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Auto e autostop nel Paese più bello del mondo

Cygnet, TAS, 12 gen 2013, ore 11:29

La strada che collega Huonville a Cygnet è generalmente trafficata. Non è come la Highway che da Huonville porta ad Hobart, piena di auto nuove e di mezzi pesanti. No, questa ha un traffico più rurale. Molte auto hanno la vernice opacizzata dal tempo, i vecchi paraurti cromati. Alcune hanno la ruggine sulle portiere. Molte jeep, pick up e piccoli camioncini. E’ il traffico tipico delle zone di campagna. E’ il traffico perfetto per trovare un passaggio. Senza un’automobile, spostarsi nella Huon Valley è impossibile. Due autobus al giorno collegano Cygnet ad Huonville e sono alle sette di mattina e a mezzogiorno. Tutti i backpackers che si devono muovere in altri orari hanno solo due soluzioni: camminare o fare autostop. L’autostop, hitch hiking, è il metodo più rapido per spostarsi. Si cerca una zona della strada dove le auto abbiano la possibilità di fermarsi, si tira fuori il pollice e si aspetta. Alcuni automobilisti accelerano, altri si scusano e non si fermano, ma molti si fermano. Sarà curioso, ma la percentuale più alta di passaggi l’ho ricevuta da donne sole. Il primo passaggio me l’ha dato una ragazza su una vecchissima e sgangherata giardinetta col legno sulle portiere. Era una ragazza estremamente solare e aperta. Viveva a metà tra il Kimberley e la Tasmania. Sei mesi da una parte e sei mesi dall’altra. Uno dei più bei brevi incontri di sempre. Altro incontro importante è stato quando un’altra signora, un’abitante della valle, ci ha portato dritto di fronte alla farm che stavamo cercando per il lavoro. Nonostante dovesse fermarsi circa sette chilometri prima, questa signora ci ha portati ancora avanti e si è messa a cercare la farm con noi. E’ stata estremamente gentile. Mi avevano detto che gli australiani avevano l’abitudine di caricare le persone e di portarle il più vicino possibile, ma mai avrei creduto tanto. Mai nessun timore, nessun problema, e generalmente passaggi da donne sole o da anziani. Proprio le tipiche persone che potrebbero essere espostead un aggressione da parte di uno sconosciuto sono proprio quelle persone che invece si fermano e ti aiutano. Meraviglioso.

La signora alla farm sopracitata, invece, ci ha dato notizie differenti. Ci ha detto che fare autostop è pericolosissimo, che spesso succedono cose brutte ai backpackers. Ci ha detto che lei non lo raccomanderebbe affatto. Però ci ha dato un lavoro, un lavoro vero. Tutti e quattro, potrei dire tutti e sei, perchè un’altra coppia di Modena si è aggiunta a noi, lavoriamo sei ore al giorno in uno shed , un capannone, a selezionare ed impacchettare ciliegie. Fa schifo, ma ci pagano 20 dollari l’ora, il lavoro è valido per il secondo visto e questo è tutto quello che ci occorre. No, ci occorreva anche un’auto. Ieri è stato il nostro primo giorno di lavoro. All’andata siamo saliti in quattro su un’auto guidata da una coppia dark-metallara bellissima. Due persone estremamente belle insieme ed estremamente gentili. Ci hanno caricato appena fuori Huonville ed anche se eravamo in quattro e se avevano la macchina piena di funghi, ci hanno portato allo shed. Grandi momenti e grandi persone si possono trovare lungo le strade d’Australia e della Tasmania. Abbiamo finito il lavoro alle nove di sera. Le ragazze le abbiamo messe su una macchina che andava a Cygnet e che abbiamo fermato mentre partiva dalla farm. Guidava un asiatico, ha caricato loro ma non me e Carlo. Io elui ci siamo fatti un bel pezzo a piedi col pollice fuori, ma nessuno si è fermato. Era quasi buio e noi eravamo coperti coi cappucci. Certo non due persone raccomandabili da caricare al crepuscolo. Infatti nessuno si è fermato. Dopo essere arrivati fino al museo della mela, ci siamo arresi ed abbiamo chiamato un taxi. Al suo arrivo siamo saliti e Carlo ha accennato all’autista che ci serviva un’auto. L’autista ha detto di poterci aiutare. Ci siamo fermati al crocevia con la strada per Cygnet e l’autista è sceso un attimo per andare a parlare con una cameriera dell’albergo che sorge in quel putno, uno di quegli alberghi-bar-pub-ristoranti-ostelli che si trovano nelle parti più remote del continente australiano, il punto migliore per trovare informazioni, aiuto o guai. Dopo un po’ ne è ritornato con un foglio ed un numero telefonico. L’auto costava 1000 dollari e a sentire lui era in ottime condizioni. Il tassista si è anche offerto di portarci fino a Cygnet gratis per vedere l’auto. Persone meravigliose sono gli australiani che non pagano i backpackers un dollaro al chilo di ciliegie. Siamo andati a vedere l’auto ieri sera e stamattina, dopo averla provata con la ragazza, l’abbiamo comprata. Comprare un’auto in Australia è veramente facile. La si trova, la si prova, la si paga in contanti al proprietario vecchio e il lunedì si va ad un ufficio a registrare il passaggio di proprietà al costo di 30 dollari. Fatto. L’auto te la porti via anche se non hai ancra fatto il passaggio di proprietà. Come si fa a non amare un Paese così?

Ora la maggior parte dei nostri problemi sono risolti. Abbiamo un lavoro, un’auto e una bella compagnia. Ci manca solo un posto dove vivere, ma presto risolveremo anche questa faccenda. Forse. Forse no. Impossibile prevedere il futuro. Meglio godersi il presente e caricare qualche backpacker che troveremo lungo la strada mentre guidiamo la nostra macchina nuova per andare al nostro nuovo lavoro. L’Australia, oggi, ha dato un sacco.


Cacciati!

Cygnet, TAS, 9 gen 2013, ore 17:52

La signora che gestisce questo posto, che mi rifiuto di chiamare ostello, non mi piace. E’ viscida. E’ una di quelle persone che ti sorride in faccia, sembra affabile, carina e disponiblie, ma che in realtà si approfitta di te alla prima occasione. Il suo aspetto non aiuta ad ispirare fiducia. La sua pelle è una e coperta di macchie nere sul collo. I suoi capelli sono unti e mal tinti: le punte marroni, le radici bianche sporco. I suoi occhi sono verdi, con la parte vicina alla pupilla nocciola e quando ti guardano ti penetrano dentro come spade. Sembra sempre che stia cercando di studiarti, di scoprire il tuo punto debole per poi, al momento giusto, fregarti. E’ grassa. Mostruosamente grassa. E’ grassa come due persone e questa sua mole si ripercuote sulla sua camminata, la quale è lenta e sempre incerta. Non mi piace, ma le circostanze mi impongono di essere sempre carino con lei. Ed io lo odio profondamente.

Stamattina, arrivati in farm, siamo stati divisi per nazionalità. Qui gli italiani, lì i francesi, là gli asiatici. Curioso come quando si parli di asiatici, la nazionalità non conti più. Non imposrta se si tratta di cinesi, coreani o giapponesi: sono solo asiatici. Per tutti. Questa però è un’altra storia. Una volta divisi siamo stati rimproverati tutti duramente. Il lavoro non andava bene. Bisognava essere più veloci, più precisi, meno foglie staccate. Più robot, insomma. Il farmer ci sgridava come se stesse cacciando delle pecore dentro all’ovile. Mi sentivo umiliato senza nessun motivo. Siamo stai minacciati tutti: se non si migliora, qualcuno andrà a casa. Io ero abbastanza tranquillo. Non sentivo il mio lavoro a rischio. Stavo dando il massimo e, come me, gli altri ragazzi. Siamo andati tra i filari a cuor leggero. Dopo appena due cestini la supervisor è arrivata a controllare. Ha controllato il mio: era perfetto. Le ho chiesto se andava bene e lei mi ha detto di sì, poi mi ha detto di andare al capannone una volta finito il mio cestino. Io e Sylvie. Poi è andata da Carlo e da Michelle e ha fatto la stessa cosa. Perchè? Non capivo. Stavo perdendo tempo, e il tempo, per uno che lavora a cottimo ed è pagato una miseria, è denaro. Arrivati al capannone il capo è arrivato, ha visto in terra due cestini con dentro alcune foglie e ci ha cacciati. Non ho detto licenziati. Ho detto cacciati. Senza troppe parole o spiegazioni. Non andate bene. Troppe foglie per terra. Adesso chiamiamo il pulmino e ve ne andate. Riconsegnate i cartelline e poi verrete pagati venerdì. Tutto qui. Non sono mai stato trattato così. Non so che posto sia questo, ma qui l’umanità non è di casa. Non ci ha nemmeno fatto finire la settimana, il giorno. Nessun preavviso, nessun richiamo. Via! Via col dito puntato verso la porta del capannone. Inutili le proteste. Via! Cacciati per delle foglie con dei cestini perfetti, raccolti per otto dollari l’ora.

Tornati all’ostello abbiamo parlato con la signora. Dopo qualche spiegazione, magari una parola di troppo, ma mai maleducati, è saltato fuori che la colpa era in effetti nostra. Noi, secondo la signora, siamo qui solo per i soldi e quindi per forza il lavoro non è di qualità. La tensione si è alzata. Se si conta che per questa baraccopoli paghiamo, tra tutto, 175 dollari la settimana è naturale cercare almeno di guadagnare il più possibile. Invece no, noi dovremmo lavorare, secondo loro, per meno di 60 dollari al giorno ma fare il lavoro di una macchina. Non è tutto. Anche se siamo stati cacciati dal farmer, tutti noi avevamo firmato un contratto che prevedeva una settimana di preavviso da dare alla signora per poter lasciare il posto senza perdere il bond di 200 dollari. Avendo perso il lavoro nelle ciliegie, la signora ha detto di non poterci più tovare un lavoro come raccoglitori di quei frutti, ma solo per le fragole. 5 dollari per un contenitore grande come due scatole da scarpe. Una cosa improponibile per chiunque. Volevamo allora andarcene, ma il contratto parla chiaro: una settimana di preavviso. Il risultato è che noi possiamo andarcene quando vogliamo, ma dobbiamo comunque pagare per altri due giorni di letto, 50 dollari, per poterne riavere indietro 200. Sono le regole, diceva, valgono per tutti: non vi sembra giusto? Non so come abbiamo fatto a non aggredirla, ma siamo ritornati indietro senza poter fare nulla e senza aver compromesso la situazione in maniera peggiore con le offese che avrebbe meritato.

Sfruttati all’osso, ecco cosa siamo. Tutti. Gli altri ragazzi che lavorano con noi domani non lavorano. Eppure stamattina, tra un urlo ed un altro, il farmer aveva detto che la raccolta era in ritardo. Quindi perchè non lavorano? Persone che pagano anche 225 dollari la settimana riescono a guadagnarne a malapena 64 al giorno. In Australia non è nulla. Mi chiedo cosa pensi questa gente, che situazione abbiano per non poter mandare tutto e tutti al diavole e cercare un’altra farm. Molti rimangono nonostante tutto ed io non me ne capacito. Personalmente, se volessi farmi trattare così e se volessi vivere in queste sistemazioni, mi basterebbe andare in puglia a raccogliere i pomodori coi rumeni a 50 centesimi l’ora. Nei week end potrei comunque tornare a casa a trovare la mia famiglia ed i miei amici. Il livello di sfruttamento raggiunto in Tasmania è tremendo. Se vuoi lavorare devi firmare questi contratti in quasi tutto gli ostelli. Una volta portato al lavoro, la paga è una miseria ed il livello richiesto è quello di una macchina. Se sei licenziato devi comunque dare altri soldi ad altra gente perchè hai firmato quel contratto che ti ha permesso di trovare quel lavoro. Vorrei fosse uno scherzo, ma non lo è.

A questo punto la mia situazione non è rosea. Dopo aver chiamato Bourke ed il governo innumerevoli volte posso dire con sicurezza di avere accumulato 58 giorni di visto a Bourke e 3 qui. Sui 3 giorni tasmani non sono ancora sicuro, devo chiamare. Il risultato è 61, quindi me ne mancano ancora 27. Ventisette giorni. Quattro settimane. Sono poche, ma sono anche tante. Ora come ora non ho idea di dove andare. Vorrei andarmene dalla Tasmania, ma sembra che nel resto dell’Australia non ci sia frutta da raccogliere. In Victoria si vocifera di un’imminente stagione delle mele, ma non ho certezze. Un ragazzo che ho conosciuto a Bowen, e che adesso lavora là, ha postato su Facebook che anche in Victoria le condizione sono pessime. E’ una dura lotta quella che mi aspetta, soprattutto perchè il numero di backpackers che sta cercando lavoro credo superi decisamente la domanda. Bisognerà aspettare, anche se non ho molto tempo. Domani proverò a chiamare in giro, oppure cercheremo un amacchina e andremo farm per farm a vedere come è la situazione. Ho già detto una volta che non sarebbe potuta essere peggio di prima ed ho sbagliato clamorosamente; quindi non lo farò. Dirò soltanto che preferisco ancora stare qui piuttosto che tornare in Italia. Quando questo pilastro crollerà, quando sarò veramente sconfitto, allora forse mollerò, mi farò i conti in tasca e poi farò ritorno. Per ora, nonostante tutto, evviva l’Australia, terra di opportunità, felicità e di spietati sfruttatori.


I dolori di un giovane backpacker

Cygnet, TAS, 8 gen 2012, ore 19:45

Questa è una fase delicata del mio cammino in Australia. E’ delicata perché è pesante sopra ad ogni limite. E’ delicata perché può farmi scoppiare da un momento all’altro. Sono una bomba che rotola. Tutto quello che ho visto e fatto quaggiù, da Perth a Bourke attraverso mezzo continente australiano, culmina con la situazione peggiore immaginabile. Ho finito i sinonimi presenti nel mio vocabolario e non ho abbastanza linea per farmi aiutare da Google. Se l’inferno avesse un nome, non sarebbe Bourke: sarebbe Tasmania. Una sirena, tanto bella quanto letale. Il suo canto attira innumerevoli sventurati che finiscono poi invischiati tra le sue braccia e lì rimangono per sempre. Molti backpackers hanno fatto naufragio quaggiù, attirati da una stagione di raccolta che prometteva essere ricca e che invece si è rivelata povera e spietata, crudele come le persone che sfruttano i viaggiatori. Proprietari di ostelli, farmers, albergatori ed anche tassisti. Tutti a sfruttare tutti finché ce n’è. E quando un non ne ha più, ce n’è subito un altro a sostituirlo.

Le mie condizioni di vita qui non credo siano classificabili come umane. Siamo bestie, schiavi o qualunque altra parola renda l’idea. Al prezzo di 175 dollari la settimana ho solo un tetto di lamiera sulla testa. Niente luce, i bagni sono lontani e non posso usarli tutti, la cucina è sporca, piena di insetti e sempre piena di altri pezzenti che cercano un angolo il meno sporco possibile per cucinare qualcosa di commestibile e mangiarlo in fretta. Il lavoro non è faticoso ma è sottopagato al massimo. Un dollaro al chilo per un cesto di ciliege perfette. Una ventina di quelle brutte e il supervisore ti dice che il prossimo non te lo pagano. Otto dollari ogni quarantacinque minuti da cui togliere le tasse. L’estate qui è un autunno. E’ freddo, piove spesso ed è sempre nuvoloso. L’acqua da bere è gialla o marroncina e quelle poche volte che il cesso non è occupato è sempre senza carta igienica. Appena dimentichi o appoggi qualcosa, è sparita. L’ostello è sovraffollato al massimo. Gente che paga anche più di me per dormire chi in una macchina, chi in un van scassato. I più fortunati vivono in tenda alla modica cifra di ottanta dollari alla settimana. E il tempo corre. Mi mancano ancora una quarantina di giorni da fare per il visto e di lavoro non ce ne è tanto. Tutti vogliono lavorare. Tutti cercano lavoro e a tutti va bene qualunque sistemazione. Un esercito di pezzenti. Per chi sa di cosa sto parlando, la tragedia degli Oakies.

Non capisco ancora bene che effetto avrà tutto questo su di me. L’entusiasmo è storia e ogni momento mi chiedo quanto tutto questo valga la pena. Credevo di essere forte ma forse non lo sono abbastanza. Non voglio cedere, ancora. Non voglio mollare. Ogni volta che penso di farlo penso a “Furore”, il libro di Steinbeck, e penso a tutte quelle persone che fanno questa vita ma non hanno la possibilità di ritornare a casa. O non hanno una casa affatto. Il mondo ne è pieno, ma non immaginavo di sentirmi così vicino a loro. E’ tremendo, tutti abbiamo il morale a terra ma vogliamo andare avanti. Ci proviamo. Basterebbero anche solo condizioni di vita migliori. Una stanza, la luce, un bagno. Sarebbe sufficiente, ma al momento non ci sono. Non resta che sperare. Se fossi credente pregherei, a questo punto. Purtroppo non ho nemmeno questo conforto. Sono solo un altro backpacker in cerca di lavoro e di un visto. E scusate se sono ripetitivo.


L’Australia prende, l’Australia dà

Cygnet, TAS, 7 gen 2012, ore 17:48

Non pensavo che sarei mai andato in Tasmania in vita mia. Uno la sente nominare, sa che sta dall’altra parte del mondo, ma non pensa mai di andarci. Un ragazzo che ci è stato non sapeva nemmeno che fosse un’isola. Non sapeva nemmeno che fosse in Australia. Invece è cosi. Una piccola isola, ma abbastanza grande da essere classificata come stato autonomo, non un territorio. In aereo dista poco meno di un’ora da Melbourne. Ci si può andare anche in nave, volendo. Lo “Spirit of Tasmania”, l’unico traghetto che copre la tratta, ci mette una notte e sbarca a Devonport. Da lì, per raggiungere l’aereo arrivato quasi un giorno prima, la si attraversa in autobus e si giunge a Hobart, la capitale. Hobart, una capitale piccola e graziosa, situata sui dorsi delle colline che sormontano l’estuario del fiume Derwent, il quale, dopo aver serpeggiato tra colline coperte di frutta, si getta nel mare di fronte alla città, in uno dei porti naturali più belli d’Australia. Hobart ed i suoi ponti. Hobart e le sue mille casette. Una città priva di condomini o palazzoni. Solo case di legno ammassate alla rinfusa lungo dorsi scoscesi di dolci colline. Una delle città più semplici di cui abbia memoria. Un piccolo centro, un grande porto, mille barche a vela e tante persone gentili. Difficile non voler restare per un po’. Facile invaghirsene in breve tempo. Basta poco. Un giro in taxi, due albergatori squisiti ed un letto vero, pulito e morbido dopo tanto tempo. E un bagno in camera ovviamente. E’ tutto qua. Mentre ovunque, nel mondo, la notte più buia cela gatti o uccelli bizzarri, Hobart cela creature strane. A prima vista sembrano enormi gatti dal muso a punta. Accoccolati sui rami dei giardini si muovono silenziosi celati dalla notte e dal loro pelo nero. Solo gli occhi brillano al buio. Non fuggono davanti agli uomini, ma cantano, ed il loro canto ghiaccia il sangue nelle vene. Un brivido corre fugace lungo la spina dorsale, i denti si stringono, gli occhi si chiudono. I diavoli della Tasmania, chiamati così per un giusto motivo.

Al mio arrivo ad Hobart ho scoperto il fuoco selvaggio. Avevo chiamato per giorni in cerca di una sistemazione. Nulla da fare. Tutto occupato. Al mio arrivo in aeroporto non sapevo dove andare. Sapevo solo che la domenica sarei dovuto essere ad Huonville per la nuova farm. Due giorni da trascorrere ad Hobart per l’attrezzatura da campeggio e poi via, verso una sistemazione in tenda ed un lavoro ipotetico come raccoglitore di fragole. Era poco, ma era tutto quello che sapevo. Giunto all’aeroporto mi ha accolto un cielo rosa fuoco ed un sole coperto da nubi vaporose e leggere. Mai visto nulla di simile. Recuperato il bagaglio, ho chiamato tutti gli alberghi reperiti su una brochure trovata all’aeroporto. Niente. Poi l’ultimo numero ha dato tanto. Si, c’era un posto, ma ero fortunato. Tutto era pieno. Perché? Bushfires. Incendi. Il caldo aveva generato autocombustioni nei bush, i quali si erano propagati per chilometri tutto intorno alla città. Centinaia di sfollati con le case a rischio. Ostelli e alberghi tutti pieni. Ho avuto fortuna, ma ho poi pagato nei giorni seguenti. Reperita l’attrezzatura per la farm, la domenica ho preso il bus per Huonville. Non ero teso come quando ero sul treno per Bourke. Inspiegabilmente mi sentivo fiducioso. Eravamo i quattro e non più in due, e si sa, l’unione fa la forza. Pensavo che sarebbe andato tutto bene, che avremmo trovato un bel pratino dove piantare la tenda e che il lunedì avremmo iniziato a raccogliere fragole. Pura essenza di ottimismo. Arrivati alla stazione di Huonville abbiamo preso un taxi fino al Little Devil Backpackers. E qui, tutto e cambiato. La tassista, era una donna, prima di arrivare, ci aveva detto che il posto era scadente e che spesso il lavoro non c’era, ma noi insistemmo per andare. Avevamo pagato ed al telefono ci avevano assicurato un lavoro. Arrivati nel parcheggio e scesi dal taxi sembrava di essere in un altro universo. L’ostello era un insieme di baracche piene di gente e il pratino da me immaginato era in realtà una distesa di terra secca e sassi invasa da decine di tende montate alla rinfusa l’una sull’altra tende. Non c’era spazio nemmeno per una bicicletta. Sembrava una baraccopoli da terzo mondo e per nulla un ostello australiano. Il piccolo diavolo. Avevamo tutti già pagato per una settimana, 110 dollari a testa prelevati dalla nostra carta di credito al telefono. Nel resto dell’Australia un posto tenda costa dai 20 ai 40 dollari la settimana. Li costava 110, si dovevano aggiungere 7 dollari al giorno per il trasporto al lavoro e la doccia costava un dollaro. Dove diavolo eravamo capitati? Già scoraggiati per l’accoglienza, abbiamo chiesto ad alcuni ospiti dell’ostello quanto venissero pagati per le fragole per le fragole. 30 o 40 dollari al giorno. Nemmeno gli schiavi nell’800 prendevano cosi poco. Ci avevano fregati. Quello che inspiegabilmente andava bene per almeno duecento persone, non era assolutamente sufficiente a vivere. Non c’era nemmeno il padrone dell’ostello. Avevamo ricevuto istruzioni di arrangiarci. Quello che invece avevamo ottenuto era un giro a vuoto in Tasmania, soldi persi, nessuno spazio per dormire, nessuno a cui chiedere chiarimenti, nessun lavoro o un lavoro infattibile. Un cul de sac. Due italiani ci hanno attaccato bottone e ci hanno detto di scappare via subito. Quello era il posto peggiore del mondo. Sylvie mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “E adesso che cazzo facciamo?”. Già che si poteva fare? La tassista ci aveva accennato ad una sistemazione alternativa e quindi decidemmo di chiamarla. Al telefono rispose che sarebbe stata lì in venti minuti e che ci avrebbe potuto dare una casa ed un’auto per girare tra le farm e chiedere lavoro. Tutto sistemato. Abbiamo raccontato agli italiani dell’ostello la nostra nuova possibilità ed uno di essi ci ha detto la cosa più saggia del mondo: “L’Australia dà, l’Australia prende!”. All’arrivo della tassista ricarichiamo la macchina, montiamo e le diciamo di portarci dove vuole. Lei però si rimangia la parola. La casa non era disponibile prima di due settimane e così la macchina. La fiera di Cygnet aveva prosciugato tutti i posti disponibili. Eravamo di nuovo fregati. L’Australia prende. Dopo un po’ di dialoghi confusi tra tutti noi, sempre la tassista ci dice che ci potremmo fermare lungo la via a chiedere ad una signora che ha un ostello e che trova lavori per i backpackers. L’Australia dà. Il lavoro può esserci, dice la signora, ma il posto per farci dormire è una baracca senza luce né acqua ed abitata da altri quattro francesi. Non avevamo scelta, così abbiamo accettato. La baracca si è rivelata essere decente, a parte per la mancanza dei più comuni servizi e della presenza di decine di esemplari di ragni  dal marchio rosso, ragni ultra temuti da tutti poiché un loro morso può uccidere. L’Australia ha tolto più di quel che a dato. Nel giro di nemmeno un’ora la nostra situazione è mutata innumerevoli volte. Si è stabilizzata su un livello molto basso, un livello paragonabile alle condizioni degli schiavi che coltivavano il cotone. Il lavoro non è duro come a Bourke. Le ciliegie sono molto più facili da raccogliere. Il problema è che veniamo pagati tutti 8 dollari lordi a cesto. Un cesto pesa otto chili quindi la paga si riduce ad un dollaro al chilo. Non solo. I cesti devono contenere solo frutta di prima qualità. Niente ciliegie ammaccate o marce o segnate. Solo frutta perfetta. E’ terribile. C’è gente che raccoglie nove cesti al giorno, quindi vuol dire che non arriva ad 80 dollari al giorno meno le tasse. E’ un lavoro ultra sottopagato. Chi abbiamo incontrato in giro ha detto che la Tasmania è bella da girare ma pessima per lavorare. E’ più povera rispetto al resto dell’Australia, quindi le paghe sono molto più basse mentre gli ostelli spennano chi cerca lavoro per i visti.

Io devo solo resistere per altri 30 giorni in un posto sito tra le colline del ‘800. Non avrei mai e poi mai voluto dirlo ma preferivo Bourke. Incredibile, ma vero. La farm mi sta uccidendo dentro. Qui veramente sono dall’altra parte della tv, sono il paragone per quelli che stanno meglio. Vorrei avere più tempo per cercare condizioni migliori, ma non ne ho. O resisto e mi guadagno il secondo visto oppure mollo e chiudo con l’Australia. Decine di persone mi hanno chiesto com’è l’Australia, se vale la pena venire fin qui. Io credevo di amarla tantissimo, ma in realtà quello che provo per lei va oltre tutto quello che si possa provare, perché quello che sto facendo adesso per restare un altro anno non lo farei per nessun altro motivo al mondo. Per nessuno e per niente. E’ infernale, disumano. Lavori durissimi pagati male e condizioni di vita al limite della sopportazione. Schiavi, siamo tutti schiavi. Immigrati che cercano di non pensare e fare quello che devono per un altro anno di paradiso, per un altro pezzo di cielo che, anche se per ognuno ha un nome di città diverso, per tutti si chiama Australia.

 


Canberra, Melbourne e Strawberry Fields

Melbourne, VIC, 2 gen 2013, ore 21:13, ostello

Sono ormai quasi dieci mesi che sono in Australia. In tutto questo tempo non ho mai incontrato nessuno che mi abbia detto di essere stato a Canberra. Adesso ho capito il motivo.

La capitale dell’Australia è una città progettata appositamente per lo scopo di diventare capitale. I lavori per la sua realizzazione iniziarono nel 1913. Il luogo su cui sorge è stato scelto nel 1908 ed è situato tra Sydney e Melbourne. Il motivo è che quando si stava decidendo se fare diventare capitale Sydney o Melbourne, nessuna delle due voleva cedere: entrambe pretendevano il titolo di capitale. Per terminare la contesa, si è quindi deciso di costruire la capitale tra le due pretendenti. E’ una storia che fa sorridere, ma il risultato di questa faida ha dato alla luce una delle città più vuote e desolate che abbia mai visto. Canberra, sulla carta, ha molti pregi. E’ una città costruita sulle sponde del lago Burley Griffin, un bacino artificiale appositamente creato, ed è immersa nel verde. Ci sono talmente tanti parchi che a volte la città quasi scompare. La zona parlamentare, il centro governativo vero e proprio dell’Australia, è composta da edifici imponenti circondati da ettari di alberi e parchi e affacciati sulle rive del lago. Scritta è molto più bella di quanto non risulti in realtà. E’ troppo dispersiva e le vacanze natalizie non aiutano assolutamente a creare intimità con gli autoctoni. I visitatori sono pochissimi e gli abitanti ed i politici, che la abitano durante l’anno, in questo periodo sono quasi tutti al mare o in viaggio. E’ come se in Italia fosse ferragosto: tutto chiuso, nessuno in giro e morale a terra per chi deve restare in città.

Melbourne invece è fatta di tutta un’altra pasta. L’impronta urbana è la stessa di Brisbane: una grande città situata lungo un fiume che la taglia in due. In principio non vedevo tante differenze se non nelle dimensioni, ma poi, girando, le differenze ci sono eccome. Pensavo che Sydney fosse clamorosamente la città più bella d’Australia. L’Opera House e l’Harbour Bridge difficilmente possono competere con qualunque altra struttura, credevo. Invece Melbourne compete eccome. Difficile per me poter dichiarare la vincitrice. Quest’ultima è molto più varia, ha più sfumature di Sydney. Il suo waterfront non compete con quello di Sydney, nemmeno ci prova, e questo suo non provarci e il suo sviluppo differente rende la zona portuale bella e vera. Gli edifici del centro e dei Docks sono all’avanguardia sia come architettura che come servizi, mentre dietro ad ogni angolo spuntano strane strutture, non convenzionali. Bolle verdi, piramidi sulle pareti, ancore sospese, non c’è limite alla fantasia. Spesso ho sentito dire che Melbourne sia la città più bella d’Australia. Appena arrivato una ragazza al bancone di un bar mi ha chiesto se era la prima volta a Melbourne. Gli ho risposto di sì. “Melbourne is the best city in Australia!”. Difficile decidersi. Certo è la più varia, la più europea, la più raffinata. Caffè, negozi di design, boutique di stilisti e murales sono gli ingredienti principali del quartiere Fitzroy, forse uno dei luoghi più belli della città. Qui si possono incontrare alternativi all’ultima moda e cinquantenni scalzi e coi pantaloni sdruciti fermi alla stessa fermata del tram. Il tram. Anche questo mi piace tantissimo. E’ il mezzo perfetto per questa città. Gira come una metropolitana ma è più caratteristico, più eccentrico. No questa città merita assolutamente una visita. Qui ho trovato la lavanderia più strana che abbia mai visto ed un negozio che vendeva solo macchine fotografiche Polaroid originali. Spero di ritornarci assolutamente.

Spero di ritornarci il 28 febbraio, di ritorno dalla Tasmania, dove spero di aver finalmente finito i miei 88 giorni di lavoro per il visto. Oggi ho trovato un lavoro: raccoglitore di fragole a Huonville. Fragole. Non ciliegie, o mele, o uva. No, fragole. Forse addirittura peggio dei meloni. Il lavoro dovrebbe iniziare lunedì e l’alloggio l’ho trovato in un ostello che ha tutte le camere occupate ma che fornisce un posto in tenda per 110 dollari la settimana più 7 dollari al giorno per il trasporto alla farm. E’ una rapina. Se penso che dopo aver raccolto fragole tutto il giorno devo anche dormire in tenda quasi rimpiango il mio treno abbandonato a Bourke, ma non ho trovato di meglio. Ho chiamato mille ostelli e mille farm e nessuno aveva posto o lavoro. Il 28 febbraio mi scade il visto e a me mancano 40 giorni circa. Non posso aspettare, quindi vado e spero che sia meglio di quanto pensi. Mentre lasciavo Bourke ricordo che pensavo al fatto che qualunque altra farm avessi trovato in futuro non sarebbe mai stata peggio di quella che stavo lasciando. Spero di non aver parlato troppo presto. Spero che non mi manchi Bourke.


Addio Bourke

Darling Farm, Bourke, NSW, 23 dic 2012, ore 14:10, giorni visto circa 60/88

Non sono più un dipendente della Darling Farm. Tante cose sono capitate tra ora e l’ultima volta che ho scritto qui sopra. Avrei potuto scrivere di più, ma ero sempre o troppo stanco o troppo affaticato o troppo poco felice per farlo. Quindi riassumiamo.

Il 12 dicembre Sal è partito. Partito, andato via, visto scaduto, ritorno a casa, non so. Lui non mi è venuto a salutare ed io non gli ho augurato buon viaggio. Per tutti coloro che credono nel Karma posso dire che mi è giunta voce che mentre si recava a Sydney, abbia investito un grosso animale ed abbia disfatto la macchina. Solo voci, nulla di certo.

Dal 12 dicembre a ieri le cose sono andate meglio, soprattutto nei rapporti umani. Coi coreani c’era più complicità, qualche discorso, rapporti più normali. Durante la raccolta si sono susseguiti un buon numero di ragazzi di Bourke tra le nostre fila. Alcuni duravano qualche giorno, altri solo un paio d’ore. E’ un lavoro troppo duro per quelli di Bourke, per gli umani normali. I coreani sono invincibili, gli australiani sono pigri e non hanno la loro resistenza. Io credo di stare nel mezzo. Il mio rendimento lavorativo è stato sempre al di sotto di quello dei miei colleghi dagli occhi a mandorla. Non ho mai fatto tanta fatica in vita mia. La schiena sempre a pezzi, le gambe con la carne greve, le vesciche sulle mani e le dita che non facevano più forza. E’ stato terribile lavorare col caldo, con la polvere, con dei padroni che badavano soltanto a non lasciare indietro nemmeno un melone e chi se ne importa se fanno quaranta gradi e la gente sta male. Però non ho mai mollato. Non ho alzato bandiera bianca, non mi sono arreso, non me ne sono andato, e di questo vado molto fiero.

Credevo insomma che stesse andando tutto bene. Eravamo quasi alla fine della raccolta. Vedevo la luce. Dopo sarebbe stato solo un gennaio speso a seminare, seduti dietro al trattore, all’ombra. Una passeggiata rispetto al mese passato a raccogliere. Sarebbero bastati altri trenta giorni ed io avrei finito la farm. Ho aspettato quel giorno dalla prima ora in cui sono arrivato qui. Sarebbe stato il giorno più bello della mia vita e non per modo di dire. Sarebbe stato il giorno in cui avrei buttato tutto, i vestiti logori, le padelle, le scarpe, tutto. Sarebbe stato il giorno in cui avrei aspettato che Judy mi venisse a prendere per portarmi alla stazione dei bus. Avrei lasciato Bourke e la farm per sempre. Via, verso altre città, verso l’ultimo viaggio australiano, verso il ritorno a casa. Sarebbe stato un giorno atteso per 2160 ore: il giorno più bello della mia vita. Invece gli eventi me lo hanno portato via per sempre.

Negli ultimi giorni i rumors tra di noi per chi sarebbe rimasto erano insistenti e vari. Nessuno tra i coreani sapeva se sarebbe rimasto. Io avevo chiesto a Judy più e più volte se era sicuro che io e Sylvie saremmo potuti restare. La risposta era sempre: “Sicuro!”. Mi sentivo blindato, tranquillo. Avrei seminato e poi me ne sarei andato con i miei 88 giorni per il secondo visto spalmati nero su bianco su tutte le payslip. Sarei stato in una botte di ferro. Poi la doccia fredda.

Ieri, poco prima della fine della giornata lavorativa, Judy si è assentata per un po’. Al suo ritorno avevamo finito di raccogliere il campo numero 6; otto corse e cinquanta bins di meloni raccolti in tre ore. Lei ci ha raggruppato tutti e ha detto: “Ero da Andrew. Mi ha detto che lunedì è l’ultimo giorno di lavoro per tutti. Non vuole più nessuno”, poi è salita e ci ha portati a casa. Avevo pensato a questa possibilità. Pensavo che sarebbe potuto succedere, che il capo avrebbe potuto mandarmi via all’ultimo per non rischiare di perdere i lavoratori fino alla fine della raccolta. Pensavo: se mi succede, allora mi incazzo di brutto. Invece no, non è successo. Curiosamente, alla notizia, ero felice. Sì, non avevo finito la farm ed ero in mezzo alla strada in periodo natalizio: ma non mi è importato. E’ l’Australia, la terra delle infinite possibilità. Oggi va tutto bene e domani è un disastro. Però ci si può sempre rialzare. Ormai ho capito che fare piani è inutile ed impossibile. L’Australia ti frega, ti sorprende, ti ammutolisce e poi ti lascia a bocca aperta, però mai ti trascura. E questa è una gran cosa.

Pensavo che dare la notizia a Sylvie fosse dura. Pensavo che reagisse male. Dopo averglielo comunicato, al contrario, un sorrisone immenso le ha illuminato il viso. Non ho mai visto nessuno così felice. Basta caldo soffocante, basta fare bisogni nel secchio, basta vita da reclusi. Non più topi che girano per casa di giorno e di notte, non più ragni giganti e serpenti in agguato. Fine della dieta a base di riso e noodles, fine della sofferenza lavorativa, fine di tutto: lascio Bourke per sempre.

Domani alle nove un bus mi porterà a Sydney, dove trascorrerò il Natale in spiaggia a Bondi. Quello che doveva essere il peggior Natale della mia vita potrebbe rivelarsi invece essere uno dei migliori. Non ho mai festeggiato il Natale con trenta gradi, in spiaggia, col berretto natalizio ed il costume da bagno. Sarà bello, di sicuro meglio che passarlo chiusi in questo vagone abbandonato. Dopo Natale andremo a Melbourne passando per Canberra. L’ultimo dell’anno lo passeremo nella capitale del Victoria e dopo cercheremo un farm per gli ultimi quaranta giorni di farm. Domani non sarà il giorno più bello della mia vita, ma certo è in top tre.

Come disse Henry Lawson, “Se conosci Bourke conosci l’Australia”, e se ho conosciuto bene Bourke posso dire che l’Australia, quella vera, è quella dove per andare a fare la spesa grossa prendi la macchina e ti fai seicento chilometri fino a Dubbo, oppure ne fai trecento fino a Cobart per andare dal dentista. È quella che non ha strade asfaltate e che quando non piove da tanto ogni mezzo che passa solleva una tempesta di sabbia visibile per miglia. È la terra rossa che brucia sotto al sole o quella polvere rossa di quella stessa terra che ti ricopre e si infila ovunque. È il caldo soffocante alle sei del mattino. E’ la campagna che al mattino ti regala i canguri e la sera gli emu. Sono le case con la cisterna di acqua in giardino per i giorni di siccità. È il paese con un bar, un ristorante ed un circolo del bowling e basta. L’Australia vera è tutta qui. Il resto è America importata.

Addio Bourke, non credo che ci rivedremo. Ti ricorderò bene, nonostante tutto. Sei stata una maestra severa, ma comunque hai tenuto una straordinaria lezione.


Il male trionfa

Darling Farm, Bourke, NSW, 10 dic 2012, ore 18:59

Vorrei poter dire che tutta la faccenda si è risolta per il meglio, ma purtroppo non è così. Anzi, rispetto a ieri sono in una situazione molto peggiore.

Oggi abbiamo iniziato a raccogliere all’alba, come sempre. Finiti i primi due campi ci hanno diviso in due squadre, una per i meloni ed una per i cocomeri. Io ero in quella dei meloni. Judy era in quella dei cocomeri. Sal era in quella dei meloni. Al termine della prima fila Sal non mi aveva ancora detto nulla. Pensavo che le cose stessero andando bene. Poi è arrivato Andrew, il capo. Sal ha parlato con lui ed Andrew mi ha chiamato. Non ci siamo, non va, tutti si lamentano. Me lo aspettavo, era troppo bello sperare di essere lasciato in pace, però questa volta mi sono innervosito. Ho detto a Andrew quello che pensavo, che Sal ce l’aveva con me, che non era vero che non lavoravo. Andrew, dopo avermi detto che anche Judy si era lamentata, la stessa Judy che mi aveva detto di non preoccuparmi, ha tagliato corto: non mi interessa. Le lamentele devono finire. Lì mi si è chiusa la vena in testa, sono andato da Sal e gli ho detto chiaro e tondo quello che pensavo. Poi Andrew mi ha richiamato, mi ha detto che non potevo permettermi di rispondere a Sal e che alla prossima ero fuori. Fuori. Avrei voluto schiaffeggiarlo. Forte. Poi ho pensato che una denuncia per aggressione non avrebbe figurato bene sulla mia richiesta per il secondo visto. Ho annuito, sono tornato in fila e ho ripreso a lavorare. Ho mandato giù. Anche se non aveva affatto un buon sapore, non potevo fare altro. Il male ha trionfato. Domani a Sal basterà dire solo una parola ed io sarò fuori. Avrò chiuso con Bourke, coi meloni, con questa farm e con i giorni per il visto. Dire che mi tiene per le palle è un eufemismo.

Dopo undici ore sui campi ho riflettuto un sacco. E’ che non so più di chi fidarmi. Judy è con me o contro di me? Il punto principale, tuttavia, è un altro. Oltre alla fatica, al caldo, al dolore, ora mi ritrovo a subire una pressione psicologica che scalza tutto il resto. Già è dura di suo, ma questo terrore, questo dover essere perfetti in una squadra in cui nessuno lo è, in cui nessuno parla con me, in cui nessuno vuole lavorare con me, è peggio di ogni mia più cupa aspettativa. L’ostracismo. Mi ritrovo quasi a sperare di essere licenziato. Potrei andarmene, ma Sylvie ha un ottimo posto all’interno della fabbrica e io devo pensare anche a lei. Inoltre non voglio dare loro la soddisfazione di togliersi il pensiero. No, no, se vogliono cacciarmi allora dovranno dirmelo guardandomi in faccia. E se succederà allora mi toglierò tutti i sassolini che ho accumulato nelle mie scarpe lacere, dirò quello che avrò da dire, farò lo zaino e via verso altri orizzonti. Il visto è un problema. Ad essere fiscali coi giorni, me ne mancano ancora una buona cinquantina. Contando che siamo sotto Natale e tutto il resto, direi che ad essere fortunati potrei riprendere a lavorare ai primi di gennaio e allora non ci sarebbero più margini di errore. O si lavora fino alla fine di febbraio senza interruzioni, oppure significherebbe essere fuori per sempre dall’Australia.

Non so che accadrà. Quello che so è che il pensiero di dover tornare laggiù domani mi sconvolge. Se chiudo gli occhi vedo solo una fila interminabile di meloni da raccogliere ed un coreano malvagio che mi tallona. Non si può andare avanti così. Non è quasi più vita.


Siamo uomini o caporali?

Darling Farm, Bourke, NSW, 8 dic 2012, ore 13:14

“L’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali.
La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza.
Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare per tutta la vita, come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama.
I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque.
Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengono, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!”

Totò, Siamo Uomini o Caporali, 1955

Uomini o caporali? Bè certamente io, qui, sono un uomo. Uno dei più abietti, mi sento di aggiungere. Da qualche giorno le cose non vanno per il meglio. C’è un caporale che mi perseguita. Il suo nome è Sal, o qualcosa del genere. Sal è un coreano che per ragioni a me ignote ha raggiunto un gradino più alto degli altri. Il suo compito è quello di seguire chi raccoglie ed assicurarsi che non vengano lasciati sul campo meloni maturi. Ce ne sono altri come lui, sul campo, ma lui ha una caratteristica tutta particolare: ce l’ha con me. Non ho idea del motivo, non so cosa gli ho fatto, tanto più che non ci siamo quasi mai nemmeno parlati, però mi odia. Il suo divertimento maggiore è riprendermi per qualunque cosa. Hai lasciato un melone! Stai più vicino al nastro! Più in fretta! Così tutto il giorno. Ora, già questo è un lavoro che a mio parere dovrebbe essere proibito dalla Commissione per i diritti umani, se poi si aggiunge anche il fattore Sal, allora diventa un campo di concentramento. Dall’esterno è difficile rendersi conto di cosa significhi esattamente. Il punto è che tutti i raccoglitori lasciano indietro dei meloni. Non è una scienza esatta. A volte il melone è ancora verde, oppure fatica a staccarsi dalla pianta. Capita anche che semplicemente non lo si scorga tra il fogliame. Dopo tre o quattro ore chini a guardare in terra, un po’ si perde lucidità. Questo per dire che ad essere pignoli tutti sarebbero possibili oggetti di rimprovero. Perché solo a me? La cosa che veramente mi fa ribollire il sangue è che Sal a volte mi dice di guardare come si fa e poi si mette a raccogliere al posto mio. La cosa divertente è che lui lascia indietro un sacco di meloni, quanto me o più, e quando io li raccolgo e glielo faccio notare, lui non ci bada. Si limita a cedermi di nuovo il posto e a torturarmi per le ore successive. Ieri la cosa ha raggiunto un livello superiore. Ieri ha fatto rapporto a  Pete. Pete è quindi venuto da me, mi ha preso da parte e mi ha detto che c’era stata una lamentela nei miei confronti e che questa cosa non poteva andare bene. E’ stata una brutta cosa per me. Non sapevo cosa dire. Ero stupefatto e arrabbiato. Sconfitto. Potevo spiegargli? Potevo fargli capire che non era vero? Che la qualità del mio lavoro non differiva da quella degli altri? Se sì, come? Pete ed Andrew, il capo, stanno sui campi non più di quindici minuti al giorno. Arrivano, fanno un po’ i boss e poi se ne vanno. Va detto che i coreani sono tosti. Loro sono macchine. Letteralmente macchine. Non si fermano mai, non sono mai stanchi, non parlano. Sono scimmie che si lanciano a terra appena vedono un melone che sembra maturo. Non ho mai visto una cosa del genere in vita mia. Ero preoccupato. C’era il rischio di perdere il posto ed io non potevo permettermelo. Sylvie lavora alla fabbrica di impacchettamento e per lei è una gran fortuna. Non potevo perdere il lavoro. Ne ho parlato con Judy. La mattina, quando mi viene a prendere, abbiamo sempre un po’ di tempo prima di arrivare ai campi, quindi oggi le ho chiesto come stavano le cose. Lei mi ha detto tre cose: che Sal è lì solo perché sta simpatico ad Andrew, che Pete si è messo in testa di diventare “The man” ma  in realtà spesso non sa di cosa sta parlando e che io non ho nulla da temere. E’ stato come quando nei cartoni animati arriva la fata buona e la sua aura si spande per lo schermo della tv. Un’aura di giustizia, bontà, umanità. Judy è un capo ma non è un caporale. Fino ad ora ha dimostrato di possedere tutte le doti del vero leader. Non si arrabbia se non è necessario, chiede sempre di fare le cose e non sbraita ordini, lavora con noi ma soprattutto, cosa per me fondamentale, è equa. Un peso, una misura. Le sue parole e la sua presenza, per me, sono come una grande iniezione di serenità. E’ un lavoro disumano, ma con lei al mio fianco è almeno possibile.

Probabilmente se si andasse a frugare in qualche soffitta americana, si troverebbero decine di diari di immigrati come me fitti di parole simili alle mie. L’immigrato è sempre l’ultima ruota del carro. Io, poi, sono l’ultima ruota tra le ultime ruote. Non sono né australiano né coreano. Sono in clamorosa minoranza e questo fattore è un ulteriore problema. Però non ho mai fatto nulla di male. Ho sempre cercato di dare il massimo, di fare il mio lavoro e di arrivare a fine giornata. Un giorno dopo l’altro. Sono sicuro di non meritare un trattamento del genere. Per me i rapporti umani sono sempre stati fondamentali. Non importa quale sia il lavoro e quanto duro si presenti: se c’è umanità si può fare tutto. Senza non si va da nessuna parte. Totò ha scritto quelle parole nel 1955 e il mondo non è cambiato granché, almeno tra le fila degli immigrati. C’è sempre chi calpesta i sottoposti senza ragione o per proprio piacere personale. Come dice Totò, almeno, per fortuna i caporali sono la minoranza.

Qui Bourke, non troppo bene, ma si va avanti.


L’inferno è per gli eroi

Darling Farm, Bourke, NSW, 26 nov 2012, ore 12:33, giorno visto irrilevante

Qui Bourke, si va avanti ma le cose potrebbero andare meglio. Chiuso il capitolo potatura, oggi è iniziata la fase della raccolta. Prima il corn, il mais. Diciotto persone per raccogliere pochi filari. Si raccoglie a mano, i chicchi appena tinti di giallo. Un trattore con un nastro trasportatore sta davanti a noi che raccogliamo pannocchia per pannocchia. Tutto bello se non fosse per il caldo. Alle 5:30 il termometro segnava 25 gradi. Il sole non era nemmeno spuntato e già l’aria era calda e secca. Alle 10:30 i gradi sono diventati 35. Per raccogliere, oltre alla tuta e alla felpa, indosso anche la sciarpa adesso. Il sudore sul collo si impasta con la polvere e i pollini e irrita tutto. Senza è un suicidio, meglio il caldo. Col sopravanzare della calura il ritmo si è abbassato, la raccolta rallentava e tra i filari di granoturco la temperatura era, se possibile, anche più alta. Non un filo di vento e quel poco che spirava era bloccato dal muro di piante. Sylvie è svenuta. Stava bene, poi il cuore ha accelerato, poi tutto nero. E’ stramazzata ma si è ripresa in fretta. Alle undici nemmeno il supervisor ci ha fermati. Troppo caldo, se continuate domani la metà di voi sarà ammalata. Visi stremati, rossi per il caldo e la fatica, odore di sudore misto a polvere rossa, polline e moccio. Non ho mai fatto una cosa così in vita mia. Ma non vi preoccupate, aggiungono i veterani delle raccolte, i veri cittadini di Bourke, siamo ancora in primavera. I 50 gradi preannunciati un po’ da tutti per dicembre, adesso mi fanno più paura. Il problema vero è un altro. I meloni ed i cocomeri non possono restare sotto al sole. Quando sono maturi vanno raccolti. Qualunque cosa accada. Se rimangono sul campo il sole li brucia e se viene a piovere tutto è da buttare. No, vanno raccolti tutti al momento giusto. Caldo, sole, svenimenti, non c’è scusa. Anche se ci fosse da lavorare fino a sera sotto al solleone. Quando si torna nel vagone, dopo che la giornata è finita e si fa la doccia, una volta asciugati sembra di avere la febbre. E’ come se il corpo espellesse tutto il calore accumulato. La pelle è rovente e le membra sfinite. Più passa il tempo e meno capisco come si possa pensare di farlo tutta la vita. Judy, la mia cara Judy, il supervisor migliore del mondo, è il mio eroe. Ha 62 anni e non batte ciglio. Dice sempre che ha caldo, ma beve pochissimo e non si ferma mai. Altra stoffa, altre abitudini. Io non sono paragonabile. Io spero solo che tutto finisca il più presto possibile.

 


Prosciutto crudo

Darling Farm, Bourke, NSW, 7 nov 2012, ore 14:46, giorno visto 17/88

Qui Bourke, tutto bene, si va avanti. L’avvenimento che mi ha spinto a battere sui tasti è proprio il prosciutto. Proprio ora, mentre sto scrivendo, sto gustando un toast al prosciutto crudo. La sensazione è indescrivibile. Il prosciutto crudo, quello vero, quello rosso, tagliato a macchina, un taglio fine, con una striscia sottile di dolcissimo grasso. Un pezzo di casa piovuto dal cielo, o meglio, piovuto da Dan. Il signor Dan è lo zio di Andrew, il ragazzo (non ha nemmeno trent’anni) che mi paga per vivere qui e strappare a mano rami secchi dagli alberi di mandarini. Questo signore è molto simpatico e durante le pause del mattino e del pranzo mi chiede sempre cose sull’Italia. Quando non cerco di spiegargli il motivo per cui Berlusconi non va effettivamente in carcere, generalmente parliamo di cibo. Qualche giorno fa abbiamo parlato a lungo del maiale. Quando mio nonno lo macellava, dopo qualche mese casa mia era invasa da ogni tipo di salume e di tagli di carne. Quando il tempo era passato a sufficienza arrivava anche il crudo. Ci voleva di più, ma l’attesa valeva il premio. Pochi giorni fa Dan ha macellato un maiale e tutto quello che ne è uscito sono state bistecche. Niente affettati o salumi: bistecche. Non mangiano nemmeno lo zampone ed il cotechino. Gli ho spiegato che in Italia questa cosa non esiste. Abbiamo un detto: del maiale non si butta via niente. Lui deve esserne rimasto molto colpito, soprattutto del fatto che la coscia del maiale da noi diventa prosciutto crudo. Quel velo di mistero che cela al profano il  processo per la stagionatura della carne. Bè Dan è andato a Dubbo, una città città a 370 chilometri da Bourke, ed ha chiesto se ne poteva averne un po’. Non so bene con chi abbia parlato o dove sia andato. Io a Perth lo trovavo solo in un negozio di emigranti italiani. L’ha trovato. Poi ce l’ha portato. 12 dollari per due etti di crudo. Quando me lo ha consegnato il pacco era ancora chiuso. Non credo l’abbia assaggiato. Credo che l’abbia fatto solo per portarci davvero un piccolo pezzo di casa. Non ha voluto nemmeno un dollaro. Io e Sylvie ci siamo rimasti di sasso. Non ce lo aspettavamo proprio. Stavamo mangiando quando Dan è arrivato e ci ha chiamati a sé con un segno del dito. Questo è per voi, a piece of home. Meraviglioso. Viene voglia di sdebitarsi, ma come si fa? E’ stato un gesto bellissimo. Appena rientrati nel container io e Sylvie ce lo siamo litigati ma siamo riusciti a salvarne almeno la metà per domani. Mi mancava il crudo e ora, grazie alla generosità di Dan, casa è un po’ meno lontana e Bourke è un po’ più vicina.


Qui Bourke, tutto bene, si va avanti

Darling Farm, Bourke, NSW, 3 nov 2012, ore 18:12, giorni visto 13/88

Qui Bourke, tutto bene, si va avanti. Sono già tredici giorni di vita nei campi, tredici giorni di visto in meno da reggere. Non posso certo dire che mi piaccia, ma almeno gli stati di disperazione dei primi giorni sono lontani. Più passa il tempo in questa valle di meloni e più mi abituo, conosco, mi tempro. Giusto le storie sui serpenti turbano un poco i miei sonni e le mie docce. Storie di backpacker del passato, che nessuno ha conosciuto, i quali hanno trovato serpenti ovunque, dai letti alle docce a qualsivoglia altro posto. Uno è stato anche morso, ma si è salvato, si narra. Non do tanto peso a queste chiacchiere, ma da qualche tempo ho preso a portare con me la scopa dentro alla doccia. Così, per essere sicuro, per avere un’arma di sorta. Non credo di riuscire ad ucciderne uno, e nemmeno vorrei provarci, ma dicono che se un serpente ti morde è meglio ucciderlo e portarlo al medico che ti deve salvare la vita. E’ la maniera più sicura per non sbagliare antidoto. A casa stavo in doccia delle ore. Qui faccio molto prima.

E’ anche arrivato già il primo stipendio. 830 dollari per 67 ore di lavoro meno 500 dollari tra affitto e caparra. Non male, anche se prendevo meglio a Perth. Tuttavia non mi lamento; vado avanti e vivo giorno dopo giorno. 79 all’alba. 78. 77. I lavori da eseguire procedono e variano. Si zappa, si pota, si tolgono i rami secchi con le mani. Li odio tutti, ma tanto è uguale. Alle due e mezza si finisce e domani è un altro giorno. La mattina è però il momento peggiore della giornata. Devi iniziare, è freddo e buio. Prima si iniziava alle sei e mezza, ora alle sei. E’ indispensabile, perché come fa tanto freddo la notte, fa tanto caldo di giorno. A mezzogiorno, di solito, la temperatura va dai 30 ai 40 gradi. Poca aria e comunque quella poca che soffia non riesce a penetrare i filari di mandarini. E’ un forno a cielo aperto, e più si va avanti più farà caldo. Dicono che in piena estate, tra dicembre e gennaio, si arrivi tranquillamente a 50 gradi. Tranquillamente. Quindi iniziare prima è una gran bella cosa. Ho anche qualche notizia in più sul mio futuro. Per le prossime due o tre settimane si poterà e poi si inizierà a raccogliere i meloni. Ogni volta che si tira fuori questo argomento la gente abbassa lo sguardo. Chi l’ha fatto, racconta che sia davvero una gran fatica. Le ragazze, tra cui Sylvie, verranno messe nel capannone dove si impacchetta la frutta ed i ragazzi, tra cui me, raccoglieranno i meloni. Un altro modo per dirlo sarebbe che le ragazze stanno al fresco ed i ragazzi sotto al sole. Un altro modo ancora sarebbe che le ragazze se la spassano e i ragazzi si spaccano. E stessa paga. E’ discriminazione. Bella e buona discriminazione di una volta. Le ragazze agli affari da ragazze e gli uomini a lavorare duro. Però qui non ho visto femministe. Sarà un caso ma negli ultimi cento anni nessuno si è mai lamentato, ho chiesto in giro. Non si è mai vista una ragazza saltare su e dire: “Cosa? Che storia è questa? Noi in un capannone all’ombra e gli uomini sotto al sole a schiene piegate? E’ inaccettabile. Noi non siamo diverse da loro. Sapete una cosa? Mandate gli uomini ad impacchettare che noi andremo a raccogliere con 50 gradi”. Nessuna protesta, meno che meno ragazze a seni nudi che sbraitano con cartelli recriminanti il diritto di raccogliere i meloni. Non si è mai visto, qui, a Bourke, Australia.


Venti, serpenti e tramonti

Darling Farm, Bourke, NSW, 26 ott 2012, ore 20:27, giorno visto 5/88

Bourke ha due venti, o almeno così pare a me, uno buono ed uno cattivo. Quello buono spira da est, dal mare. Passa da Sydney, spazza Bondi Beach e arriva fino a quaggiù a mitigare le sofferenze dei lavoratori. La sua brezza fresca e pura sfiora dolcemente le schiene sudate e i visi impolverati e porta benessere. E’ una delle godurie maggiori che offrono i campi in questa stagione. L’altro, il cattivo, viene dall’outback. Soffia dall’ovest e la frescura di Perth si secca e scompare attraverso il deserto. E’ un’aria che toglie il respiro e secca la gola. E’ una delle torture che offrono i campi in questa stagione. O tutto l’anno, chissà. Questi due venti sono le uniche fonti d’aria che spargono la polvere che alza la mia zappa. Quando va bene. Ieri abbiamo potato. Ad un primo impatto, la mattina presto, era anche piacevole tagliare i rami con le cesoie. Un poco di ombra offerta dagli alberi, la schiena dritta, un albero dopo l’altro. Alle undici e mezza il termometro segnava quaranta gradi e tutta l’aria del mondo non riusciva a penetrare la spessa coltre di alberi. Tutti in fila e compatti formavano una barriera impenetrabile a qualunque vento. E’ stato il giorno più lungo di tutti. Non sentivo più le braccia e il sole e la felpa che indossavo rendevano il tutto ancora più insopportabile. Volevo rinunciare, ero ad un passo, ma poi Judy, quella santa donna che amo sempre più, alle due nemmeno è arrivata e ha detto che poteva bastare. Faceva troppo caldo. Un altro giorno era andato. Dopo la doccia pensavo di avere la febbre a quaranta, tanto era il calore che avevo accumulato. Volevo scrivere ma le braccia erano troppo stanche. Potare è certo peggio che zappare. Ho notato una cosa: in campagna qualunque nuovo lavoro è peggio del precedente. Sempre, è una costante. Il problema è che sono tutti noiosi e faticosi. Davvero non riesco a comprendere come possa l’umanità fare affidamento sull’agricoltura. Fosse per me coprirei tutto di cemento e farei parcheggi per supermercati. Per fortuna non decido io.

Oggi la giornata si è aperta con un bel fresco. Era nuvoloso, e zappare i campi non più sotto al sole è tutta un’altra cosa. Ventinove gradi anziché quaranta fanno una bella differenza. Oggi è stato anche il giorno del serpente. Di fronte al mio container c’è un tronco di legno appoggiato sull’erba. Di solito è lì che attendiamo tutti l’arrivo di Judy. Dopo la pausa pranzo mi sono messo lì come al solito a parlare con Sylvie. Poi, con la coda dell’occhio ho visto un movimento. E’ stato strano. Ho guardato in direzione del movimento e ci ho messo almeno cinque secondi a rendermi conto che quello era un serpente. Un lungo serpente marrone. Lo vedevo, era lì di fronte a me, ma il mio cervello l’ha collegato ad un tubo per annaffiare mollato per terra ed impazzito a causa della pressione dell’acqua. Ricordo che il pensiero che mi ronzava per la testa era: “Non può essere un tubo”. Non so perchè abbia pensato a questo, ma quando ho realizzato il pericolo il serpente stava venendo verso di noi. Ho preso Sylvie da una parte, lei non aveva visto nulla. Sono silenziosi i ragazzi. Io non lo perdevo di vista, l’ho seguito finchè la distanza non è aumentata sufficientemente. Judy è scesa dalla macchina e anche Cathy, la vice supervisore. Anche lei è aborigena, e da donna dell’outback è scesa con la zappa in mano. Si è avvicinata ed ha iniziato a guardare a terra. Indicava dei punti dove la sabbia era smossa in un certo modo. Seguiva le tracce del serpente. Le due hanno ricostruito la strada presa dal rettile e hanno concluso che se si era avvicinato tanto era perchè forse cercava dell’acqua. Fine? Tutti a zappare. Così vanno le cose a Bourke. Al ritorno sempre quel serpente, o comunque un suo parente molto simile, strisciava sulla terra rossa che portava ai container. L’abbiamo schiacciato con la macchina ma dopo il nostro passaggio non c’era nessun cadavere. Forse era morto, forse era scappato. Chissà. Fine? Tutti sotto la doccia, la cui porta ha giusto giusto una fessura che sembra studiata apposta per i serpenti. Non è stata la doccia più rilassante dell’ultimo anno.

Non è affatto una vita facile. Tra la fatica e i pericoli ce n’è più che abbastanza per impazzire o scappare ma ci sono anche degli aspetti unici e positivi. Questo è quello che vedevo dalla mia finestra poche ore fa.

Non c’è Photoshop in questa foto. L’ho scattata e postata così com’era, sul mio onore. I tramonti dell’outback valgono quasi la fatica di vivere qui. Non è molto, ma è forse un primo passo per vedere quella bellezza che ad un primo sguardo sembra totalmente assente qui, a Bourke, terra di venti, serpenti e tramonti


L’Australia è una puttana

Darling Farm, Bourke, NSW, 24 ott 2012, ore 20:01, giorno visto 3/88

Chipping. E’ la parola australiana che significa zappare. E’ forse la parola che al momento odio maggiormente. Anche oggi otto ore a zappare sotto al sole. Le mie gambe non rispondono più, la mia schiena è a pezzi e le braccia sempre più pesanti. E rosse. Mentre tagliavo la mia bistecca al burro ho notato che gli avambracci sono quasi ustionati. Li definirei “rosso tramonto australiano”. Oggi stavo scoppiando dal caldo e ho tenuto le maniche della felpa tirate su fino ai gomiti per un paio d’ore nel pomeriggio. Nonostante la mia pelle si sia abbronzata sotto ad uno strato protettivo di crema al cocco durante il mio peregrinare per il Queensland, il sole dell’outback l’ha quasi bruciata. Ci è davvero mancato poco. Domani dovrò stare attento o mettermi la crema, anche se il pastone che deve saltare fuori con la polvere rossa non deve essere piacevole.

Mentre zappavo, sotto al cappello, pensavo a quanto sia puttana questa terra. Non perché offre il suo corpo per soldi, anche se un po’ lo fa, quanto perché le tue volontà qui sembrano contare davvero poco. La farm. A Perth parlavo sempre con Carlo della farm. Le sue intenzioni erano cristalline: era un’esperienza che voleva fare da solo, in un posto sperduto, lontano da tutto e da tutti, a fare un lavoro duro e a cercare di trovare il Nirvana in una specie di ritiro spirituale. Come è andata? Adesso è a Bowen e appena smette di lavorare si sbronza in una casa da urlo, in compagnia di gente sempre diversa, le domeniche al mare e i sabati in disco. Un caso? Sylvie non voleva assolutamente fare la farm. Dov’è ora? A fianco a me nel posto più sperduto e spietato d’Australia, dove l’erba è secca e l’acqua dei billabong è marrone. E io? Io ero indeciso. Avrei voluto una cosa soft, magari un lavoro in città, che so, a Darwin, valido per il visto, circondato da cemento e da vita. Certo non zappare sotto al sole a due passi da quel deserto che inizia al di là del recinto di Darling Farm e finisce quasi alle porte di Perth. Ma l’Australia ha deciso il contrario, tutti i piani sconvolti, tutto diverso. E’ bellissimo, da un lato. Niente certezze sul domani, ogni giorno un’incognita, una sfida, un cambiamento. Qui non si lucidano le maniglie sul Titanic: qui non ci sono maniglie né Titanic. Qui c’è solo una terra che offre l’evoluzione dell’avventura. Cook esplorava mondi inesplorati e lande sconosciute, ma l’avventura dell’Ottocento non tornerà mai più. Oggi si conosce tutto ma qui ancora non si conosce il domani e questa è l’avventura più grande di tutte. E’ l’avventura di oggi. Chilometri, van, esperienze, genti, padroni, mates, donne, giorni, tramonti, lavori, moduli, amici passati e futuri, case e ostelli. Tutto cambia, tutto passa e rimane solo nel cuore. Domani è un altro giorno ed è quasi inutile pensare a dove vorresti essere. Spesso non ci sei ma comunque tutto va per il meglio. Siamo nel migliore dei mondi possibili per davvero e Pangloss non ha mai avuto tanta ragione. Certo, ti capitano anche i giorni in cui ti svegli a Bourke, fuori da tutto e da tutti. Anche questa, però, è l’Australia.


La terra rossa

Darling Farm, Bourke, NSW, 23 ott 2012, giorno visto 2/88

Tra ieri e oggi il mio corpo ha subito uno stress incredibile. Non riesco quasi a muovere le gambe, le braccia sono pesantissime e la schiena mi fa male. Primi due giorni di farm, quella vera. Sveglia alle cinque e mezza, inizio lavoro alle sei e mezza e termine alle tre con mezz’ora di pausa pranzo. Le mie mansioni, fino ad ora, sono state strappare le erbacce a mano e zappare infiniti filari di cocomeri e meloni. E’ il lavoro più duro che abbia mai fatto in vita mia. Già lavorare in campagna è duro di suo, in più bisogna aggiungere all’equazione l’Australia. Il clima è torrido. Fino alle nove si sopporta bene, ma poi il sole si alza e se il vento non è fresco è come zappare in un gigantesco forno a cielo aperto. Mai una nuvola in cielo, il quale è azzurro come nei disegni. Purtroppo per proteggermi dal sole che ustiona sono costretto ad indossare abiti lunghi, quindi lavoro in felpa e tuta. Si possono quindi facilmente immaginare le mie condizioni nel primo pomeriggio. Il periodo di tempo che va dall’una alle tre è infinito. I minuti sembrano ore e la fatica fisica raggiunge il culmine. Lavoro in automatico, uno zombie nei campi coperto di terra rossa. La terra d’Australia è composta da polvere rossa. Questa polvere super fine penetra ovunque. Le scarpe sono rosse, gli abiti rossi, le lacrime e il muco rosso. E’ impossibile fermarla. Anche il pavimento del container ne è cosparso. Nelle foto è bellissima, ma lavorarci in mezzo è un’altra cosa. Però ci sono anche un sacco di aspetti felici. Judy, la supervisore, il mio capo diretto, è la donna più buona che abbia mai incontrato. E’ gentile, ti spiega sempre le cose tante volte e se lavori non al meglio, vinto dalla fatica, non ti rimprovera mai. Credo che sia un’aborigena, ma il colore della sua pelle potrebbe anche derivare dagli anni di lavoro nei campi, quindi non lo so di preciso. Anche negli orari è ultra flessibile. Ieri abbiamo smesso mezz’ora prima e oggi un’ora. Sempre otto ore segnate e via al riposo. Non so se lo faccia perché si rende conto che le nostre condizioni fisiche siano del tutto impreparate o se lo faccia perché anche in campagna la mentalità australiana del lavorare il meno possibile prevale, ma non mi importa. Quando si rientra è sempre una grande gioia, anche se fatico a salire in macchina per via dello stress muscolare. In Italia ho lavorato spesso in campagna, d’estate, a raccogliere la frutta, e non si sono mai sognati di regalarmi ore in questo modo. Mai. Rientrato nel container faccio la doccia e aspetto il giorno dopo cercando di non addormentarmi troppo presto. E’ forse il momento peggiore, dopo che ti sei un poco ripreso. Non si va da nessuna parte, non si parla con nessuno, non c’è nulla da fare se non aspettare. E’ una vita terribile. Non mi spiego come la si possa scegliere deliberatamente. E’ solo il secondo giorno e già non ne posso più. Spero solo che dalla settimana prossima il mio fisico si sia abituato. Mancano 86 giorni e desidero con tutto il cuore che passino in fretta, tipo quel paio d’ore di lavoro all’alba.


La pioggia porta conforto

Darling Farm, Bourke, NSW, 21 ott 2012, ore 15:43, domenica

Oggi va un poco meglio. Il senso di spaesatezza si è un po’ placato. La giornata si è presentata nuvolosa fin dal mattino e per un po’ ha persino piovuto. Poche gocce selvagge. Il fresco non è durato tanto, ma mi sembra che sia tutto lievemente più familiare. La natura non è così violenta, oggi. I rumori misteriosi che provengono la notte dall’esterno del container non ci sono durante il giorno e le nubi, placando il sole, diffondono tutto intorno un che di rassicurante. Anche il vento è più fresco. Non più un perenne asciugacapelli che spira in ogni dove ma una forte brezza carica di una lieve frescura. Nessuno in giro. Niente. Forse mi sto abituando alla situazione o forse oggi è solo una buona giornata, ma non mi pesa più come ieri. Leggo, scrivo, guardo film. Mi tengo impegnato nell’attesa che venga domani. Il mio primo giorno di lavoro nella farm, il giorno 1 su 88. Nelle 48 ore che ho trascorso qui ho sviluppato una serie di piani alternativi. Ad essere sincero non ci tengo poi più di tanto ad avere il secondo visto. Non a questo prezzo. Ora come ora è solo una gara di resistenza ed io, purtroppo, mi sento più favorito sulle brevi distanze. Non sono l’uomo delle maratone nell’outback, ma forse anche questa è solo questione di abitudine. Il mio problema più grande credo che sia il fatto di non riuscire ancora a ridurre tutto ai minimi termini. Sono qui, ho un tetto sulla testa, un letto e un condizionatore. Ho a fianco a me la donna che amo, ho un frigo pieno, un computer ed una connessione funzionante. Sono in un ventre di vacca. E invece penso al fatto che non c’è nulla, che sto sprecando giorni, ore, minuti preziosi della mia vita senza ricavarne nulla. So che non è vero, che quello che c’è qua fuori ha una sua bellezza e che se riuscissi a coglierla allora sarei nuovamente ricco, ma purtroppo non la vedo ancora. L’essenziale è invisibile agli occhi ed io sono cieco. E’ ancora troppo presto. Ho però iniziato ad esplorare i dintorni. Ieri ho camminato lungo la terra battuta che forma quella che possiamo definire la strada per arrivare al capannone dove si impacchetta la frutta. Dopo appena un centinaio di metri ho sentito un rumore nell’erba alta che costeggia la lingua rossa. Un lungo serpente marrone spuntava da un pezzo di terra nudo. Non ho visto la testa, mi sono volto tardi, ma il lungo corpo che precedeva la coda sembrava non finire mai. Non mi ha fatto tanto effetto, eravamo distanti. Anzi, mi ha quasi fatto piacere iniziare a fare la conoscenza delle creature che mi circondano. Sono comunque rientrato nel container perché non ho idea di come comportarmi di fronte ad una situazione del genere. Nessuno mi ha ancora ragguagliato a proposito, ma almeno abbiamo fatto conoscenza. La notte però fa ancora paura. Quei duecento metri che mi separano dal bagno per me sono come duecento chilometri. Troppi rumori, troppa vita sconosciuta, troppo buio. Un muro nero e impenetrabile che apre lo scrigno delle paure arcaiche, le paure provate dall’uomo fin dalla notte dei tempi. Non so cosa cela quell’oscurità, ma per ora non ho voglia di saperlo. Aspetto sempre con ansia il mattino, la luce e, quando si può, le nuvole cariche di pioggia. Domani alle sei e un quarto si va nei campi. Da quanto ho capito si seminano i meloni. Sdraiati tutto il giorno sulla terra rossa a fare buchi con uno stecco e a piantare semini. Sdraiati sulla terra dei serpenti aspettando il mattino dopo.


Il mio lager nell’outback: Darling Farm

Darling Farm, Bourke, 20 ott 2012, ore 15:17

Non so bene da dove partire. So che non mi piace qui, è come stare in un carcere e la cosa più terribile è che non ci sono sbarre o recinzioni o muri: c’è solo il nulla tutto intorno a me. Credo di non essere mai stato così male in vita mia. Mi è capitato di vivere brutte situazioni o di fare lavori terribili, ma questo batte tutto e tutti. Oggi sono andato a fare la spesa in città. Giuro che per quell’ora, circondato da miei simili, mi sono anche sentito bene, pensavo “Dai cazzo, ce la posso fare!”. Poi sono tornato qui, nel mio container, e la fame che avevo al supermercato si è dileguata. Lo stomaco si è chiuso e un macigno si è posato sul mio petto, a volte bloccandomi il respiro. Come farò anche solo a resistere tre settimane? Sono come tre anni o trenta o trecento. E’ un’infinità. L’Australia è anche spietata e Bourke e la Darling Farm sono tra gli aguzzini più feroci. Qui, a qualche baracca di distanza, vivono una giapponese e una coreana. Loro fanno questa vita da diciassette mesi una e da otto l’altra. Per me è come se mi avessero detto che non esiste il sole. E’ impossibile. Come fai a resistere in un posto simile? Come fai ad andare avanti? Credo che ogni viaggio abbia dei momenti cupi. Questo è il più cupo in assoluto. E’ una condizione psicologica che mi fa uscire fuori di testa. Libero, eppure intrappolato nel nulla. C’è gente che riesce, resiste e alla fine si sente invincibile. Io non so se ce la farò. E’ il secondo giorno, non ho nemmeno passato 24 ore quaggiù, e già non so dove sbattere la testa. Ora capisco cosa vuol dire essere irlandese, vivere in buco di merda a fare un lavoro anche peggiore e tornare a casa alla sera e bere per dimenticare dove si è e cosa si deve fare. E’ l’unica via, l’unico stratagemma a buon mercato per non impazzire. Tutto questo per un numero, un codice che mi permetterebbe di restare un altro anno nel Paese dei sogni, nella magica Oz. Ne vale la pena? Una vocina sepolta sotto ad un mare di angoscia urla di sì, ma è talmente lontana e debole che a malapena si sente. O forse è solo il vento, questo vento caldo e secco che spira dall’outback. Spero che col tempo migliori. Spero di riuscire anche solo a sopportare tutto questo. Spero sia così, ma mi sembra impossibile. Quasi quasi mi manca l’Italia. Forza e coraggio.


Quel treno per Bourke

Linea Sydney – Dubbo, NSW, 19 ott 2012, ore 12:39

Così è deciso: Bourke. Questa piccola comunità del Nuovo Galles del Sud è la prima meta scelta per conquistare gli 88 giorni di lavoro nei campi che mi permetteranno di restare un altro anno in Australia. Seduto sul sedile di questo treno penso ad un sacco di cose su questo lavoro e sul mio futuro. Sono così eccitato che non riesco a stare seduto. E’ quell’eccitazione che si prova quando la conclusione del viaggio è incerta, quando si sa dove si vuole arrivare ma non attraverso cosa si deve passare per arrivarci. E’ il momento peggiore: è il dubbio.

“Se si conosce Bourke, si conosce l’Australia”. E’ la frase forse più scritta a Bourke. E’ stata scritta dal famoso poeta australiano Henry Lawson. Questo signore era stato mandato qui nel 1892 dal suo editore per monitorare la vita ai confini dell’outback e anche per disintossicarsi dall’alcol. In questo luogo ha scritto alcuni dei suoi componimenti migliori. E’ un luogo che ispira, dicono. Una di quelle parti del continente in cui l’Australia è ancora vera, autentica. 2000 persone circa, clima semi arido, canguri e uccelli e farm. La farm che ho trovato coltiva limoni, arance e meloni. Sono tre settimane di lavoro che si potrebbero estendere fino a Natale, dipende da me e da loro. Dipende da Bourke. Un’ altro detto che laggiù va alla grande è Back’o Bourke ed è significativo che si pensi a Bourke come punto di ritorno dal nulla.

Non so davvero cosa mi devo aspettare. Il lavoro è sicuramente molto duro, anche il proprietario me l’ha detto. Via via che il treno si allontana da Sydney, gli alberi si diradano, l’erba si fa meno verde e spuntano pecore, vacche e canguri. Il paesaggio è splendido, come sempre, ma ora mi concentro sul fatto che non sarà solo un’immagine che scorre dal finestrino: sarà la mia casa per un po’. Il dovere prima del piacere. Quello che forse mi pesa maggiormente è il motivo per cui sono qui. Questa volta non è propriamente una mia scelta. Se avessi la possibilità di restare in Australia un altro anno senza andare in nessun Bourke o in nessun Bowen sicuramente adesso sarei a Sydney a cercare casa e lavoro a Bondi Beach. L’Australia però non lo concede. Se vuoi restare devi fare per 88 giorni molti di quei lavori che gli australiani ricchi non vogliono più fare. Sono da quella parte della televisione che a volte in Italia si vede nei telegiornali. Sono un immigrato che cerca di restare. Posso raccontarmela ma la verità è questa. Sono un italiano che come tanti suoi compatrioti prima di lui cerca fortuna in un altro Paese quando a casa tutto va male. Non è una novità, non è nulla di eccezionale; semplicemente, quando studiavo questo fenomeno sui banchi di scuola, non avrei mai pensato di farne parte. Quindi non c’è scelta, o Bourke o Italia, e da quello che leggo sui giornali e dal fatto che sono su questo treno, la mia scelta è molto chiara. Posso solo dire che adesso i racconti di John Steinbeck suonano diversi, anche se lui scriveva di America e non di Australia.

Bourke, container nella piantagione di meloni, 19 ott 2012, ore 23:54

Dove diavolo sono capitato? Vorrei proprio dire due parole al signor Lawson. Capisco che alla fine dell’ottocento non esistevano né l’Opera House né Surfers Paradise, ma se devo fare un dipinto di tutta l’Australia partendo da qui, bè non sarebbe un bel dipinto. Vivo in un container, a dieci chilometri da un centro abitato morto e a circa ottocento da quella che io definisco “città più vicina”. Al momento l’Italia non i sembra nemmeno così male. Sì, rubano tutti e non c’è lavoro, però almeno non mi sento annientato. Non credo che resisterò a lungo. Non c’è nulla a parte un milione di insetti che ruotano sulla mia testa e mi camminano addosso. Il bagno è esterno ed è a un centinaio di metri. Cento metri di buio e mistero. Per quello che mi riguarda potrebbe essere a Sydney. C’è troppa solitudine, troppa natura e troppo nulla. Mi sembra di impazzire, chiuso nel mio container ad aspettare che venga il mattino per capire almeno dove mi trovo, cosa ho intorno. Non è la mia dimensione, non lo è affatto. Se penso anche che questo week end non conta per i famosi 88 giorni mi viene davvero voglia di prendere il bus domattina e ritornare a Sydney. Ma non lo farò, non ancora, anche se non è detto che non prenderò quello di mercoledì. Per ora la farm vince e vince alla grande.


Dal paradiso dei surfisti all’inferno delle farm

Surfers Paradise, Gold Coast, QLD, 16 ott 2012, ore 09:44, biblioteca

  Arrivando da Southport, una carinissima città situata appena prima del paradiso, tutto quello che si vede è il blu. Laggiù, lungo la Gold Coast Highway, una fila quasi infinita di grattacieli tutti illuminati di blu. Arrivarci sotto è ancora più ammaliante. Le luci, i palazzi altissimi che svettano a pochi metri dalla spiaggia. La sabbia illuminata da luci blu e il rumore delle onde che rombano nel buio della notte. Non poteva esserci benvenuto migliore. Surfers Paradise, letteralmente paradiso dei surfisti, è la città principale della Gold Coast. E’ uno dei luoghi più vivaci di tutta l’Australia. La guida raccomanda di non venire qui per le vacanze di novembre e dicembre. La città è invasa da studenti in vacanza che fanno baldoria dalle prime luci del mattino a notte inoltrata e poi il giorno dopo ricominciano. Anche senza gli studenti, comunque, la città è molto viva anche di notte. Feste, locali, ubriachi e negozi aperti fino a tardi rendono Clermont solo un lontano ricordo. Il territorio di questa zona ricorda la Florida e difatti Surfers Paradise è spesso paragonata a Miami Beach. Una lunga striscia di terra corre parallela al litorale e sopra questo fazzoletto si sono ammassati grattacieli, alberghi e resort. Appena dietro ai grattacieli, isolette e canali si diramano a perdita d’occhio. E’ una specie di Venezia super estesa, ma anziché palazzi ottocenteschi ci sono case basse di legno, porticcioli e infinite barche. E’ una zona residenziale vastissima costruita sull’acqua e a contatto con essa. Per gli abitanti è molto più pratico avere una barca piuttosto che una macchina. Vista dall’alto del Q1 Skypoint, il grattacielo residenziale più alto del mondo, è una vista che lascia senza fiato. Appena il sole scende lontano dietro ai monti che circondano questa valle di terra e acqua e cemento, tante lucine azzurre illuminano il lungomare. Piano piano, mano a mano che l’oscurità avanza, sempre più luci vengono all’evidenza e la città si prepara per la notte e la baldoria. La vista dalla spiaggia, invece, con i grattacieli che sembrano quasi arrivare al mare, è una delle immagini più diffuse in tutta l’Australia. Il mare è relativamente sicuro a questa latitudine e nonostante le meduse morte si affollino lungo il bagnasciuga, i bagnanti ed i surfisti sono tantissimi. E’ un luogo perfetto per passare le vacanze con gli amici e gli studenti di cui sopra non sbagliano affatto.

Per quello che riguarda me questa città coincide con la fine del viaggio lungo la East Coast. Adesso è solo un lento arrivare a Sydney per riconsegnare il van. Ha anche coinciso con i miei primi tentativi di trovare una farm per ottenere il rinnovo del Working Holiday Visa per il secondo anno. Mi ero concentrato sulla Tasmania e le sue piantagioni di ciliegie, ma la raccolta non inizia che a gennaio. Ho quindi volto il mio sguardo all’Australia del Sud, ai vigneti della Barrossa Valley e al caro vecchio Western Australia e alla zona di Carnarvon, ma finora nessuna notizia. Ho circa cinque giorni per trovare qualcuno disposto ad assumermi, altrimenti sarò costretto a dirigermi dal mio amico a Bowen e chiedere se hanno posto per uno schiavo in più. Dal paradiso all’inferno.


Da Bowen a Cairns

Cairns, QLD, 2 ott 2012, ore 21:22, parcheggio

Cairns è una città che mi ricorda un sacco la riviera romagnola. A dirla tutta è una fusione tra Cattolica e Lloret de Mar in Spagna. Un lungomare interminabile, pieno di negozi e ristoranti, culmina con il waterfront, un’enorme piscina pubblica affacciata sull’oceano che a Cattolica proprio non esiste. I pesci tropicali di metallo, una scultura presente all’interno della piscina, sono probabilmente l’icona più famosa di questa città del Nord del Queensland. Altra cosa che manca alle due europee sono i pipistrelli. A Cairns ce ne sono a migliaia e al tramonto la città si riempie delle loro strida. Li si può vedere volare solitari o a stormi nel cielo al crepuscolo, mentre la città sottostante si affretta negli ultimi negozi aperti o è già in fila per mangiare ai ristoranti. All’apparenza sembrano del tutto innocui. Loro stanno lassù e noi quaggiù, nessun contatto. Quando sono stanchi di volare si appollaiano su una qualche palma del lungo mare e buonanotte. Questa è davvero Australia.

Anche Bowen era davvero Australia, ma in una diversa sfumatura. E’ vero che ieri il Queensland festeggiava il compleanno della Regina e quindi era tutto chiuso, però sono sicuro di non avere mai visto una città così desolata. Nessuno in giro per miglia, per tutto il giorno. Una città fantasma. Già la conformazione un po’ impressiona. Una sere di quadrati sagomati da vie che in Italia sarebbero tangenziali forma il reticolato urbano. Lungo questi stradoni infiniti solo casette in legno un po’ trascurate, chiese di ogni genere e bottle shop o liquor store. Non scherzo: ho visto più negozi che vendevano alcolici che persone. Mi ero fermato a Bowen per salutare un amico di Perth che è in farm, al momento. Era il suo compleanno e così sono restato per tutto il giorno. E’ stata una giornata che ricorderò di sicuro per molto tempo. Intanto la sua casa. Metà casa privata, metà ostello, non si capiva; però talmente sporca che preferivo andare in bagno nel mio secchio dentro al van. Lui era arrivato da un giorno, quindi non aveva praticamente fatto nulla eccetto schivare lo schivabile. La cucina indecente, mosche ovunque e la tipica mano di unto che caratterizza le case non pulite. Pessima prima impressione. Tra questo e la desolazione mi sentivo un sacco lontano da casa. Poi ci ha pensato l’Australia e il suo modo di essere a cambiare tutto.

Non avendo nulla da fare, essendo tutto chiuso a parte il liquor store, ci siamo messi a bere e parlare sul portico. Il portico. Non dovrebbero esistere abitazioni senza portico. E’ un elemento troppo essenziale per l’espressione della pace, della felicità e dell’interazione umana. Quel portico era sporco anch’esso, privo di sedie ma con cinque cuscini vecchi come gli aborigeni ed un tavolino assemblato con un asse di legno ed una cassetta da frutta. Ci siamo messi lì, quasi obbligati, e il vento di Bowen non ha mai smesso di soffiare e di farci compagnia. E’ passata la mattina, è passato il pomeriggio ed è arrivata la sera. Infiniti dialoghi ed infinite riflessioni hanno fatto sì che, nonostante le premesse avverse io possa dire di essere effettivamente stato da re a Bowen, Queensland, un paese dimenticato da Dio. Niente spiagge, un mare pessimo. Solo farm, strade enormi e desolazione. E di farm si è parlato a lungo.

Il mio amico lavora in una piantagione di pomodori. Strappa le erbacce per 19 dollari e 70 meno le tasse. Passa dieci ore al giorno sotto al sole a rompersi la schiena per ottenere il secondo anno di visto in Australia. Dieci ore, sole malsano, schiena curva, sudore, sporco, strappare erbacce che crescono sulla terra. E’ davvero finita la schiavitù? Da fuori può sembrare una paga ottima per un lavoro che in altre parti del mondo, anche se civilizzate, viene pagato la metà o meno. Da australiano, invece, è una paga da fame, una miseria. Però questo è il prezzo da pagare se si vuole stare in Australia un altro anno. Tre mesi di inferno, tre mesi che fanno piangere e maledire la vita ed imprecare per ottenere dodici nuovi mesi di amore e paradiso. Tre mesi come a Bowen, con niente da fare ed un portico che, se sei nuovo, ti salva i day off.