, Marco Polo

Senza indugiare nella mia ignoranza decisi di fare qualcosa. Il motivo per cui sono qui sono i Diaolou, ma era troppo tardi per andare a vederli. La guida consigliava anche l’antica città di Chikan, un minuscolo paesino sul fiume Tanjiang. Decisi di dirigermi lì per farmi un’idea del posto, quindi chiesi informazioni alla biglietteria della stazione. Quando mi videro arrivare andarono subito a chiamare una ragazza che lavora in un bar della stazione, l’unica che masticasse un po’ di inglese. Ye, nu, pli, tenkyu. Funziona così da queste parti. All’albergo per farmi capire che il resto me lo avrebbero dato il giorno dopo ci si sono messi in quattro. Quattro che ripetevano la stessa cosa in cinese, sorridendo. Poi ad un cliente venne in mente di mimarmi la cosa ed io compresi quello di cui ho scritto. La cosa certa è che di denaro non ne ho visto nemmeno l’ombra. Autobus numero 6, ultima fermata Chikan. Nell’attesa attirai più di uno sguardo incuriosito. Sebbene i Diaolou siano un bene protetto dall’Unesco, quindi famosi e turistici, sembra che qui nessuno abbia mai visto uno straniero. Sull’autobus c’era una donna con un pollo nella borsa. Era una borsa di vimini intrecciata a maglie larghe e stava sulle sue ginocchia. Il pollo al suo interno se ne stava buono e calmo, probabilmente del tutto ignaro del suo futuro. Il biglietto costava 3Y. Io non avevo spicci, solo una banconota da 5Y, e l’autista parlava un ottimo cinese. Facendomi segno tre con le dita, io gli mostrai la banconota da 5Y e la misi dentro alla macchina per i biglietti, o forse dovrei dire la scatola dentro cui i passeggeri mettono i soldi quando entrano. Il resto mancia, gli ho detto, e mi sono seduto. Tutti gli altri viaggiatori attorno a me hanno cominciato a guardarmi e a ridere, facendomi sengo di tre con le dita e scossando la testa al segno cinque. Un popolo cordiale, avvezzo al riso. Mi hanno anche preso un po’ in giro. Tentammo di comunicare. Io parlavo ma loro non capivano: sono Eugenio, vengo dall’Italia, sono un viaggiatore. Loro rispondevano in cinese e quando io scuotevo il capo e sorridevo loro ridevano tutti insieme. Non ridevano di me, ridevano con me. Anche alla stazione, prima di partire, avevo chiesto al bar un pacchetto di Marlboro. La tizia ha riso ed è uscita dal bancone mostrandomi una teca a 10 centimetri dalla mia faccia con tutte le sigarette che vendevano. Solo sigarette cinesi. Io ho sorriso della mia piccola gaffe e ho scosso la testa. Anche qui tutti gli astanti e la ragazza si sono messi a ridere. Risate buffe, non denigratorie. Mi piacciono i popoli che ridono; mi mettono a mio agio e mi fanno sentire meno lontano da casa.

Arrivato a Chikan mi chiesi dove fossi finito. Se mi avessero detto che l’autobus era in realtà una macchina del tempo, ci avrei creduto senza esitazioni. Ero nel 2010 o nella Cina del 1700? Alcuni definirebbero questo paesino brutto, sporco e vecchio. Io l’ho trovato caratteristico, sporco e originale. Integro. Sincero. Non un turista, non uno straniero, non un viso pallido. Io. Alla fermata dell’autobus scesi e mi incamminai verso non so dove. Dopo un po’ tornai indietro, deciso a chiedere un po’ di informazioni. Qui trovai un americano-cinese che era tornato a casa per capodanno, oltre che una decina di persone tutte incuriosite da me. L’americano mi fece una domanda semplice: dove devi andare? Io risposi: non lo so, a Chikan. Lui mi guardò, chiedendomi se mi stessi prendendo gioco di lui. No, voglio visitare Chikan, il centro. Credo che non stesse capendo, infatti mi chiese se fossi solo, in Cina senza parlare cinese e nella minuscola città di Chikan. Sì. Mi guardò come se avesse visto uno spettro, mi strinse la mano e mi disse: “Hai le palle amico!”. Poi tradusse la nostra conversazione che venne accolta dalla piccola calca con sguardi stupiti e sorrisi compiaciuti. Mi preoccupai. Ci vogliono le palle per andare in Cecenia, in Iraq, in Somalia. Non in Cina. Vero? Da quel momento, però, tutto cambiò. Barriere abbattute, muri dissolti: totalmente a mio agio. Da dove provenivo non importava più e io non me lo ricordavo. Tutti cercarono di darmi indicazioni e dopo aver capito da che parte fosse il centro mi incamminai. Ai bordi delle strade portici quadrati con venditori di cibo, falegnami, fabbri e commercianti. Al mio passaggio molti fermarono il porprio lavoro per guardarmi e salutarmi. Hei, c’è uno straniero. I più arditi, quelli che parlavano inglese, mi chiesero da dove venissi. L’Italia suscita sempre ammirazione e tutti mi salutarono con good luck e welcome. Feci tante fotografie. Avrei voluto anche fotografare le persone: una nonnina che preparava il tè, un gruppo di uomini che giocavano a carte sotto al portico, un falegname che lavorava bambù, un gruppo di donne che sedute ad un tavolo giocavano a Majiong; ma non l’ho fatto. Non sapevo fino a che punto potevo spingermi e ho preferito non rischiare di disturbare la quiete degli abitanti di questo paese. Lungo il fiume vidi una fila di case che somigliavano ai palazzi lungo i canali di Amsterdam. Almeno la Amsterdam delle fotografie del passato. Sì, erano sporchi e l’intonaco cadeva a pezzi, ma lo stile era quello. Da una finestra di quelle case fece capolino un bambino. Mi guardava attraverso le inferriate. Era una foto magnifica e stavo per inquadrarlo quando questi subito si nascose. Aspettò un po’ poi tornò a sbirciare. Io mi misi a ridere e lui mi imitò. Andammo avanti per un po’ con questo gioco ma alla fine feci la fotografia. Lo salutai con la mano, lui rispose e io me ne andai. Per quanto piccolo fosse il paese, rapito dall’atmosfera e noncurante della strada percorsa mi persi. Fui costretto a chidere un passaggio ad un vecchio su un risho per ritornare alla stazione. Gli offrii del denaro, ma lui rifiutò. Sorridendomi per farmi capire che ra tutto ok mise in mostra tre denti, gli unici, dello stesso colore dell’intonaco screpolato delle case, poi andò per la sua strada. Il senso della vita è un po’ anche questo. Salii sull’autobus col cuore leggero e desideroso di mettere su carta tutto quello che ho appena raccontato.


La Cina

Kaiping, Guangdong, Cina meridionale, 18 feb 2011, giorno 38, ore 13:27, hotel

L’impatto con la Cina è stato durissimo. Tutto quello che mi immaginavo è stato spazzato via con un colpo di realtà. Se in Giappone ero un analfabeta, qui sono un marziano. L’hotel che cercavo si trovava a 500 metri dalla stazione, eppure io ci ho messo un ora e mezza per arrivarci. Per farlo sono dovuto passare attraverso decine di guidatori di moto e di risho che, sapendo dove si trovasse l’albergo, mi invitavano a servirmi di loro senza però darmi nessuna informazione. Il tutto completamente in cinese. Non c’era l’ufficio turistico, così mi sono fatto scrivere il nome dell’albergo su un foglio di carta da una che lavorava alla biglietteria della stazione degli autobus. Mostrando quel bigliettino a passanti che mi indicavano prima una direzione e poi quella opposta, alla fine ci sono arrivato. La mia salvezza è stata un benzinaio che mi ci ha accompagnato di persona. Altro che energie altrnative: w il petrolio. La città è brutta, desolata, sporca. Mi sembra di essere in Marocco o in Tunisia. Sì, pensandoci bene questo posto mi ricorda la periferia di Tunisi. E non è un bel ricordo, certo non un panorama da cartolina. Il nome delle vie, i negozi, le indicazioni i dialoghi: tutto in cinese. A quelli che credono che per viaggiare occorre sapere l’inglese dico: non è vero. Se anzichè inglese parlassi italiano o suomi sarebbe la stessa cosa. Sono ottimista, però. Credo che lo schema sia sempre lo stesso. Voglio andare in un posto e me lo immagino, la realtà mi appare diversa da come me lo aspettavo, ci rimango male ma poi mi abituo e mi godo quello che mi offre. Si è già ripetuto tante volte e tante ancora si ripeterà, questo schema. Non ho visto un turista, non un uomo bianco. Adesso capisco alla perfezione come deve essersi sentito Marco Polo. Lui, però, non aveva nemmeno una Lonely Planet.


The Terminal parte II

Hong Kong, 17 feb 2011, giorno 37, ore 20:08, Aeroporto di Hong Kong

Sono di nuovo qui. No, non ho intenzione di prendere un altro aereo, per carità. E’ che i dollari non erano sufficienti sia per mangiare che per dormire, così ho optato per mangiare. Avrei potuto fare un altro prelievo, ma quando mi sono avvicinato al bancomat ho sentito una vocina che diceva “Non farlo. Pensa!”. Così ho deciso che per stanotte dormirò di nuovo qui. Come ho già detto i comfort non mi mancano e adesso come adesso sono seduto nel posto dell’altra volta, nella mia camera di due chilometri quadrati. Forse sono uno zingaro, ma che ci posso fare?

Oggi sono stato all’ambasciata a ritirare il visto. 470 dollari di Hong Kong per un visto di sei mesi doppoia entrata per la Cina. La doppia entrata mi farà comodo quando dovrò fare Nepal e ritorno. Per quello che riguarda il Tibet, invece, è ancora nebbia fitta. All’ambasciata mi hanno detto di rivolgermi ad una agenzia di viaggi organizzati. Sembra che sia davvero l’unico modo per accedere al tetto del mondo. L’idea non mi entusiasma. A parte che non ho idea di quanto mi possano chiedere, il pensiero di salire su un autobus con dei turisti che vogliono fare il giro guidato della regione è una cosa che non coincide coi miei sogni tibetani. Non c’è nulla di male, si intende, solo che non voglio essere della partita. Il mio tour organizzato perfetto sarebbe: ti portiamo là, tu giri per i fatti tuoi e poi ti ritorniamo a prendere. Non so se esiste questa formula ma mi informerò di certo. Sono a tal punto carico per questo spostamento che sto pensando di far slittare il mio soggiorno a Shanghai e Beijing. Non credo che sia il momento giusto per un’altra città. Credo di aver bisogno di soffrire lo sporco e il disagio delle non-città per poter riapprezzare una metropoli. Ho voglia di scalare monti e navigare fiumi, adesso, non di fare vasche in centro e visitare musei. Non è che non voglia andarci, solo che la prenderò un po’ larga. Domani mattina, comunque, ho un bus che mi porterà a Kaiping, un luogo famoso per i suoi Diaolou. Quello che sarà dopo, dipenderà da cose che al momento io non conosco ancora. E che non voglio conoscere.

Visto cinese sul mio passaporto


La foto

Hong Kong, 16 feb 2011, giorno 36, ore 23:30, ostello un altro

Ogni fotografo sogna di scattare foto future. Foto indimenticabili, di situazioni, di momenti o di posti. I fotografi sportivi magari sognano di scattare una foto come quella del gol che Rooney ha segnato nel derby qualche giorno fa, quelli naturalistici sognano forse di fotografare una qualche specie mai scoperta dalla scienza, i paparazzi poterbbero sognare di scattare una foto al Premier mentre con i ministri partecipa ad un orgia (gira voce che non sia così difficile). Insomma, ognuno ha le sue. Io avevo questa:

Bella vero? La prima volta che l’ho vista, saranno stati due anni fa, mi sono detto “se un giorno andrò ad Hong Kong, a costo di noleggiare un elicottero farò questa foto”. Nel momento in cui ho messo piede in questa città non vedevo l’ora di premere il pulsante. Oggi ho deciso di farla. Niente elicottero. Raggiungere il punto più alto di Hong Kong, il Victoria Peak, è piuttosto facile, basta prendere un tram. Per facilitare il compito del fotografo, in cima al monte hanno anche costruito una grande torre di osservazione, la Peak Tower. Da lì in cima la vista è spettacolare. Tutta la baia di Hong Kong e la sua skyline sotto agli occhi. Una cosa che capita davvero poche volte di vedere nella vita. Talmente bella che vi voglio mostrare la foto che ho fatto io:

Hong Kong Skyline from Peak Tower

Non è meravigliosa? E’ la stessa, giuro. Solo che in più c’è la nebbia. Non vedete in lontananza la baia, le navi e i grattacieli? No? Già, non si vedono. Ma ci sono! Ho provato anche a togliere la nebbia con Photoshop, ma non hanno ancora inventato il pennello togli nebbia. La guida lo diceva che il cielo a Hong Kong non era dei più limpidi, ma non credevo così. La situazione è a tal punto sempre la stessa che prima di salire sul tetto c’è un cartello fisso, scritto in dieci lingue, che dice “Nebbia”. E’ fisso, c’è sempre. Nei giorni limpidi, venti all’anno, ci attaccano con lo scotch il cartello sereno. Due anni di attesa per fare una foto che avrei potuto fare nele campagne di Gaggio in un qualunque giorno di novembre. Ma che ci volete fare. Di sicuro, però, questa è la foto panoramica più originale che sia mai stata fatta.


Londra o Hong Kong?

Hong Kong, 16 feb 2011, giorno 36, ore 13:12, marciapiede di fronte all’ambasciata cinese

Londra o Hong Kong? Se lo si dovesse intuire dal clima si farebbe molta fatica. Nonostante ci siano tra loro migliaia di chilometri e anche svariati paralleli, queste due città hanno molto in comune. Spesso piove, ancor più spesso c’è nuvoloso o la nebbia, c’è tanto smog e ancora più traffico e si viaggia per strada tenendo la sinistra. Per fortuna a togliere ogni dubbio ci sono insegne scritte in cinese ovunque. Anche in metro prima di salire si sente la voce che dice “Mind the gap”. Come Singapore, anche Hong Kong è stato un territorio posseduto dalla Gran Bretagna, anche se non fa parte del Commonwealth, e il suo passato da colonia britannica traspare non solo dal senso di marcia e dal nome delle vie (Queens road, Glochester road, Victory avenue e molte altre) ma anche dal numero di inglesi che si incontrano in giro, un aspetto che ho riscontrato anche a Singapore. Camminando per la strada o per la metro, ad un certo punto si può cogliere quell’inconfondibile accento inglese provenire dalla bocca di qualche turista. Il loro aspetto conferma entrambi i punti: sono inglesi e sono turisti. Forse, ho pensato, incoraggiati anche dalla somiglianza del clima, agli inglesi piace trascorrere le ferie scorrazzando per le vie delle ex colonie e i territori ancora in parte legati alla Gran Bretagna e alla loro Regina. Magari per controllare che tutto sia in ordine “sul continente” e oltremare. L’ultima somiglianza con Singapore su cui voglio soffermarmi è il denaro: è di plastica. Le banconote sono infatti stampate su un materiale che non è la filigrana come nella maggior parte del mondo, ma su un supporto di tipo plastico, molto più resistente all’usura e agli strappi. Il sigillo di garanzia è trasparente anziché essere argentato e cangiante. A Singapore ho trovato una sola banconota di carta, da 2 dollari, che ho conservato, mentre a Hong Kong sono ancora quelle di carta a farla da padrone. Direi un 80% carta contro un 20% plastica. Anche le monete sono strane, ma di metallo. Mentre in Giappone avevo gli Yen bucati al centro, qui c’è la moneta da 2 dollari che è di forma dodecaedrica coi lati arrotondati all’interno. E’ la quarta valuta che cambio nel giro di due settimane e visto che la maggior parte di queste si chiamano dollari devo dire che inizio a fare un po’ di confusione. Più che altro non ho più il senso del prezzo, di quanto costi e valga la roba. Problema: a Taipei un pacchetto di Marlboro costa 75 nuovi dollari di Taiwan, a Singapore costa 12,50 dollari di Singapore e a Hong Kong 30 dollari di Hong Kong. Il lettore determini quale di questi prezzi è una rapina a mano armata.


Voglio andare a vivere in campagna

Hong Kong, 15 feb 2011, giorno 35, ore 18:52, ostello

In principio era il caos. Hong Kong si è fermata al principio.

Forse sarà la pioggia, forse i grattacieli sporchi e il cui intonaco cade a pezzi, ma questa città mette tristezza. Una metropoli disordinata, caotica e sporca. Il traffico è pressante, le persone sono distaccate e ad ogni angolo arriva un indiano che ti chiede se vuoi comprare un Rolex. Un vero Rolex, non una copia. Almeno così dicono tutti. Non basta che tu gli grugnisca un “NO!” secco, senza guardarli nemmeno in faccia. Loro te lo chiedono comunque tre volte, giusto perchè vogliono essere davvero sicuri. Non me la immaginavo così, devo essere sincero. Ho pensato che magari sono io che sono un po’ stanco delle città in generale. Magari ho voglia di un po’ di campagna, di paesaggio rurale. A questo proposito domani andrò a chiedere il visto per la Cina. Se non ci saranno intoppi come spero, c’è caso che lasci la metropoli domani stesso. C’è un posto a nord che mi ispira parecchio, e prima di andare a Shanghai mi sa che mi faccio un giretto tra le campagne della Cina. Non mi piace parlare male delle città, quindi non pensate che Hong Kong sia una brutta città. A molti piace. Qualcuno la ama. Semplicemente adesso per me non è momento per Hong Kong. Poi stando qui mi viene solo voglia di comprare cose tecnologiche a prezzi stracciati e non credo che sia la cosa migliore da fare. E’ tanto che penso a questa cosa. Da un certo punto di vista converrebbe fare acquisti qui, i prezzi sono davvero i migliori del mondo. Ma poi? Avrei altre cose da mettere nello zaino, altre cose di cui occuparmi e preoccuparmi. Al punto in cui sono ora mi viene addirittura quasi voglia di buttare tutto e tenere solo quattro stracci. Funziona così, non sono il primo e non è la prima volta. La gente a casa tende a comprare, ad accumulare, ad accantonare oggetti. Quelli come me invece tendono a liberarsi del ciarpame. Quesrto serve? No. Via! Quando fai la valigia pensi di portare questo, quello e quell’altro. Perchè servono. Dopo più di un mese che ce li hai sulle spalle, però, li inizi a guardare in maniera diversa quegli oggetti, e ti poni delle domande. Prima erano cose che forse ti potevano servire. Adesso sono un peso di troppo. Sono giunto qusi al punto in cui ho persino la tentazione di buttare anche il pc e la macchian fotografica. Cartoline, penna e taccuino. Il resto è surplus. Non lo farò, non ancora, ma il mio sentimento nei loro confronti sta cambiando. Non li trovo più così indispensabili. E comunque tutto, se di una cosa solo sono assolutamente certo, è che non mi serve nessun Rolex.


The Terminal

Hong Kong, 14 feb 2011, giorno 34, ore 22:57, terminal A Hong Kong Airport

Hong Kong è…. non lo so ancora. Sono appena arrivato e non ho visto ancora nulla che mi possa dare un’idea di quello che mi aspetta. Nemmeno l’aereo mi ha aiutato. Arrivando dal mare si vede solo la città in lontananza. Nessun grattacielo, qualche luce intravista sull’acqua, nessun panorama mozzafiato. Adesso sono seduto sulla poltrona che sarà il mio letto per questa notte. Ho deciso di risparmiare, quindi dormirò qui, evitando di pagare una notte all’ostello che tra l’altro non possiedo perchè mi sono dimenticato di prenotarlo da Singapore. Era nella mia mente, ce l’avevo, ma poi chissà dov’è finito quel post it immaginario che diceva “Prenota l’ostello a Hong Kong”. Però così facendo ho scoperto che un aeroporto è un ottimo sostituto. Ho il bagno in comune come in ostello, ho internet gratis come in ostello, ho una presa dove ricaricare il pc come in ostello. Posso mangiare, andare per negozi, leggere e scrivere come se fossi in città. Posso anche dormire sulle panchine come se fossi su un letto. E’ un ostello! Solo che è gratis. I viaggiatori non mancano e nemmeno le informazioni. E’ super sicuro perchè la polizia armata di mitra non fa altro che girare per il terminal. Forse potrei evitare di prendere l’ostello sempre e tornare sempre qui a dormire. Se trovo anche una doccia in questa posto, giuro che lo faccio. Dopo sì che sarei come Tom Hanks.


Una domenica come tante

Singapore, 13 fen 2011, giorno 33, ore 17:00, Raffles Mall

Il rumore dei clacson sveglia Bansi. La testa gli fa male, perchè la sera prima Bansi e i suoi amici sono andati ad un party che è durato fino all’alba. Bansi è indiano e vive a Singapore al secondo piano di una casa in Little India. Ancora un po’ stordito, il ragazzo si alza e apre gli scuri. L’aria calda lo avvolge e lui si mette a guardare fuori. E’ domenica, e le case colorate del suo quartiere risplendono come l’arcobaleno al sole. Dabbasso gli giunge l’odore del pranzo che la madre sta cucinando: si direbbe riso al curry e pollo fritto con le spezie. Bansi però non mangia a casa questa domenica. All’una ha appuntamento coi suoi amici per un pranzo tutti insieme, così inizia a prepararsi ed esce di casa. Mentre Bansi si prepara, Taro ha appena finito di aiutare la madre nelle faccende di casa. Anche lui ieri notte era alla festa, ma la madre, essendo giapponese, non ha voluto sentire ragioni. Alle otto ha svegliato il figlio e insieme al padre sono andati al tempio buddista di Bugis a pregare. Al ritorno, come tutte le domeniche, la famiglia è stata impegnata nel rassettare la casa, con grande disppunto di Taro. Verso le 11, con una scusa, Taro esce di casa e chiama Chen, il suo amico cinese. Chen abita a Chinatown e la domenica gli piace dormire fino a tardi. La chiamata di Taro fa illuminare lo schermo del suo iPhone, ma Chen non risponde. E’ troppo presto per alzarsi. Taro sa che Chen ha visto la chiamata ma non vuole rispondere. Fa sempre così, quindi rientra in casa. Svegliato dalla chiamata di Taro, Chen decide di mandare un messaggio a Rahiza, la sua fidanzata malese. Quello che Chen non sa, è che la sera prima Rahiza, la quale aveva bevuto troppo, aveva baciato un ragazzo tedesco che aveva conosciuto al party. Preoccupata da quel gesto e indecisa se dirlo o meno al suo fidanzato, Rahisa si confida con Cathy, la sua amica inglese alla quale dice tutto. Cathy le dice di non preoccuparsi, tanto nessuno avrebbe più rivisto quel ragazzo tedesco, e soprattutto le raccomanda di non dire nulla a Chen. Rinfrancata dalle parole dell’amica Rahiza risponde a Chen e inizia a prepararsi. L’appuntamento dei ragazzi è fissato per l’una alla fermata della metropolitana di City Hall. A quella fermata sono intanto già arrivati Yoel, che è ebreo, e le due sorelle filippine Gwen e Sami. Yoel è segretamente innamorato di Sami, ma è troppo imbarazzato per dirglielo. Sami sa di questa cotta e spera che un giorno Yoel trovi il coraggio di farsi avanti. Piano piano tutti i ragazzi cominciano ad arrivare. Qualcuno è vestito all’occidentale, altri sono vestiti come impone la loro tradizione, qualcuno indossa i sandali e qualcuno le scarpe da ginnastica. Qualcun altro ha gli stessi vestiti della sera prima. Tutti i ragazzi si conoscono dal liceo, erano in classe insieme, e per parlare tra di loro usano l’inglese, l’unica lingua compresa da tutti. Chen si avvicina a Rahiza e la bacia. Lei ricambia con noncuranza ma un occhio esperto avrebbe notato la leggera rigidezza dei suoi movimenti. Bansi ha portato un amico, Darpak, che frequenta il suo stesso corso all’università, e insieme cominciano a prendere il gio Yoel. Bansi gli chiede un dollaro per la metro e Darpak lo ferma dicendogli che poi avrebbe dovuto restituirgliene due per gli interessi. Tutti ridono, anche Yoel, perchè a dispetto delle apparenze sono motlo legati e scherzano sempre sulle loro differenze culturali. Yoel, infatti, comincia ad annusare l’aria guardandosi intorno e chiedendosi se si doveva andare a mangiare fuori o se si doveva portare il pranzo da casa. Perchè? chiedono gli amici. Perchè qui qualcuno ha del riso al curry nascosto nello zaino, rispone Yoel. Altre risate. La compagnia si sposta verso il Raffles Mall e lì decide di andare a mangiare in un fast food. Mentre il pranzo viene consumato, a qualche grattacielo di distanza Paul, la cui famiglia vive a Singapore da quando ancora era occupata dagli inglesi, sta cercando di fare una buona impressione al suo nuovo capo. Paul lavora nella city, in una compagnia di investimenti, e questa domenica è a pranzo coi pezzi grossi che lunedì gli comunicheranno se ha ottenuto o meno la promozione che desidera. Paul pensa agli amici che in quel momento sono a pranzo da qualche parte sull’isola e si ripromette di raggiungerli alla fine del pranzo aziendale. Intanto al fast food è arrivata anche Lipika, la sorella di Bansi, con la quale Paul ha una storia clandestina. Nessuna delle due famiglie darebbe mai il benestare per una storia del genere, soprattutto perchè il padre di Paul è avvocato, mentre il padre di Lipika gestisce un emporio di carabattole a Little India. La madre di Lipika sa di questa storia, ma non ha mai detto nulla. Crede che sia solo una situazione momentanea, passeggera, e che la figlia presto sarebbe rinsavita e si sarebbe sposata con un uomo indiano e avrebbe fatto tanti bambini. Finito il pranzo i ragazzi decidono di andare a fare una vasca su Orchard Road, la via dello shopping di Singapore. Anche Paul li ha raggiunti, anche se in giacca e cravatta. Il pomeriggio si sviluppa tranquillo tra i vari centri commerciali e le varie boutique di marca. E’ domenica, e una folla spensierata gozzoviglia per le strade. I ragazzi curiosano in giro ed entrano ed escono dai vari negozi. A Rahiza sembra sempre di vedere quel ragazzo tedesco che ha baciato ieri sera. Lo vede per la strada fermo a mangiare un gelato, lo vede all’Apple Store intento a provare un iPod e lo vede persino aggregarsi a loro, prenderla tra le braccia e baciarla di nuovo. Cathy si accorge della preoccupazione dell’amica e le dice di smetterla e di godersi il pomeriggio. Tra una sosta e tante chiacchiere, arriva sera e la compagnia si saluta. Paul e Lipika sono i primi ad andarsene. Vanno via separatamente per non destare sospetti ma hanno un appuntamento segreto al Marina Sky Park. E’ il loro luogo preferito. E’ romantico, sensuale, c’è sempre l’aria dello stretto di Singapore che li accompagna e da là in cima il panorama spazia fino a Sumatra. Sperano sempre che arrivi il giorno in cui possano amarsi senza doversi nascondere. A volte Lipika piange un po’, ma tutto sommato tirano avanti lo stesso. Clandestini in una città aperta a tutti. Poi è il turno di Chen e Rahiza. Chen ha la casa libera e vorrebbe portarci Rahiza per poter stare un po’ da solo con lei. La ragazza ha capito le intenzioni del ragazzo ma non si sente proprio dell’umore adatto. Si incammina con lui verso la sua casa sperando di farsi venire un’idea per andarsene da sola. Cathy ha da finire una relazione per l’univarsità e Darpak vuole accompagnarla a casa. Yoel cerca di ritagliarsi uno spazio con Sami, ma una volta ottenuto quello spazio è troppo debole per poterne reggere il peso, così saluta formalmente e se ne va. Sami, delusa, e Gwen, divertita, tornano anche loro a casa. Rimangono Taro e Bansi. Taro non ha voglia di tornare a casa. La madre non farebbe altro che dargli mansioni da svolgere oppure gli direbbe che deve studiare. Nemmeno Bansi ha volgia di tornare a casa. Il curry, il trambusto del suo quartiere e della sua casa lo hanno un po’ stufato. Sogna di andarsene per conto suo, un giorno, andando ad abitare con qualche suo amico. magari proprio con Taro. I due passeggiano fino al porto e lì si siedono e riflettono in silenzio. Il sole inizia a scendere sulla città-stato. I suoi raggi lentamente si affievoliscono e danno l’ultimo saluto a una città dalle mille sfumature: razze, costumi, lingue, lavori, persone, religioni. Le luci iniziano ad accendersi. Luci che illuminano ogni quartiere, ogni casa, ogni ponte e ogni strada. Illuminano inconsciamente anche la vita, i pensieri, i sogni e i problemi dei ragazzi che la abitano.


La Pioggia

Singapore, 11 feb 2011, giorno 31, ore 17:27, camera singola Hotel 81

La mia nuova cameretta è fantastica. Ha il bagno con il water, il lavandino e la doccia. Ha l’asciugacapelli, l’aria condizionata, un letto a due piazze con due cuscini, federe e lenzuola, e la televisione. Tutto funziona ed è pulito. Ed è tutto mio! Neanche a farlo apposta, pochi minuti dopo aver preso possesso del mio nuovo regno ha cominciato a piovere. Una pioggia torrenziale, fitta, irrequieta. Un minuto prima era sereno e c’era il sole e un minuto dopo acqua, lampi e tuoni. Fantastico. Era da Venezia che non vedevo la pioggia e certo non era come questa. Se fossi ancora nell’ostello sarei tutto triste e puzzolente sul mio lettino ad attendere la fine del temporale. Adesso invece non me ne curo. Ho così tante cose da fare che per quel che mi riguarda potrebbe anche scatenarsi il diluvio universale.

Ho finito lo spazio sul pc per le foto. La memoria è piena, 160 giga di foto di sei Paesi differenti. Per risolvere questo problema mi sono rivolto a Livedrive. Questo sito è un grande hard disc online a capacità illimitata. Per soli 4 euro al mese ti permette di caricare in uno spazio remoto del web tutte i file che vuoi. Ho già cominciato a caricare le foto. Mi sento più sicuro adesso; forse avrei dovuto farlo prima. Se avessi perso il pc, lo zaino o mi si fosse rotto qualcosa allora avrei perso tutto. Sarebbe stata una catastrofe, invece così il problema è risolto.

Credo che per i prossimi giorni non ci saranno post di grande sostanza. Se ci fosse anche il servizio in camera credo che non uscirei mai di qui. Ne avevo proprio bisogno. Adesso vado a farmi un’altra doccia. W la libertà!


Ho voglia di dormire nudo

Singapore, 10 feb 2011, giorno 30, ore 2:21, ostello

L’ostello dove vivo adesso è brutto. E’ pulito, ma è brutto. Nei bagni non c’è la carta igienica, le docce sono in realtà un pezzo di tubo per il giardino e il proprietario è antipatico. Come se non bastasse è pieno di quarantenni. Sono finiti i tempi in cui l’ostello per me era un forum vivente di viaggiatori ricchi di informazioni e di coetaneità. Non lo so, forse sarà il caldo e l’umidità di questa città, forse sarà che mi sono stancato di avere sempre un occhio a dove lascio la roba, forse il fatto di non potere mai aprire lo zaino e svuotarlo completamente, però credo che sia venuto il momento di prendere una singola in un hotel. Per un po’, per qualche giorno soltanto. Il fatto è che ho voglia di fare tante cose che non faccio da tanto. Ho voglia di un po’ di privacy, tanto per cominciare, di uno spazio mio dove dare libero sfogo alle mie esigenze. Ho voglia di dormire in un letto vero, con lenzuola vere e pulite e con tanto di cuscino. Ho voglia di dormire nudo, di svegliarmi e di andare a letto quando mi pare. Ho voglia di fare la doccia tre volte al giorno senza le ciabatte e senza girare con la sacca da bagno. Ho voglia di sistemare tutte le cose che ho raccolto lungo il cammino, tirarle fuori, guardarle e decidere che cosa farne. Ho voglia di scrivere quando mi pare senza avere il terrore di svegliare quello che sta sopra di me con il battere dei tasti del pc. Ho bisogno di un hotel. Mi sono già informato e ne ho trovato uno abbastanza carino per 60 dollari a notte. Dollari di Singapore. E’ una cifra pazzesca per i miei standard, ma sento che se non lo faccio impazzisco. Ogni tanto ci sta, e io ormai sono 30 giorni che dormo in buchi puzzosi circondato da gente che non conosco. Credo di essermelo meritato.

Singapore, almeno quello che ho visto finora, è una perla d’Asia, non ci sono dubbi. Una città moderna che qua e là lascia trasparire le sue origini coloniali. La parte moderna però è impressionante. Edifici altissimi e all’avanguardia, sia nell’architettura che nelle funzionalità. Il Marina Sky Park è quello che spicca su tutti. Tre grattacieli uno accanto all’altro sulle cui cime si appoggia una struttura dalla forma di barca che ospita un albergo, una piscina e il punto panoramico più bello che si possa desiderare per ammirare la skyline di Singapore. Costruito su un’isola artificiale è senz’altro il fiore all’occhiello di questa città. Una città che non si ferma mai sul fronte edile. Cantieri ovunque, progetti e costruzioni per la città del domani. E il domani non si ferma qui. Oggi camminando per il Marina Bay Sands shopping mall ho visto come sarà l’internet cafè del futuro. O forse no. Sta di fatto che oramai il solo fruire della rete non è più sufficiente. Il Kenko Reflexology & Fish SPA internet cafè offre ai suoi clienti, oltre all’uso di internet, un massaggio rilassante fatto dai pesci. Funziona così: entri, paghi, ti togli le scarpe e le calze e mentre ti siedi infili le gambe in una vasca piena d’acqua dove all’interno sono presenti alghe, erbe marine e migliaia di piccoli pesciolini. Questi, girandoti tra le gambie, compiono la funzione di massaggiatori, il che, a sentire i gestori, è una sensazione estremamente rilassante. Personalmente non l’ho provato. Sarà che non vado matto per questo genere di cose, sarà che l’unico posto disponibile al momento era accanto ad una signora vecchiotta con le vene varicose, però ho preferito passare. Per quanto mi riguarda preferisco il vecchio sistema. Preferibilmente da una camera d’albergo e non dalla sala comune di un ostello.


Le luci di Singapore

Singapore, 9 feb 2011, giorno 29, ore 02:16, Aeroporto Internazionale

Odio gli aerei. Proprio non mi piacciono. Più ne prendo e più comincio a pensare di avere paura di volare. Hanno però un grande vantaggio: in qualunque posto tu stia arrivando, te lo puoi vedere in anteprima dall’alto. Soprattutto quando si arriva di notte è una faccenda da non sottovalutare assolutamente. Le luci di Singapore, infatti, mi hanno dato il benvenuto. Quando la guardavo sulla cartina pensavo fosse un piccolo puntino, sembrava poco più grande che Castelfranco. Non c’era nemmeno lo spazio per disegnare il cerchietto che simboleggiava la città. Vedendola dall’alto, invece, ho pensato che se prendessero tutte le case di Castelfranco e le gettassero a manate per tutta Singapore, si farebbe fatica a ritrovarle. Un’estensione di case e luci impressionante, questa metropoli. Anche sul mare c’erano talmente tante luci da far pensare che il mare fosse ancora terra ferma. Invece erano navi. File e file di navi, tutte allineate lungo lo stretto. Dall’aereo sono riuscito a contare più di trenta file di mercantili, pescherecci e petroliere che si espandevano da un capo all’altro della visuale che il finestrino mi offriva. Appena arrivato alla porta dell’aereo ho sentito l’estate, almeno quella tropicale. Un caldo umido avvolgente che ti toglie il respiro se sei abituato all’aria condizionata dell’aereo. Il tempo di scendere la scaletta e avevo già tutte le mani bagnate. Nell’attesa che la navetta mi porti in un punto qualunque della città, penso di aver bisogno di rinnovare il mio guardaroba. Non ho braghe corte e stando semplicemente seduto sulla panchina, la mia tuta mi si è letteralmente appiccicata addosso. Sarà anche una buona occasione per lavare una felpa, l’unica che ho, che non lavo dall’Ungheria. O era la Croazia? Non ricordo.

Così a caldo direi che sia un posto tranquillo. Non ho grandi aspettative, sono solo qui che attendo l’aereo che mi porterà a Hong Kong. Ah, a proposito. Sono stato parecchio combattuto sulla mia meta successiva. Pensavo che fosse il caso di andare in Australia, visto che avevo ancora un po’ di soldi, perchè andando in Cina le mie possibilità di vedere l’Oceania, a causa del denaro, si riducono notevolmente. Sono stato talmente combattuto da avere spedito alcune e mail di consulto qua e là. La risposta migliore me l’ha fornita un tizio che mi ha detto “Forse non ti sarò utile, ma vai dove senti la magia”. La magia. Appena ho letto magia ho pensato Cina. L’Australia deve essere proprio un bel posto, ma mi sembra troppo commerciale. Inoltre, oramai sono impregnato d’Asia, e abbandonarla senza averne vista la parte maggiore mi sembra una stupidaggine. E Cina sia, allora. Avevo giusto preso questa decisione quando all’aeroporto di Taipei mi hanno comunicato che senza un biglietto di ritorno non potevo partire. Ho fatto giusto in tempo a prenotarne uno al volo e a salire sull’aereo. Gran cosa le prenotazioni online.

Ecco che è arrivata la navetta. Devo andare. Quando ci risentiremo, forse, avrò trovato l’ostello. Tanto, più imbucato di quello di Taipei è davvero difficile.


Una giornata di fede assoluta

Taipei, Taiwan, 5 feb 2011, giorno 25, ore 18:33, Tamsui Fisherman’s Wharf

Il capodanno cinese dura cinque giorni. Cinque giorni di celebrazioni e festeggiamenti per tutto il Paese. Molti negozi sono chiusi, ma la qualità di quello che mi circonda vale il sacrificio, se così lo vogliamo chiamare. Per quelli che credono nello zodiaco cinese questo dev’essere l’anno del coniglio. Lo dico perchè su quasi tutte le vetrine e sui cartelloni è pieno di conigli che ridono, pregano, corrono, mangiano. Magari invece è l’anno del drago. Chissà.

Oltre al lato puramente festivo della celebrazione, è presente anche un lato spirituale. Oggi mi sono recato al tempio del mercato di ieri sera, il tempio Longshan, e per la prima volta da quando sono in Asia ho assistitio ad una cerimonia di fede popolare. Il tempio era gremito. Da ogni parte persone, fuochi e incensi. Ogni credente si reca al tempio per pregare e per portare dei doni. Una mela, dei biscotti, una torta, dei fiori. Mentre tutto questo succede, i monaci e i fedeli non smettono di cantare, accompagnati dai tamburi e dai fumi dell’incenso. Una nebbia profumata avvolge tutto. In questa baraonda io ero l’unico uomo bianco. Non ho visto molti uomini come me da quando sono qui, e quei pochi che ho visto sempre mi hanno o salutato o fatto un cenno. Solidarietà tra diversi. Ma oggi ero solo io l’unico infedele presente nel tempio. All’inizio mi sono detto hei, è una cerimonia, non fare il turista e lascia stare la macchina fotografica. Entra, guarda, ringrazia, esci. Non è andata così. Dopo quindici passi dal portone ho appoggiato lo zaino, ho tirato fuori la macchina e mi sono messo a fare foto. Il richiamo è stato troppo forte, il fotografo ha preso il sopravvento. All’inizio la gente non faceva caso a me. Sorrisi o totale indifferenza. Più mi avvicinavo al centro del tempio, però, più mi accorgevo di alcuni sguardi poco rassicuranti, quasi truci, come a farmi sapere che non gradivano o me o la mia macchina fotografica. Ho provato a mettere via la macchina e ad avvicinarmi al santuario, ma un monaco mi ha visto e mi ha latrato addosso. Decisamente è la mia persona, ho pensato. Mi sono allora messo in un angolo, in disparte, fuori dai piedi e ho osservato la scena. La gente era felice e seria allo stesso tempo: chi in fila per vedere il Buddha, chi con gli incensi in mano e la testa china, chi intento a pregare. Ci saranno state settecento persone e quel brulicare di uomini e donne, nel suo caos aveva un ordine preciso. Non ho proprio resistito: altre foto e altre occhiatacce. Prima di uscire, come per sdebitarmi, ho comprato quattro preghiere su stoffa. C’erano anche in Giappone, ma lì non le ho mai comprate perchè costavano troppo. Qui erano meno care e più carine, inoltre avevo voglia di purificarmi dalle mie irriverenze da infedele. Uscito dal tempio ho chiesto in giro per trovare quello che il padrone dell’ostello aveva definito “Historical site”. Della sua descrizione non avevo capito nulla, ma fortunatamente per me, egli mi aveva scritto il nome di quel luogo in taiwanese su un foglietto di carta, così trovarlo non è stato difficile. Questo “Historical site” si è rivelato essere un antico quartiere di Taipei rimesso a nuovo nella sua antichità. Passeggiando tra le sue vie mi sono imbattuto in un’esibizione di kung fu. Giovani combattenti e anziani maestri combattevano in una piazzetta al ritmo di piatti e tamburi. Non solo combattimenti a mani nude ma anche con le armi tipiche della lotta orientale. Sono rimasto totalmente incantato dai loro movimenti. Fluidi come l’olio e letali come l’arsenico. Terminata l’esibizione riprendo il mio giro, ma rimane poco da scoprire. Siccome era una bella giornata con 22 gradi a mezzogiorno ho deciso di andare al mare. Mi ricordavo di aver letto che c’era un posto chiamato Tamsui, su, a nord, da qualche parte, che aveva qualcosa di speciale, ma non ricordavo cosa. Decisi di seguire quella pista. Un anziano signore mi indica una fermata della metropolitana sulla linea rossa, Danshui, e io mi metto in viaggio. Dopo qualche fermata il treno della metro esce dal tunnel e si trasforma in una specie di ferrovia panoramica. Qui scopro che Taipei è circondata dai monti e dalla giungla. Una cosa spettacolare perchè appena finiscono le case, ecco che comincia una vegetazione fittissima, colline totalmente verdi che sembrano circondare il cemento della città. Dopo una buona mezz’ora di viaggio arrivo al capolinea che è la mia fermata: Danshui. Qui trovo il mare. Per fare un paragone chredo che questa parte di Taipei sia come gli Hamptons per New York. Coppie che passeggiano sul lungomare, famiglie con i bambini, ragazzi che corrono dietro alle ragazze, anziani appoggiati a fantasticare guardando il mare. E io. Il mare che bagna Taipei non so come si chiami, forse mar della Cina o mar delle Filippine, però è come tutti gli altri mari, eccezion fatta per il fatto che si perde tra le colline coperte di giungla e tra una delle metropoli più asiatiche che abbia mai visto. Avendo scoperto che il punto di maggior interesse dell’area era il Fisherman’s Wharf (molo del pescatore) chiedo in giro come arrivarci e mi indicano il bus 26. Mi incammino verso la fermata ignorando che di lì a poco avrei reincontrato la magia. Al momento di salire avevo solo 100 dollari per pagare il biglietto e l’autista mi ha fatto capire che accettava solo monete. Avevo atteso quel bus per quasi mezz’ora e si stava avvicinando il tramonto. Ero un po’ seccato per l’inconveniente e stavo per scendere quando una ragazza con sua madre si avvicina all’autista, gli dice qualcosa e fa cadere i soldi nel contamonete, poi si gira e mi fa un cenno di ok. Io, che non avevo afferrato che mi stava pagando il biglietto, la guardo e poi guardo l’autista che, spazientito, con il pollice mi fa segno di muovermi. Avendo realizzato l’accaduto, mi avvicino alle due per ringraziarle e offrirgli di nuovo i miei 100 dollari, ma quelle hanno rifiutato categoricamente, mi hanno detto “Welcome” e si sono rimesse a sedere. Che bello. Un piccolo gesto che per me vale tutto il viaggio fatto per arrivare fin qui. Non volendo essere da meno, una volta scesi dal bus mi sono avvicinato e ho regalato loro una delle preghiere di stoffa che avevo comprato al tempio. Loro ne sono state felicissime e io mi sono sentito un po’ meno scroccone. Quel che è giusto è giusto: la strada prende, la strada dà. Il molo del pescatore al tramonto si è rivelato pieno di fascino. Aiutando ulteriormente l’atmosfera coi Pearl Jam (chissà se Eddie Vedder ha idea di quello che sta facendo per me e di dove io lo stia portando) ho visto un tramonto bellissimo sul ponte di San Valentino e ho scattato tante altre fotografie. La notte ha avvolto la baia, e io me ne sono tornato a casa.

A cosa si riferisce la fede assoluta del titolo? No, non a Dio o a Buddha o allo Zen e nemmeno al Tempio. Essa si riferisce alla fede nel viaggio, nell’avventura, nell’ignoto, nel mio io e nel mio simile. Al fatto che quello che non conosciamo, o è diverso da noi, non sempre fa paura, anzi, la maggior parte delle volte si scopre che la paura che abbiamo ce la creiamo noi e ne soffriamo. Inutilmente. We are walk a long road…


Al mercato notturno

Taipei, Taiwan, 5 feb 2011, giorno 25, ore 00:21, Taipei Teacher Hostel

La nonna di un mio amico ha una teoria secondo la quale fritta è buona anche la suola di una ciabatta. Se avesse visto cosa friggono e mangiano qui, probabilmente avrebbe rivisto la sua teoria. D’accordo che io non sono un buongustaio dalla bocca facile, ma credo che alcune delle pietanze che ho visto servire stasera non le avrei mangiate nemmeno su quel famoso aereo della Finnair. Hanno uno strano modo di mangiare qui. Strano nel senso che non soddisfa la vista. Se vieni in Italia e ordini, non so, tagliatelle al ragù, i tuoi occhi luccicano quando il piatto ti arriva davanti. Se cammini per il mercato notturno del Tempio Longshan e ordini, non so, dei noodles, quando il piatto ti arriva davanti, gli occhi si chiudono e ti viene da vomitare. Almeno per me funziona così. I locali mangiano con gusto quelle brodaglie e quei pesci secchi e maneggiati come se fossero carte da briscola. Ordinano delle strane pappette, formate da strani ingredienti che, dopo aver riposato per ore su un vassoio ed aver assorbito ben bene tutti i fumi di Taipei e le tossite degli esercenti, vengono buttate nell’olio e fritte. Una bontà da cinque stelle Michelin. Io per il momento col cibo me la cavo. Essendo quella di Taipei una cucina nata dall’unione di piatti cinesi e giapponesi, io, almeno per il mangiare, rimango sulla sponda giapponese. Il mio coinquilino mi ha detto che ha visto anche un mercato dove servono serpenti, rane e altre leccornie del genere. Domani mi ci porta, ha detto. Non credo che mangerò. Mac Donald’s. I’m lovin’it.

Lato culinario a parte, il mercato notturno è stata un’esperienza da film. Un vero mercato orientale, la bancarella che vende pesce secco accanto a quella che vende cellulari. I bambini che corrono tra le bancarelle guardando golosi le noccioline al wasabi, gli adulti che comprano palline di riso con carne fritte e scooter che passano con noncuranza tra la folla a passeggio. E poi gli odori. Non solo il mercato, tutta la città odora di incenso, di spezie e di mare. Tutti questi odori ti avvolgono all’improvviso. Non si sa da dove vengano, ma avresti sempre voglia di andare con loro. Una metropoli che ad ogni angolo cambia faccia. Quartieri disastrati che spariscono all’improvviso per dar spazio a grattacieli ultramoderni che a loro volta svaniscono per trasformarsi in palazzoni da colonia. Un microcosmo chiuso in una palla di vetro. Oggi ho vagato a caso per la città e ho visto talmente tante città diverse che non sono riuscito a farmi un’idea di quale sia la vera Taipei. E’ la via commerciale piena di marche famose? E’ l’officina davanti alla quale si cuociono polipi nel quartiere del porto? E’ il secondo grattacielo più alto del mondo? E’ la via delle prostitute e dei barboni? Non l’ho ancora capito con esattezza, ma so che vorrei più tempo per approfondire la cosa. Purtroppo il mio volo per Singapore riparte giovedì. Ho mandato una mail alla Tiger Airways per sapere se lo posso spostare di due settimane, ma non ho ancora ricevuto risposta. Taiwan mi ha catturato. In lei trovo tutto quello che trovo nell’Asia di Guccini. Mi piace stare qui. Il clima è ottimo, i prezzi sono bassi, la città mi intriga e gli abitanti sono vari. Se dovrò partire spero di ritornare un giorno. Se non altro, almeno, saprò già dove trovare l’ostello.


L’ostello

Taipei, Taiwan, 3 feb 2011, giorno 23, ore 23:59, ostello

Scendo dall’autobus e mi ritrovo da nessuna parte. Non ho idea di dove sono, non ho idea di dove sia l’ostello e non ho idea di dove debba andare. Perfetto, penso, può solo migliorare. Da qualche parte deve esserci un Dio degli zingari che protegge i viaggiatori e li aiuta nel momento del bisogno, magari mandando un angelo a guidarli. Il mio angelo era una ragazza giapponese che mi si è avvicinata perchè mi ha riconosciuto dall’aereo che abbiamo preso insieme a Osaka. Piccolo il mondo, eh? Il suo nome era un guazzabuglio di suoni a me incomprensibili, ma il suo inglese era impeccabile. Curioso, non ho trovato un giapponese che parlasse inglese in Giappone ed ecco che ne trovo uno in una stazione di Taipei. Mi chiede se ho bisogno di aiuto ed io le mostro la mia unica traccia, l’indirizzo dell’ostello. Lei dice di essere già stata qui più volte, ma non ha mai sentito questo indirizzo o questo ostello. la fortuna ha voluto che dovessimo fare un pezzo di strada insieme, così mi ha accompagnato alla metro e mi ha messo sul treno giusto. Dopo una lunga serie di ringraziamenti, auguri e speranze, esco dalla metropolitana e mi ritrovo in strada.  Davanti a me una piazza gremita di gente mi riporta alla mente la Time Square di New York nel giorno di punta. Gente ovunque, allegria nell’aria e tanti festeggiamenti. In quella babilonia il mio senso di disorientamento toccò l’apice. non avrei mai trovato la via in mezzo a quel caos, così decisi a malincuore di chiamare un taxi. Il tassista non conosce nè l’indirizzo nè l’ostello, ma non è un problema. Dopo aver mollato il taxi in mezzo alla strada inizia afermare passanti per chiedere informazioni. Il primo che ferma non sapeva nulla. Insieme fermano un altro passante, ma anche questi non dà nessun contributo utile. La cosa si ripete, e nel giro di pochi minuti attorno a me si crea un capannello di sconosciuti, saranno state venticinque persone, tutti impegnati nella ricerca del mio ostello. Il mio taccuino passava di mano in mano senza che nessuno sapesse niente e senza la minima preoccupazione da parte mia. Il mio ostello sembrava non esistere. Alla fine dell’indirizzo avevo segnato anche il numero di telefono e un ragazzo che proprio non voleva lasciarsi sconfiggere da una via ha chiamato l’ostello. Dopo una lunghe serie di sillabe, il ragazzo va dal tassista e gli dice qualcosa. Il tassista ride, ringrazia, mi saluta e se ne va. Il ragazzo mi si avvicina e mi dice tranquillo, è qui vicino, ti ci portiamo noi. La compagnia dell’ostello parte alla volta di una destinazione a me, e a molti altri, sconosciuta. Il ragazzo guidava, seguito da me e da un altro ragazzo con una ragazza. Dopo un po’ di incertezze e cambi di direzioni mi dicono che ci siamo. Mi indicano il portico di un palazzone che sembra un incrocio tra  “I ragazzi dello zoo di Berlino” e un film tratto da un libro di Chuck Palhaniuk. uno di quei posti in cui non manderei mai mia figlia dopo il tramonto. Mi guardavo intorno ma non vedevo traccia della mia meta: non un insegna, non un cartello o una freccia che facessero supporre la presenza di un ostello. In quel momento mi sono ricordato che non ero più in Giappone e i miei sensi hanno cominciato a vibrare. Possibile che non ci sia nessun insegna? Zero? Mi stanno fregando? Sta per succedere un guaio? Ma no, li hanno fermati per caso. E’ qui che deve succedre? Mentre fantasticavo (lo dico adesso) su queste cose, i ragazzi decidono di fare un’altra telefonata. Forse anche loro erano perplessi da tanto mistero. Dopo la chiamata mi dicono di aspettare qui che sarebbe arrivato qualcuno a prendermi. Qualcuno? Qualcuno chi? E a portarmi dove? Mentre il mio livello di attenzione cresceva, da dietro l’angolo sbuca un asiatico. Trent’anni, pochi capelli, occhi piccoli piccoli celati da due fondi di bottiglia. Mi stringe la mano e chiama l’ascensore. I ragazzi mi salutano e se ne vanno. Io li ringrazio anche in giapponese e mi offro di pagargli le telefonate. Loro rifiutano categoricamente, si girano per andarsene e l’unica cosa che dicono è “Welcome to Taiwan”. Penso a quanto siano stati gentili e a una situazione del genere mentre l’ascensore sale. Forse per non pensare a quello che sarebbe potuto capitare di lì a pochi momenti. Le porte si aprono e io seguo il tipo che cammina in silenzio lungo un corridoio da stupro male illuminato. Il mio Virgilio si ferma davanti ad una porta di legno scuro protetta da una griglia di acciaio tipo cella di prigione e mi dice “Hostel”. Accanto alla cella c’è un post it rosa grande come un francobollo con su scritto “Teacher Taipei Hostel”. Io ne avrei voluto aggiungere un altro con scritto “La nostra forzaa è che è facile trovarci”. Mi rilasso, ma forse troppo presto. Si apre la porta, vengo invitato ad entrare e a togliermi le scarpe. Devo dire che poche volte ho visto un cesso come quello. Una vera topaia asiatica. Disordine distribuito con generosità, depliant, scatoloni, avanzi di cibo e sporco riempivano uno stanzone che fungeva da stanza comune. Niente reception, niente accoglienza, niente…. ostello. Almeno come io li ho sempre visti.  Solo un piccolo bagno e un polacco. Mi è piaciuto subito. Non il polacco, l’ostello. Anche il polacco. Dopo avermi dato il benvenuto all’Hilton, mentre il proprietario mi sistemava la branda facciamo due chiacchiere. Viaggiatore, nessuna casa se non questo ostello, ha vissuto per un po’ a Dublino e poi è partito. adesso è qui per caso e presto andrà nelle Filippine. Una storia come tante in un posto decisamente fuori del comune.

Adesso sono solo, il polacco è uscito e a quanto pare siamo gli unici due ospiti di questa struttura. Ho fatto un giro per la città e devo dire che incanta subito. E’ sporca, caotica, piena di gente, piena di vita. E’ asiatica ma anche europea. E’ un misto tra la zona universitaria di Bologna e Tokyo. Ho capito poche cose, ma una di queste è che bisogna darle una seconda possibilità in tutto, perchè anche se al primo impatto è un po’ dura, sono sicuro che questa sarà una città che saprà farsi amare. E le paglie si buttano per terra. Evvai!


Happy Chinese new year’s eve

Taipei, Taiwan, 3 feb 2011, giorno 23, ore 20:35, autobus dall’aeroporto

Caldo umido. La giacca che ho tenuto addosso più o meno sempre dall’Italia a qui, adesso è accartocciata nello zaino e credo che presto farà una brutta fine. Taiwan non è il Giappone, e l’autobus sgangherato che mi sta portando in città è un buon monito per ricordarmelo. Sono euforico. Niente guida, niente informazioni. La strada che ho davanti è quella che è e non quella che devo cercare. L’unica cosa da cercare ora sarà l’ostello e a quest’ora con questo buio non sarà facile. Sudore sulla fronte e mani appiccicose che sgualciscono la carta del taccuino. Freni cigolanti, ammortizzatori scarichi, sedili bucati e sporcizia, addosso e intorno. Decisamente non è il Giappone. Mi rilasso e mi godo il viaggio. La scritta a led luminosi sul banco del controllo passaporto recitava “Happy Chinese New Year’s Eve”. Si capiva che c’era una festa già dall’aereo, quando mentre si atterrava si vedevano i fuochi d’artificio esplodere su tutta Taipei. Capodanno. Sembra di stare in un film pulp di serie B, umidità e luci al neon verdastre. Il sobbalzare dell’autobus sull’asfalto irregolare crea un moto ondoso a causa del quale è quasi impossibile scrivere. Dal finestrino tanta periferia, insegne al neon rotte, scooter e supermarket. Mi sembra di essere nella Saigon del film Full Metal Jacket. Improvvise luci colorate tingono le strade e gli alberi di anno nuovo; botti di fine anno, palme e 7 eleven. Una fiaccola olimpica come simbolo di un distributore di benzina. Qui la verde è a 70 centesimi il litro. Lentamente comincia ad apparire la città. Pizza Hut, KFC, grattacieli e persino un negozio della Piaggio. Non so più cosa aspettarmi. Qualunque cosa accada, è solo l’uomo e le sue tane di questa parte di mondo.  Una tangenziale a quattro corsie e poi tutto cambia. Centri ultramoderni invadono i marciapiedi. Grattacieli alti come montagne con ai piedi Armani, Gucci, Louis Vuitton. Forse ho bisogno di più tempo, forse non ho ancora capito nulla. La meccanica mi è ancora estranea.


Ultimo probabile post dal Giappone

Osaka, 3 feb 2011, giorno 23, ore 13:17, Kensai Airport

Eccoci qua: l’aeroporto. Mi piace proprio un sacco essere un viaggiatore. Quando hai lo zainone in spalla la gente ti guarda diversamente. Alcuni hanno facce del tipo “Se non ti invidio”, “Pesa, eh?”, “Ma guarda stò barbone”, ma altri hanno facce diverse, le facce di chi sta pensando “Chissà dove va, da dove viene, dove sarà”, oppure “Quanto vorrei fare come lui”. Tutte queste facce si sentono addosso sui mezzi pubblici, alle fermate, camminando per la strada. Quando però si arriva all’aeroporto tutto cambia. Secondo me anche l’aria ha un odore diverso negli aeroporti. E’ tipo un misto di tante arie che ogni viaggiatore si porta con se. Mi piacciono gli aeroporti, perchè sono indiscutibilmente un simbolo del viaggiare. E mi piace essere all’aeroporto per conto mio. L’unica cosa che non mi piace degli aeroporti è prendere l’aereo. Vorrei poter dire che questo sarà il mio ultimo aereo, ma sarbbe una bugia enorme. Per uno che detesta volare lasciarsi alle spalle ogni Paese con un aereo è davvero il colmo, ma qui le compagnie aeree hanno veramente prezzi bassissimi. Si potrebbe arrivare in Australia da Singapore spendendo meno che ad andare da Modena a Milano in treno. E’ troppo conveniente, quindi credo che in futuro ne approfitterò.

Fine del Giappone. Un po’ dispiace, ma nemmeno più di tanto. Da quando ho parlato con quel tipo belga vedo tutto in maniera differente. Sicuramente è suggestione, ma da quando si è parlato di quel muro non faccio altro che vederlo dappertutto. Stamattina, venendo qui, ho provato una piccola dose di odio nei conbfronti dei giapponesi. Lo ammetto, è andata così. Non so, però certe volte sembrano tipo dei cavalli col paraocchi, dei robot. Una volta insegnata loro un procedura, loro la applicano senza mai interrogarsi sulla sua validità, senza effettuare eccezioni, senza usare il cervello. Ero seduto su un sedile pighevole sul treno e avevo lo zaino schiacciato sotto di esso. Il sedile aveva due posti e accanto a me si è seduta una donna di mezz’età. Mi ha ringraziato, sedendosi. Poco prima di arrivare alla fermata mi sono alzato in piedi e ho cominciato a prepararmi per scendere. Lo zaino non voleva uscire perchè era incastrato sotto al seggiolino e la vecchia mi guardava come un’ebete. Io la guardo come per dire “Bella, se alzi il culo io tiro via lo zaino”, ma quella continuava a guardarmi come un’ ebete. Io allora tiro con grande grinta, il sedile si alza, la vecchia sobbalza e io tiro via lo zaino. Bla bla di polemica sul modo di condurre la procedura. Fermatosi il treno sono sceso e mi sono fermato davnti alla porta. Ho pensato “Scommetto che adesso scende”. Infatti, dopo qualche istante, la vecchia si è alzata ed è scesa. Avrei voluto menarla. Forte. Anche in autobus è successa una cosa del genere. In Giappone il biglietto dell’autobus si paga alla fine, prima di scendere, alla macchinetta che sta di fianco all’autista. Ci volgiono i soldi contati, quindi accanto ad ogni macchinetta c’è un cambiamonete. Io avevo solo 1000 yen, quindi quando è stato il momento di scendere mi sono messo lo zaino in spalla e sono andato a cambviare. L’autista mi ha visto e ha cominciato a sclerare perchè bloccavo la fila. “Haina waina haina waina!!!!!”. E dove me lo metto? Pago e scendo. Stai calmo. Non so, però non credo che vorrei essere un giapponese. Vivono troppo dentro a una scatola. Se noi italiani siamo troppo da una parte, loro sono troppo da un’altra. Ci vorrebbe un equilibrio, una via di mezzo. La virtù sta nel mezzo, appunto. E’ vero che qui ho visto cose che credevo succedessero solo nei film e che il livello di onestà è tale per cui potevo permettermi di andare al bagno nei luoghi pubblici lasciando le mie cose sul tavolo, però è vero anche che questa è una cosa che salta subito agli occhi, mentre la loro “robotica” necessita di più tempo per essere notata. Il bilancio è sicuramente positivo, più che positivo, ma non siamo certo all’eccellenza. Quanto al chiedermi se vorrei vivere qui, bè forse a Tokyo. Non per sempre. Dopo un po’ la mia natura “umana” verrebbe fuori e o mi farei saltare in aria in ufficio per uccidere tutti i colleghi “robot” o mi caccerebbero loro per distubo della quiete lavorativa. Ma forse tutto questo è frutto di una conversazione particolare e di una mattinata ricca di coincidenze. Non lo so. Sta di fatto che adesso sono in aeroporto e domani è un altro giorno. Sayonara…