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Primo bilancio australiano

Perth, WA, 23 ago 2012, ore 14:58, casa mia (ancora per poco)

Così ci siamo, ultimi giorni a Perth. Come sempre quando un capitolo si chiude è bene fare un bilancio.

Innanzitutto il tempo: Cristo come vola qui! Sono quasi sei mesi che sono in Australia, in questa città, in questo quartiere. Ricordo come se fosse ieri quando ci sono arrivato e mi sembrava di essere su un altro pianeta. L’Australia. La sogni per anni e quando ci arrivi le tue aspettative non sono deluse, anzi. Il tempo che vado ad analizzare lo vedo come la barretta che sul PC identifica l’hard disc. Sai quanto spazio hai e questo hard disc è grande un anno. La prima parte di spazio occupato è una barretta rossa che potremmo chiamare driver. E’ il tempo che impieghi ad ambientarti, a capire come girano le cose da queste parti. Inizi a conoscere le strade, la conformazione urbana, i prezzi e gli orari del luogo dove ti trovi. Cerchi un posto dove vivere, un lavoro ed inizi a conoscere le prime persone. Cerchi anche di capire il tuo livello di inglese. Qui non siamo a scuola, non è l’ora che si passa col professore che ti dice che si parla solo inglese ma che poi se tu alla fine non capisci te lo spiega in italiano. Qui è tutto inglese, o meglio australiano, e all’inizio, soprattutto la comprensione, è difficile. Ma poi tutto va a posto, trovi casa, lavoro, amici e inizi ad ingranare. Ed ecco che arriviamo al secondo blocco dell’hard disc. Questo blocco è piuttosto grande, arriva quasi fino a metà e lo possiamo identificare come i file di sistema. Per dirla in maniera meno nerd possiamo chiamarlo anche soldi. E’ tempo che passi a lavorare, facendo anche due lavori e oltre cinquanta ore alla settimana. Tutto pur di cominciare a mettere via quel gruzzolo che ti permetterà poi di viaggiare per tutta l’immensa e meravigliosa vastità di questo continente. E’ un tempo in cui per me ci sono state poche parole e poche foto ma che ha lasciato un solco gigante. Anche se sei mesi non sono niente, Perth è come la mia casa adesso. Ho tanta confidenza con lei. L’ho imparata a conoscere bene. Le strade, i negozi, dove andare a mangiare, dove trovare ciò che mi serve. So tutto quello che devo sapere di lei e so già che tra quattro giorni mi mancherà parecchio. Chi ci è già passato, chi è già stato in un posto e l’ha poi lasciato, dice che la prima è sempre quella che ti rimane più cara. Non importa che sia bella o brutta, che tu veda posti meravigliosi o che sia in vacanza: il primo pezzo d’Australia che ti colpisce è anche quello che ti porterai dentro per sempre, no matter what.

Lasciare il lavoro e la tua casa fa effetto. Mi sono sempre sentito una persona abbastanza nomade e certo non ho intenzione di fermarmi. I Modena direbbero che “un vagabondo sa che deve andare avanti”. Però conosco per la prima volta davvero l’abitudine, la peggior nemica di un viaggiatore. L’anno scorso non rimanevo mai in un posto per più di due settimane. Dopo cinque giorni già sentivo prurito ai piedi e mi stancavo. Dovevo andare, non importava dove né come ma dovevo andare. Questa volta è diverso: è così facile abituarsi a Perth. E non è che io stia tornando in Italia. Quello proprio non lo sopporterei. Sto per affrontare un paio di mesi di viaggio che mi porteranno ad attraversare l’Australia, per arrivare a Sydney e poi su, verso nord, verso il Queensland, le sue spiagge e la barriera corallina più grande del mondo. Un posto da sogno.

Quindi non resta che ricordare che lo spazio più importante di questo hard disc è quello che non è ancora stato scritto, che ora è vuoto ma che si riempirà di nuove avventure e nuove esperienze.

That’s all folks! 

Arrivederci Perth.

 


Cosa ho imparato da questo viaggio

Vienna, Austria, 26 mag 2011, giorno 136, ore 06:26

Sulla barca per Helsinki, di ritorno da Stoccolma, ho incontrato un ragazzo finlandese. Un viaggiatore, come me. Parlando dei nostri viaggi ad un certo punto lui mi ha fatto una domanda: “Cosa hai imparato da questo viaggio?”. Lì per lì non ho saputo rispondere, ho farfugliato delle banalità e ho cambiato argomento. Dalla mia devo dire che comprimere cinque mesi di viaggio in un breve discorso fatto ad un semi sconosciuto non è affatto facile. Eppure quella domanda, nella sua semplicità, è rimasta, irrisolta e inserita in uno dei meandri della mia mente. Che cosa ho impatato da questo viaggio? Ci sono volute alcune settimane, ma adesso ho una risposta:

Ho imparato che per comunicare non serve sapere la lingua: a volte basta un sorriso o uno sguardo e si capisce tutto.

Ho imparato che le stelle, anche se sono diverse, sono sempre bellissime in qualunque cielo risplendano.

Ho imparato che da solo sto bene, ma che non potrei vivere tutta una vita senza i miei amici.

Ho imparato che l’amore, se è vero ed è dentro di te, te lo porti dietro ovunque tu vada.

Ho imparato che la famiglia c’è sempre, qualunque cosa tu faccia, anche se a volte non è pienamente condivisa.

Ho imparato che gli uomini provano una grande soddisfazione nel costruire cose belle.

Ho imparato che il migliore amico del viaggiatore è lo sconosciuto che incontra per caso. Oppure l’aeroporto.

Ho imparato che i visti sono un’enorme perdita di tempo; a tutte le età e in tutte le situazioni.

Ho imparato che i treni sono il mezzo di trasporto più fantastico che sia mai stato inventato, sono il luogo migliore per conoscere un popolo e che più bassa è la classse, più cose si imparano.

Ho imparato che le cose più belle, quelle che veramente rimangono dentro, sono le più semplici e sempre coinvolgono altre persone.

Ho imparato che senza ombra di dubbio la musica è una delle migliori conquiste umane, una compagna indispensabile per il viaggiatore, e che i Pearl Jam sono la migliore band della storia. Poi c’è De Andrè.

Ho imparato che spesso non c’è bisogno di complicarsi la vita: basta chiedere.

Ho imparato che a volte le cose si sistemano da sole ed invece altre volte, per quanto ci si sforzi, non vanno a posto mai. Ma sempre bisogna guardare al risultato finale.

Ho imparato, più seriamente, semplicemente che sono fortunato. Sebbene il mio Paese stia attraversando un periodo buio, devo dire che la mia oscurità è molto più luminosa di tante altre realtà che ho incontrato. Ho imparato che in qualunque parte del mondo ci si rechi, gli uomini fanno quello che possono, quello che gli è permesso per essere felici. C’è chi è felice per un iPhone, chi per un vestito, chi ad andare in piazza a vedere che aria tira e chi perchè ha qualcosa da mangiare e un tetto al caldo per passare la notte. C’è chi sogna un lavoro, chi un un governo e c’è chi il governo ce l’ha in esilio e hai migliaia di fratelli uccisi o incarcerati. E chissà quanto altri sogni ci sono là fuori che io non ho visto, che non ho immaginato, ma ci sono, sono là, sono come i miei anche se sono diversi. Perchè così è il mondo e gli uomini che lo abitano, uguali a me seppur diversi.

Qualcuno potrebbe obiettare che non era necessario fare tanta strada per arrivare a questa semplice conclusione. Sarebbe bastato un libro e un po’ di buon senso. A quelle persone vorrei dire due cose: primo, che le cose viste con gli occhi hanno un altro sapore, che sono più vere, che a volte i libri sbagliano e che comunque sono un punto di vista, e io amo guardare le cose da dibverse prospettive. Secondo, che essendo la vita unica e irripetibile, tanto vale fare qualcosa per renderla straordinaria. E viaggiare è il modo che io conosco. Ci sarebbero tante altre cose ancora, dettagli, ma preferisco serbarle per me. Inoltre le cose semplici spesso si rivelno le migliori.

Ho imparato, in ultimo, che la felicità è reale solo se è condivisa. Non sono il primo a giungere a questa conclusione, anche se io ci sono arrivato per una strada diversa, la mia. E questa è la lezione più importante di tutte.


Un errorino

Confine Ucraino – Polacco, 25 mag 2011, giorno 135, ore 11:11, treno

Se acquistate un biglietto del treno Kiev – Vienna e la bigliettaia vi dice che parte da Kiev alle 20:52 e arriva a Vienna “alle 06:52 del giorno dopo”, voi cosa capite? Io avevo capito che partendo il 24, sarei arrivato a Vienna la mattina del 25 alle 06:20. A quanto pare no. Quasi cinque ore dopo l’orario in cui sarei dovuto arrivare a Vienna, sono fermo alla frontiera Polacca. Le guardie doganali polacche sono intente a smontare il treno per vedere che nessuno abbia merce di contrabbando. No, non cocaina o uranio, solo sigarette o vodka. Letteralmente smontare il treno. I letti vengono staccati e fatti annusare ai cani, le paratie e i pannelli che in pratica formano il vagone vengono smontati per vedere se nascondono qualcosa. Di solito la polizia è armata di pistole e manganelli, la guardia doganale polacca, invece, di avvitatori e chiavi inglesi. La perquisizione nella mia cabina non è stata diversa. Vuota lo zaino, hai sigarette? Vodka? Sei solo? Poi hanno smontato tutto lo smontabile e un cane ha annusato tutto l’annusabile. A processo finito, nella mia prima rilucente cabina, c’era un forte odore canino e un sacco di polvere. La mia faccia deve aver lasciato trapelare i miei pensieri, perchè vedendola il poliziotto mi ha chiesto: “Problemi?”. “No, no, no. Tutto a posto. Meglio di prima”:

Ma questa era l’ultima frontiera europea, da adesso in poi dovrebbe essere tutto sgombro fino a casa. Sì, perchè in effetti è così: sto tornando a casa. Mi fa strano dirlo, casa! Negli ultimi mesi ho chiamato casa un sacco di cose: ostelli, alberghi, giacigli, aeroporti, ma mai con quell’accezione. Casa è casa, e io ci sto ritornando. Il paesaggio incantato della Polonia meridionale scorre dal finestrino ed assomiglia incredibilmente alla Pianura Padana. Gli Appennini sullo sfondo, i campi coltivati, qualche fiume e tanti alberi. Immagino già tutto quello che farò e soprattutto che mangerò al mio ritorno. Niente più viaggi, per un po’, però tanto cibo che da molto mi manca. A proposito di cibo: se avessi saputo che avrei dovuto passare due giorni in treno, me ne sarei portato dietro un po’. Io credevo di starci una notte, quindi ho portato solo uno snack e un po’ d’acqua. Spero a Cracovia ci sia il tempo per scendere e comprare qualcosa da mangiare.

Cracovia, Polonia, 25 mag 2011, giorno 135, ore 17:00, centro commerciale

Fantastico, il treno riparte da qui alle 22:00. Questo vuol dire che posso fare un giro per Cracovia, mangiare e fare qualche spesa per il viaggio fino a Vienna. Gran cosa il treno, gran cosa.


Chernobyl

Chernobyl, Ucraina, 22 mag 2011, giorno 132, mensa dell’impianto

Chernobyl, una tranquillo villaggio situato 100 chilometri a nord di Kiev e a 16 dal confine bielorusso. Il sito è tristemente famoso per essere stato teatro del più grave disastro nucleare della storia dell’uomo. Il 26 aprile 1986 alle ore 01:23 il reattore numero quattro della centrale nucleare è saltato in aria, diffondendo materiale radioattivo in tutta Europa. All’inizio, l’allora governo sovietico ha cercato di tenere la notizia riservata, ma la nube radioattiva, diffusasi a causa del vento verso nord, ha allarmato la centrale nucleare svedese di Forsmark, la quale credeva di avere delle perdite radioattive interne. Appurato che la causa dell’icremento di radiazioni non era da attribuire all’impianto svedese, si è comincito a cercare altrove, volgendo le ricerche soprattutto in Unione Sovietica. La notizia è rimbalzata per tutta l’Europa e a causa delle pressioni internazionali L’URSS iniziò a fornire notizie circa l’incidente. Nella storia dell’energia nucleare solo due eventi sono stati classificati come livello 7 (il massimo) nella scala INES dell’IAEA: Chernobyl e Fukushima.

Essendo il tema del nucleare piuttosto attuale, data la decisione del governo italiano di lanciarsi in questo progetto, ho deciso di andare a vedere il luogo del disastro con i miei occhi. La zona è strettamente riservata ancora oggi. L’accesso è consentito solo ad alcune persone ed è impossibile avvicinarsi al sito autonomamente. A Kiev c’è però un’agenzia che organizza dei tour per visitare l’area. Tutte le informazioni si possono trovare sul sito www.tour2chernobyl.com. La visita costa 160 dollari americani e dura una giornata. E’ un po’ caro, ma dove altro si può avere l’occasione di osservare direttamente gli effetti di un disastro nucleare? Il viaggio da Kiev al villaggio di Chernobyl dura circa due ore e mezzo. Prima di arrivare al villaggio si passa un check point militare dove viene effettuato un controllo dei passaporti. Tutto intorno è pieno di cartelli con il simbolo della radioattività e scritte in cirillico. Contrariamente a quanto si può pensare, il villaggio non è disabitato. Il governo permette agli abitanti originali di soggiornare nelle loro case per quindici giorni ogni trenta. Le strade comunque sono quasi deserte e gli autoctoni che si incontrano sono perlopiù anziani, gente dura che è restia ad abbandonare la propria casa anche se il rischio di contaminarsi è alto. Al villaggio ci viene presentata la guida, la quale ci dice le regole da seguire: non camminare sull’erba, solo sull’asfalto, non raccogliere niente da terra, non bere acqua se non dalla bottiglia, non portare via alcun oggetto dall’area e prestare attenzione a dove si mettono i piedi. Prima di partire da Kiev ci avevano detto di indossare solo abiti lunghi, niente magliette o pantaloncini, e di portare scarpe chiuse. La guida ci consegna anche due contatori Geiger per tenere monitorati i livelli di radiazioni lungo il percorso. Dopo un breve briefing introduttivo sul disastro e la diffusione delle radiazioni si parte alla volta del reattore. Ci fermiamo dopo poco per fotografare la struttura da lontano.

Chernobyl

La guida ci ripete di non camminare nell’erba. La terra è radioattiva, l’asfalto no. Se si infilasse una sonda per il rilevamento delle radiazioni nel terreno fino a giungere agli strati del 1986 si rileverebbero alte tracce di radiazioni. L’asfalto invece è lavato dalla pioggie ed è stato rifatto, quindi è totalmente privo di sostanze radioattive. Si sente come un frinire di grilli tutto intorno, ma non sono grilli: sono i contatori Geiger. A questa distanza lo strumento segna un livello di 0,4 micro Rd. Proseguendo si arriva all’imbocco della strada che porta a Pripjat, la città in cui vivevano gli operai del reattore e che è stata evacuata ed abbandonata dopo l’incidente.

Chernobyl

L’arrivo in città è impressionante. La via principale è quasi completamente invasa dalle piante. Sembra di stare su un set di un film apocalittico tipo “Io sono leggenda”, solo che qui è tutto vero. Gli edifici abbandonati, casermoni sovietici in cemento armato originali, sono coperti da vegetazione e dove una volta c’erano i cortili e le strade adesso ci sono solo piante. Intorno tutto è deserto, nessun contatto umano, solo lo scheletro della vecchia città. La piazza principale è solo piante e cemento. Dall’alto di un edificio il simbolo del comunismo, la falce e il martello, svetta ancora sulla desolazione più totale.

Chernobyl

Chernobyl

Entriamo negli edifici. Tutto è abbandonato, tutto è vuoto, ma le tracce dell’uomo rimngono eccome, anche se tutt’intorno è pieno di cocci, di rottmi, di lastre di parquet smosse dal pavimento. Libri, giornali, una palla da basket sgonfia, un paio di scarpe. Chissà che fine h fatto il proprietario. E’ facile immaginare la vita degli ex abitanti. Sembra quasi di vederli tra le macerie. Invece sono tutti andati, molti morti, altri trasferiti. La città è anche un esempio di città sovietica originale. E’ come fare un enorme tuffo nel passato, al tempo del comunismo, al tempo in cui l’Ucraina era ancora URSS, al tempo in cui il reattore non era ancora esploso.

Chernobyl

Visitando la piscina comunale si possoano ancora vedere i galleggianti delle corsie. Nella scuola ci sono ancora i disegni dei bambini nelle classi. La tristezza regna sovrana. Il luogo forse più impressionante di tutti è il parco giochi. La pista degli autoscontri abbandonata, la giostra arrugginita, il calcinculo che è un rottame. La ruota panoramica è ancora in piedi e domina questa distesa di niente, di tristezza e di abbandono.

Chernobyl

Chernobyl

Ground Zero, a confronto, sembra una fiera di paese. Qui il livello di radiazioni è 1,11 micro Rd. L’ultima tappa a Pripjat è un condominio, l’edificio più alto della città. Negli appartamenti deserti si possono ancora vedere i materassi, i divani, le stufe e i water usati dgli abitanti. Per usre un altro paragone cinemtografico sembra di essere sul set del film “Goodbye lenin”. Dal tetto si vede tutto il panorama. Gli edifici in cemento armato sono indistruttibili e recano ancora la geometri della città una volta abitata. Tutto il resto è solo vegetazione. Le strade sono invisibili. Solo le scritte sui tetti fanno capire che cosa si sta guardando. Sullo sfondo è il reattore. Viene da chiedersi se quella stessa scena è stata osservata quella terribile notte, se gli abitanti svegliati dall’esplosione siano saliti sul tetto per contemplare lo spettacolo della loro rovina.

Chernobyl

Il pranzo è in una mensa poco distante dalla città. Prima di entrare si deve passare attraverso uno scanner che rileva la quantità di radiazioni raccolte. Se il valore è troppo alto una sbarra proibisce l’accesso. Per fortuna i nostri valori sono quasi inesistenti. Prima di fare ritorno a Kiev si va a vedere il reattore vero e proprio, il numero 4, il disastro. A 300 metri dal sarcofago di cemento che ricopre il nocciolo fuso del reattore la quantità di radiazioni rilevata è di 3,45 micro Rd, il valore più alto registrato. La guida ci dice che all’interno del sarcofago riposano dispersi i corpi di alcuni pompieri o soccorritori che hanno perso la vita quel giorno. Un monumento situato di fronte alla centrale installato nel 2006 è dedicato a tutti coloro che hanno perso la vita per salvare il mondo dal disastro nucleare.

Chernobyl

Ma qual è stata la causa dell’esplosione? Le versioni sono due, entrambe piuttosto lunghe e complicate. Per tutti coloro che desiderassero avere informazioni dettagliate consiglio la pagina di Wikipedia dedicata al disastro di Chernobyl. Per semplificare enormemente, si può dire che la causa è stata un insieme di cause che, prese singolarmente all’interno di tutto il quadro, potevano essere non tanto gravi, ma sommate una dopo l’altra hanno portato a quello che è successo. Il tutto è stato un test. Si doveva effettuare al pomeriggio, ma una centrale elettrica vicina aveva avuto un guasto e aveva chiesto di non sospendere l’erogazione di energia. Il test si doveva effettuare a mezzogiorno ma è stato rinviato di 12 ore. Questo ha chiamato in causa i lavoranti del turno di notte, i quali non erano preparti per effettuare il test in programma. Errori nel disattivare i sistemi di sicurezza ed errori nella gestione delle barre di raffreddamento. A tutto ciò si deve aggiungere un errore di progettazione della centrale e il fatto che certe reazioni chimiche, legate soprattutto alle barre di raffreddamento, si sarebbero conosciute più a fondo solo negli anni a seguire. Tanti piccoli errori che hanno portto alla tragedia che oggi conosciamo. I morti legati a questo avvenimento oscillano, tra le tante stime, tra le 4.000 e le 270.000 persone, oltre alle 65 direttamente coinvolte nell’esplosione. La causa principale di morte è il cancro dovuto all’esposizione alle radiazioni. Alcuni addirittura parlano di 6.000.000 di morti direttamente imputabili a tumori o leucemie derivate dalle radiazioni di Chernobyl. Tutti questi dati si trovano su Wikipedia.

Nucleare sì o nucleare no? Io non sono un esperto e non voglio fare finta di esserlo, però alcune cose le so. So che l’energia nucleare ha tanti vantaggi, che dal 1986 si sono fatti parecchi passi avanti nella gestione e progettazione delle centrali e che in tutta la storia di questa energia solo due volte si è arrivati alla catastrofe. La prima la abbiamo analizzata, la seconda, Fukushima, è dipesa in gran parte dallo Tsunami, e non da errori umani o di progettazione. Però chiediamoci: il gioco vale la candela? Vale la pena rischiare situazioni del genere quando si potrebbe fare in maniere diverse? Tutti quelli che dicono che è impossibile che succedano i disastri nucleari devono fre i conti con la realtà: non è impossibile, è successo e può succedere ancora. E’ giusto allora iniziare un programma che, in caso di errore, porta alla distruzione della vita per decenni, alla contaminazione di terre, acque e cieli? E’ furbo rischiare tanto? Dopo avere visto quello che ho visto, direi proprio di no. Il fatto è che il materiale radioattivo crea un’infinità di problemi. Oggi a Chernobyl il problema più grande è costituito dal nocciolo fuso, ancora radioattivo, e dal sarcofago di cemento armato che lo contiene. La struttura, oltre a cedere sotto la forza degli agenti atmosferici, è talmente pesante che sprofonda nel terreno. Il rischio è che l’acqua piovana, penetrando attraverso le fenditure che si formano inevitabilmente, possa raggiungere le falde acquifere e quindi diffondersi nuovamente. Immaginate il danno? Acqua radioattiva che viene usata per irrigare, per l’igiene personle, acqua che viene bevuta. L’energia nucleare avrà anche tanti pregi, ma ha un grande difetto: se le cose vanno male, rimediare del tutto è impossibile e occorrono decine di anni. Vorrei che le persone che sono favorevoli al nucleare vedessero le conseguenze coi loro occhi. Credo che in molti cambierebbero idea.

Chernobyl


Quel treno per Kiev

Treno Mosa – Kiev – Chisinau, 20 mag 2011, giorno 130

Di nuovo in treno, di nuovo in terza classe. Il treno sarebbe partito alle 19:37, ma era già sul binario alle 17:30. Il saluto a Mosca non è proprio caloroso. Non è che sia stato male, solo che non sono stato nemmeno al meglio. Al momento di lasciare San Pietroburgo ero un po’ malinconico; al momento di lasciare Mosca sono entusiasta per la prossima tappa: Kiev, Ucraina.

La hostess del mio vagone mi prende subito in simpatia. Mi dice, mentre controlla il biglietto, che ha una parente che in Italia fa la badante e poi si scusa per il suo scarso inglese. Se sapesse quello che ho dovuto fare per comprare il biglietto probabilmente non si sarebbe scusata. Il treno è come quell’altro, solo che ad ogni primo finestrino di ogni vagone c’è un cartello che dice “Moskva – Chisinau”. In effetti sul treno ci sono molti moldavi, lo si capisce dall’enorme quantità di cartoni che si portano dietro e dal colore dei passaporti. Il mio compagno di viaggio, quello che dorme sotto di me, è un signore anziano che viaggia solo e che sorride spesso. Ha una faccia che ispira subito simpatia, ma a causa della barriera linguistica non entriamo molto in confidenza. La hostess, invece, sembra mia madre. Mi ha portato i fogli per la dogana e mi ha spiegato come compilarli, mi ha chiesto del visto, mi ha detto che se avevo voglia di un tè o di un caffè di farglielo sapere. Io gli ho chiesto solo se si poteva fumare e dove e lei mi ha detto: “Vai lì, ma solo tu!”. Cara signora. Forte di questo privilegio mi gusto una Camel Light cinese mentre il paesaggio russo mi passa davanti all’ora del tramonto. C’è tanta acqua in questa regione, soprattutto paludi. Gli alberi e le case ricordano un po’ la Lettonia, solo che il territorio è disseminato di paludi. Chissà le zanzare a luglio! Ad una fermata del treno scendo per prendere un po’ d’aria (la temperatura all’interno del vagone è 100% estiva) e la mia nuova amica mi chiede dove sono stato. Le racconto una sintesi del mio viaggio e la prima cosa che mi chiede è: “No scary?”, non hai paura? No, rispondo. E tu madre? Bè, lei più di me.

All’una e mezzo una poderosa mano mi sveglia e mi chiede: “Passport!”. La polizia di frontiera russa non si smentisce in fatto di buone maniere e meticolosità di controllo. Il mio passaporto viene passto ai raggi X e mi iniziano a fare un sacco di domande. Dove sei stato in Russia? Solo a San Pietroburgo, signore. E perchè sei sul treno da Mosca? Solo transito, signore! Ancora una volta la hostess è venuta in mio aiuto. Si è avvicinata e ha fatto da tramite linguistico tra me e la guardia. Se tutte le hostess e gli steward fossero così, le compgnie aeree fallirebbero.

So cosa vi state chiedendo: sì ho mentito alla guardia. Il fatto è questo: in Russia, ad ogni città che visiti, ti devi registrare. Questo significa che prendono il tuo passaporto, ti fanno un foglio che certifica dove sei stato e per quanto e poi te lo rilasciano. Naturalmente bisogna pagare. A San Pietroburgo Irina mi ha detto che per aggirare questa tassa, lei avrebbe potuto registrarmi per tutta la durata del visto a san Pietroburgo. L’unica cosa che dovevo fare era, se alla dognana mi chiedevano dove ero stato, dire che ero stato solo a san Pietroburgo e che partivo da Mosca ma ero solo in transito. Io avevo accettato e la cosa è andata a buon fine. Italia e Russia, in fatto di scappatoie, sono davvero simili.

Le guardie ucraine non sono state più gentili, ma il controllo si è sbrigato in fretta e adesso il treno sta correndo verso Kiev. Niente più controlli, niente fermate intermedie. La notte ucraina copre il paesaggio e dai finestrini non si vede nulla. Mi riaddormento: prossima fermata Kiev.


Uscire dalla Russia è tanto complicato quanto entrarci

Mosca, Russia, 17 mag 2011, giorno 127, 18:14, Piazza Rossa

Piove. Una giornata uggiosa a Mosca non è certo un fenomeno che mette allegria. Camminare è sconsigliato, a meno che non si desideri essere inzuppati dalla testa in giù. L’ombrello non fa parte del mio corredo da viaggiatore e il piumino cinese ha qualche lacuna, anche se devo dire che è il prodotto cinese più longevo che abbia mai acquistato. In questa giornata che mette tristezza ho preso informazioni su come uscire dalla Russia. Non è stato facile. I moscoviti, e soprattutto i moscoviti che lavorano nelle biglietterie, hanno zero conoscenza dell’inglese e ancora meno pazienza. Il più delle volte, una volta capito che la conversazione è a senso unico, ti guardano con disprezzo ed esasperazione e passano a quello dopo di te. Devo dire che se non sapessi nemmeno leggere la loro lingua sarei come in Cina, forse peggio. La metropolitana di Mosca è praticamente priva di informazioni visive. Niente colori delle linee, poche cartine, a volte persino le frecce sono sostituite dalle parole. Tutto è scritto, nulla è disegnato. Per ogni stazione c’è una scritta sola con il nome della stazione e quella scritta è sempre in cirillico. Se non sapessi leggere sarei fregato completamente. L’ufficio informazioni turistico non c’è, almeno non dove dovrebbe essere secondo Google e la Lonely Planet. La cartina me l’ha regalata dal nulla un biellorusso che ho incontrato per caso. Mosca non è una città facile, non ti da un caldo benvenuto e non pensa minimamente a te o alle tue esigenze. E’ rude, fredda e grigia, soprattutto quando piove. Per tutti coloro che si sono chiesti se sia meglio Mosca o San Pietroburgo la risposta è semplicissima: clamorosamente San Pietroburgo. Almeno secondo me.

Ma torniamo a noi, ai biglietti, alla mia via d’uscita. A San Pietroburgo tutti i miei problemi erano risolti da Irina e da Roman, i gestori dell’ostello Apple Hostel Italy (Italy perchè si trova in Italianskaya Ula o qualcosa del genere). Gentili e disponibili mi aiutavano con tutte le prenotazioni e a ricercare i prezzi che non riuscivo a trovare: praticamente tutti. Il sito delle ferrovie russe è in russo e in inglese, solo che nella versione inglese non hai i prezzi e non pui prenotare. Ti dice solo se c’è il treno. Ai russi piace questa cosa, favorire il compatriota e non lo straniero. Si riscontra spesso. Anche per i teatri o per i musei: il russo paga meno, lo straniero di più. Nei musei i titoli delle opere sono bilingue (non sempre), ma le didascalie solo in russo. Decisamente è meglio sapere un po’ di lingua per venire in Russia, almeno leggerla. Dopo aver raccolto informazioni autonomamente fra internet e altri viaggiatori sono giunto a credere che il modo migliore per lasciare la Russia sia un treno o per Berlino o per Kiev. Ci ho messo tipo mezz’ora per chiedere alla bigliettaia le informazioni sul treno per Berlino. Ero da solo, non c’era nessuno dopo di me, avevo trovato uno di quegli orari morti, quindi è stata obbligata ad ascoltarmi. Un po’ di russo, poco, e molta mimica, ha capito cosa cercavo. Il treno per Berlino parte alle 23:44 dalla stazione di Belorusskaya e arriva a Berlino il giorno dopo circa alla stessa ora. Il biglietto costa 170 Euro circa e per attraversare la Biellorussia ci vuole un visto di transito che può essere fatto a bordo del treno. Di quest’ultima informazione non mi fido molto, credo anzi che la bigliettaia mi abbia detto “Da, da, da” solo per levarmi di torno. Il problema è che a Berlino non c’è poi il collegamento in bus con Bologna. Dovrei andare ad Hanover o a Francoforte e poi da lì a Bologna e tutto questo giro comporta una grossa spesa. Per Kiev, invece, il treno parte dalla stazione di Kievskaya (sì Mosca ha una stazione più o meno per ogni punto cardinale e ognuna reca il nome della città dell’ex Unione Sovietica che è in linea per quel punto. Quella di S. Pietroburgo si chiama Leningradskaya) ogni giorno e il biglietto costa circa 40 Euro. Una volta a Kiev non ho intenzione di prendere l’ifinito bus per Bologna, quindi dovrei cercare un tappa intermedia, tipo Vienna, Varsavia o Cracovia. Anche volendo, non si può fare prima. L’aereo è fuori discussione. Nemmeno se fosse gratis. Entrare o uscire, con la Russia niente è facile.


Terza classe

Treno San Pietroburgo – Mosca, Russia, 16 mag 2011, giorno 126, ore 01:17

I treni russi hanno tre classi. La prima classe è senza dubbio quella più decorosa. Due letti per scomparto e un materasso che anche i più pignoli sarebbero costretti a ritenere tale. Si trovano i passeggeri più schizzinosi, gli elegantoni della strada ferrata. La seconda è gia meno pregiata, quattro letti per scomparto e i materassi si assottigliano. Si trovano le famigliole, i pendolari con le valigie di cuoio e quelli che nel secolo scorso sarebbero stati definiti i commessi viaggiatori. La terza classe è la mia. E’ la classe del popolo senza ombra di dubbi. Backpackers, russi del volgo e birre abbondano tra i sei letti per scompartimento di due metri per due. E’ la classe fatta da gente in mutande, piedi nudi e sudici, chiacchiere ad alto volume (complice anche l’alcol) e calze bucate. I materassi sono in pratica dei teli molto spessi e quelli alti faticano a trovare la posizione per dormire. E’ una classe che sa di copechi, non di rubli e certo non di euro. Decisamente è la mia classe. Il biglietto russo non è tanto chiaro. Lingua a parte, non riuscivo proprio a capire quale fosse il numero del posto. Ho chiesto aiuto e mi hanno indicato un sedile. “No. Error. Bed”. La tipa mi ha guardato come si guarda uno scemo, ha ribaltato il tavolino che stava tra i due sedili e mi ha detto: “Bed”. E’ sempre bello imparare cose nuove.

Nei treni russi come in quelli cinesi c’è il distributore di acqua calda, solo che qui c’è anche quello di acqua da bere, a temperatura ambiente, quando funziona. Vantaggio Russia. Come già visto, i vagoni sono riscaldati autonomamente da una caldaia indipendente a legna o a carbone, e anche se è primavera e il riscaldamento è spento, l’odore di fuoco, di fumo e di freddo passato ancora permea l’aria dei vagoni. E’ molto pittoresco. Anche i colori sono quelli del passato. Verde oliva, amaranto, finto oro. Tessuti una volta nuovi adesso sono i testimoni dello sfarzo, o non sfarzo, di un tempo. Una specie di souvenir del comunismo o forse dell’era zarista, chissà.

La stazione di San Pietroburgo a mezzanotte è molto diversa da come me l’ero immaginata. Pochi barboni, qualche ubriaco, tanti viaggiatori e un numero incredibile di poliziotti. Mi sarei aspettato qualcosa sul genere di Zagabria, invece sono stato piacevolmente sorpreso. I poliziotti, sebbene in forze, svolgono per lo più un lavoro di direzionaggio. Stazionano a tutti punti di entrata ed uscita e ti fermano se stai entrando o uscendo dalla parte sbagliata. Non so perchè ma in Russia ogni portone o è un’entrata o è un’uscita. Mai tutte e due le cose. Se per caso sbagli porta e vuoi tornare indietro, semplicemente non puoi. Spesso ti tocca fare un sacco di strada per tornare indietro. E’ la Russia, non c’è niente da fare. Prossima fermata: Mosca.


E’ fatta!

Helsinki, Finlandia, 9 mag 2011, giorno 119, ore 13:43, porto di Helsinki

Visto Russo

Questo adesivo, che adesso è ben attaccato sul mio passaporto, mi ha fatto penare per quasi quattro mesi. E’ da Zagabria che cerco di ottenerlo e sebbene in mezzo ci siano state tante altre mete, non ho mai smesso di volerlo. Finalmente è arrivato, a Helsinki, 83 Euro, visto e assicurazione sanitaria per un mese. Non ho perso nemmeno un secondo, sono andato al porto e ho comprato un biglietto per San Pietroburgo sulla nave Princess Maria, St. Peters Line, che lascia Helsinki alle 19:00 di oggi e mi sbarcherà sul suolo russo domani mattina alle 9:30 ora di San Pietroburgo. Ho anche già prenotato l’ostello per cinque giorni, la prenotazione è stata confermata e quindi sembra che se la nave non affonderà, dovrò solo godermi il soggiorno. Niente sbattimenti, ricerche, notti in aeroporto. No. Tutto prenotato, un letto ogni sera e una doccia al giorno garantita. Sono euforico, non vedo l’ora di arrivare.

Il viaggio si presenta bizzarro. Uno dei miei compagni di cabina è un vecchio che non passa inosservato. Dall’aspetto ricorda Hemingway, solo la versione russa, senza denti. Parla un inglese terrificante ma soprattutto sembra che gli manchino parecchi venerdì. Non sta mai zitto. Mai. A volte si incanta e inizia a sbiascicare frasi in russo con lo sguardo fisso a terra. Il suo più grande amore sono le calze, quelle di qualità. Appena entrato mi ha chiesto il coltello per tagliare il sottile filo che legava insieme il paio di calze che teneva in mano. Le ha stirate e toccate un po’ con le mani, la gioia negli occhi, e poi si è sfilato le All Star e se le è messe. Dice che in russia si trovano solo calze made in china, di seconda mano. Quelle buone si trovano solo in Finlandia. Eh sì, son problemi anche questi. Gli altri non li ho ancora visti, ma facendo un giro per la nave si vedono  quasi esclusivamente passeggeri russi.  Generalmente coppie di mezza età o famiglie. Gira voce che i primi di maggio siano festivi in Russia, quindi forse queste sono le conclusioni di molte vacanze. La nave è russa anch’essa, anche se nei negozi di bordo i prezzi sono in Euro.  Alla tv c’è l’hokey e non il calcio, i mondiali, e gli odori della nave, dal cibo alla gente, mi fanno già sentire un’aria diversa: l’aria della Russia. Mentre ero ancora a terra ho visto che al Mariinsky Theater di S Pietroburgo danno “Il lago dei cigni” questo sabato. Ho provato a comprare un biglietto online ma non ci sono riuscito. Dev’essere bello assistere ad uno spettacolo russo di questa portata con uno dei balletti migliori del mondo e all’interno del teatro più vecchio di tutta la Russia. Appena arrivato proverò a chiedere all’ostello come fare a reperire il biglietto, sperando che non costi una fortuna e sperando che mi facciano entrare nonostante il mio aspetto non sia certo quello di un cigno. La nave sta salpando. Vado a salutare Helsinki, poi andrò a vedere se il circo è già arrivato nella mia cabina.


Le città invisibili

Copenhagen – Helsinki, 5 – 7 mag 2011, giorno 117, ore 13:05, biblioteca

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”   Italo Calvino, “Le città invisibili”

Kublai Khan chiese a Marco Polo: “Dopo aver viaggiato per così tante città, se ne dovessi costruire una, come la costruiresti la tua città?”.

Marco Polo rispose: “Non ti dirò come, poichè il come è effimero, ma ti dirò che se dovessi costruire una città, partirei sicuramente dall’acqua e non dalla terra. Nella sua semplicità, l’acqua è un elemento essenziale per la vita di una città. Essa porta rumori, odori e oggetti senza i quali una città non potrebbe essere considerata tale. La saggezza del tutto risiede nelle acque. Sì, ho sempre pensato che per il suo bene una città dovrebbe scorrere vicina all’acqua”.

La città invisibile

“Intendi dire che l’acqua dovrebbe scorrere vicino alla città?”

“No, l’acqua può anche stare ferma. E’ la città che deve scorrere. Una città immobile ristagna, si imputridisce e muore. Ho visto troppi luoghi fare questa fine, seccarsi sotto all’immobilità della realtà. No, credo che una città dovrebbe essere come un fiume; scorrere, mantenersi fresca, pulita. Anche i suoi abitanti non dovrebbero essere mai gli stessi di qualche istante prima.
Immagina una città sempre nuova, sempre diversa per ogni cittadino che la abita. Non si chiederebbero informazioni, non ci sarebbe bisogno di vie: sarebbero tutti uguali e tutti meravigliati. Una città che non invecchia mai. Una città che, come un fiume, scorre tra le genti.

Le città invisibili

“E dove la costruiresti nel mio impero una città così?”.
“La costruirei nel lugo più visibile, sotto gli occhi di tutti, di modo che risulti invisibile ai più, ma che sia facilmente accessibile e comoda a coloro che vedono cio che non si vede, quelli che hanno voglia di vederla veramente. Sarebbe perfetta su una montagna”.

Le città invisibili

“E vi sarebbero case, in questa tua città?” chiese Kublai Khan

“Di case ve ne sarebbero eccome, e di tutti i tipi. Rotonde, quadrate e delle forme più strane e bizzarre. Dovrebbero essere case a misura d’uomo, quindi per forza non comuni, poichè ogni uomo è non comune e bizzarro e strano.

Le città invisibili

Le case e il tutto spunterebbero dall’erba, come funghi o fiori, facendo sembrare che la mano dell’uomo non abbia mai avuto a che fare con tutto questo.

Le città invisibili

Sarebbe una prospettiva nuova, una visione in cui l’edificio non sarebbe lo scopo finale, il primo pensiero, bensì l’uomo e il suo benessere, il suo vivere. Non ci sarebbero recinzioni o barriere poichè ognuno avrebbe tutto ciò di cui potrebbe aver bisogno.

Le città invisibili

Decisamente la costruirei di vetri e di acciaio, di specchi e cemento. Per lo più di tanta fantasia. La città non rifletterebbe la luce, ma si fonderebbe con essa. Ad ogni ora del giorno ci si potrebbe domandare “c’è o non c’è?”. La vedo immersa in un paradiso di naturalezza artificiale”.

Le città invisibili

Kublai Khan meditò a lungo sulle parole di Marco Polo, tentando di immaginare una simile meraviglia senza tuttavia riuscirci. Alla fine chiese: “Ma sei sicuro che una città del genere non esista già?”

Marco Polo nascose al sovrano un sorriso: “Certo che esiste già, ma è talmente sotto agli occhi di tutti che nessuno la vede”.

Nota dell’autore

Quando lessi per la prima volta “Le città invisibili” di Calvino non capii e non mi piacque. Col tempo imparai ad apprezzare il testo e non appena vidi gli edifici ritratti nelle foto, la mia mente si precipitò dentro al libro. Fra le tante città inventate da Calvino-Polo, nessuna mi è mai risultata tanto straordinaria quanto questo quartiere di Copenhagen. La sola cosa che vorrei sapere, il mio unico dubbio, è che cosa avrebbe fatto o pensato o scritto Calvino se avesse avuto modo di vedere tutto ciò.


Christiania

Copenhagen, Danimarca, 4 mag 2011, giorno 114, ore 22:45, stazione dei treni

Christiania è aperta o chiusa? Cerchiamo di fare luce su questo mistero.

Il 3 maggio 2011 la prima pagina del Copenhagen Post riporta questo titolo: “Christiana si ritira dietro le barricate”. Sfogliando la versione inglese del quotidiano cittadino scopro che Christiania è aperta, ma sembra sia alle prese con una battglia per la terra. Pare che il governo voglia sfruttare la terra dell’ex sito militare in maniera più produttiva. A causa di questa intenzione, per la prima volta in 40 anni di esistenza Christiania ha chiuso le sue porte volontariamente ai turisti e ai visitatori abituali. “Chiudiamo per non chiudere” diceva uno degli slogan. Da quanto ho potuto capire leggendo, il problema è che secondo il governo lo spazio è da sfruttare meglio, quindi le soluzioni proposte sono due: o sloggiano o comprano la terra. Contando che il valore stimato dell’area è di 150 milioni di corone danesi, credo che le opzioni si riducano ad una soltanto: sloggiare. E così per prendere tempo gli abitanti hanno chiuso e hanno parlato tra di loro, senza però venire a capo di nulla. Questo è quello che ho capito io. Sul futuro non si sa nulla di preciso.

Ma com’è dal vivo Christiania? Prima di aver letto questo articolo ero andato a vedere di persona. Nel quartiere che le dà il nome, Christianshavn, sorge Freetown, un complesso di edifici in un’area molto verde che ospita un po’ di tutto.

L'ingresso di Christiania

Hippies, straccioni, spacciatori, gente tranquilla e danesi. Mentre una coppia di ragazze deliziose si ferma ad un chiosco per prendere un caffè, dall’altra parte della stradina un signore esibisce la sua cassetta portatile piena di ogni tipo di hashish, con tanto di prezzi, coltello e bilancino. In molti fumano e bevono, ma tutto sommato l’atmosfera è piacevole. Ci si sente “free”, il luogo ispira una totale libertà, in nessun caso ci si sente intimiditi o in pericolo. Ci sono gruppetti di ragazzi che parlano e ridono, bancarelle di chincaglierie e articoli per fumatori (non di tabacco), chioschi di fornai e caffetterie, negozi e case. Teoricamente qui è legale tutto, in quanto il territorio è autonomo o quasi. Non sono riuscito a capire esattamente fin dove possano spingersi, fatto sta che le droghe leggere non sembrano essere un problema. Il tutto è colorato. Muri, panchine, giochi, insegne, pali, tutto è dipinto a festa in stile hippie annio ’70. Certo deve essere stato più colorato negli anni ’70.

Christiania, particolare

Immaginate una Amsterdam un po’ meno legale e in versione rurale, un po’ più colorata, senza le prostitute in vetrina e avrete Christiania. Passeggiando lungo le stradine attorno alle case magazzino dell’ex cantiere scopro anche una mostra sul Tibet. Una “mostra” sul Tibet. Una stanza quadrata di due metri per due con alcune fotografie e qualche volantino. Piccola, purtroppo, però una bella iniziativa. Un commento sullo stato del Tibet e sul diritto e sui requisiti di una Nazione ad essere riconosciuta come Stato sovrano. Il Tibet ha tutto quello che occorre, tranne che un appoggio internazionale. Tibet Libero! Christiania ha anche un lago bellissimo, che la circonda per tre quarti e la “protegge” dal resto della città. Uscendo il visitatore ritorna in Europa, e il cartello di saluto non manca di sottolinearlo.

Il "confine" tra Christiania e Copenhagen


Un letto, una doccia e una lavatrice

Copenhagen, Danimarca, 4 mag 2011, giorno 114, 09:21, ostello

Oggi è una nuova giornata, ed è una nuova giornata che comincia benissimo. Ho fatto una doccia, ho indossato vestiti puliti, appena lavati, e ho fatto una dormita vera in un letto vero. Unico neo della notte è stato un ciccione di Miami che russava come un porco, sembrava una vacca e parlava nel sonno. Parlava davvero, fraasi lunghe, anche complesse. Io e gli altri della stanza ce la ridevamo alla grande. Ah gli ostelli. E’ molto meglio che dormire in aeroporto. Letti veri, lenzuola, docce calde e lavatrici. Una pacchia.

Stamattina mi sono svegliato, ho bevuto il mio Nescafè e ho letto il giornale. Non so perchè ma mi sono venute in mente tutte le persone al lavoro, in ufficio, in fabbrica, gli studenti in biblioteca, a casa, a letto. E’ un pensiero che ho subito scacciato: è presto per pensare a queste cose. Oggi andrò a prenotare il biglietto di ritorno verso Helsinki, andrò in giro per la città e, cosa super importantissimissima, andrò al Lego Store. Mi stavo quasi dimenticando che la Danimarca è la patria dei Lego. Ieri sono stato per caso in un negozietto di mattoncini e mi è venuto male. Ce ne sono un sacco, di tanti temi diversi, molti dei quali non c’erano quando io ero piccolo. A parte i Lego di Harry Potter e quelli di Star Wars, che avevo visto anche in Italia, ci sono anche i Lego Ninja, i Lego antico Egitto, e alcuni Lego pirata che mi hanno fatto prendere in mano il portafoglio e fare un paio di conti. Vorrei avere 10 anni e comprarli tutti e giocarci tutto il giorno. Purtroppo non succederà: primo non saprei dove mettermeli, secondo sono ormai un po’ troppo grande per i mattoncini. Anche se questi sono mattoncini originali del luogo d’origine, anche se l’età alla fine non conta. W i Lego!


Bisogna dire qualcosa

Stoccolma, Svezia, 2 mag 2011, giorno 112, ore 20:35, Mac Donald’s

E’ tanto che non scrivo. Lo so. Da quando sono ritornato in Europa la mia vena letteraria langue. Mi siedo davanti al pc, apro il blog, vado in “Nuovo articolo” e poi fisso lo schermo. Aspetto, magari mi viene; invece niente. Il foglio bianco mi fa paura, penso che sia da riempire e la cosa mi spaventa perchè non ho idea di come farlo. Quando è così meglio chiudere tutto e farsi una passeggiata. Se anche si riuscisse a riempire, quello che direbbe sarebbe inutile e vuoto. La mia teoria è questa: per scrivere bisogna avere il desiderio di avere un foglio bianco sotto al naso. Non è più un nemico, ma una cosa senza la quale si impazzirebbe. C’erano dei momenti in cui mentre camminavo mi ritrovavo in ginocchio sullo zaino a cercare il taccuino perchè dovevo essere assolutamente sicuro di scrivere una cosa, quella cosa, adesso, subito, prima che se ne andasse, prima di scordarla. Potrei citare mille autori che parlano di cose del genere, ma non lo farò. Questa è la mia teoria, gli altri hanno la loro. Il punto è che ho paura del foglio bianco e quindi scrivo meno. Tutto qui.

Il perchè non lo saprei spiegare con esattezza. Ce ne sarebbe da dire; avrei potuto parlare dei musei di Stoccolma, ma mi sembrava di essere una guida turistica. Avrei potuto accennare ai trasporti e alla vivibilità dela città, ma non c’era poi tanto da dire se non che sono, in una parola, perfetti. Potevo dichiarare la bellezza incredibile degli svedesi, ma poi sarei stato accusato di essere un allupato. La verità è che tutto mi sembrava scontato. Google è pieno di siti, guide, blog e commenti su questa città, perchè quindi farlo sbadigliare ulteriormente? E’ il ritorno all’Europa, al conosciuto, alla mia civiltà che mi atterrisce. Oggi un’amica mi ha scritto una mail chiedendomi se c’è differenza, e se si sente, tra l’Asia e l’Europa. Gran domanda, ho pensato, magari ci scrivo su. Sì c’è differenza, eccome, come dal giorno alla notte. Non sto parlando di cibo, comunicazione, servizi o monumenti. Parlo delle persone. Da quando sono in Scandinavia non ho parlato con nessuno. Sono scivolato in silenzio tra le loro città, le loro vie, i loro aeroporti. Ignorato e ignorando. Niente sguardi incuriositi, niente discorsi sui treni, niente “Welcome to Finland”. Niente, freddo come il loro clima. Questa è una cosa che ho sentito, anche se forse c’è voluta quella domanda per farmelo capire. Dopotutto io ci sono abituato, anche in Italia è così. La mattina sali sul treno, o sul bus, o sul metrò, ti infili l’iPod nelle orecchie e maledici la mattina e il fatto di dover andare al lavoro. Se non hai amici con te non parli con nessuno, ti appisoli, pensi ai fatti tuoi. Certamente non attacchi bottone con uno come me. Al ritorno, la sera, è la stessa cosa ma al contrario. Non vedi l’ora di tornare a casa, nella tua sicura e confortevole casa, di fare una doccia, cena e poi a guardare la tv. Il resto è nulla. La nostra casa ha tutto, perchè dovremmo desiderare altro? Tyler direbbe “questa è la nostra vita e sta finendo un minuto alla volta”. E’ questo che intendo quando dico guardare le cose da diverse prospettive. Adesso che non ci sono più immerso, vedo soprattutto la Cina, i cinesi e il loro vivere. Loro non sono come noi, anzi, forse troppo diversi. Sono invadenti, curiosi come bambini. Solo la timidezza li trattiene, ma una volta rotto il ghiaccio la foto scatta garantito. I treni cinesi sono una babilonia, sì, ma una babilonia di uomini che si rapportano, che si incontrano davvero. Sali su un treno che non conosci nessuno, ma non ti infili un iPod nelle orecchie. Primo perchè non ce l’hai, secondo perchè il bello è già lì, intorno a te, negli altri viaggiatori, nei brustolini mangiati e sputati a terra, nelle battute, nelle chiacchiere. Che se ne fa un cinese di un iPod? Cultura di piazza contro cultura di appartamento. Noi che ci chiudiamo nelle nostre case e tutto il mondo fuori e loro che invece non avendo una casa come la nostra se la chiudono alle spalle e poi ci vanno, di fuori. Non so se sarà ancora così quando tutti saranno ricchi e ammaestrati, ma per il momento vincono loro, non le case. Ci vorrebbe una via di mezzo, un compromesso, un sistema che metta in pratica il meglio delle due opzioni. Ma per il momento non c’è. Se in questo falliscono anche gli svedesi, non so proprio che cosa si possa fare.


Come vivere a Stoccolma per 5 giorni con 2000 corone

Stoccolma, Svezia, 28 apr 2011, giorno 108, centro Gallerian

Stoccolma è una città tanto bella quanto cara. I prezzi non sono molto diversi da quelli di Helsinki, anzi, se possibile sono anche più alti. Probabilmente è la moneta differente. Fare la pipì in un bagno pubblico di Helsinki costa 1 Euro, farla a Stoccolma costa 10 Corone, che sono più di 1 Euro. Però il prezzo vale tutto quello che trovi una volta aperta la porta del bagno.

Arrivato qui ero preoccupato per dove avrei dormito. L’autobus che porta all’aeroporto di Arlanda, il più grande della città e quindi l’unico che credo resti aperto tutta la notte, costava 220 Corone. A quel prezzo, doppio, perchè bisogna contare l’andata e il ritorno, tanto valeva stare in ostello. Nella mia situazione, tanto valeva tornare a casa. E invece la soluzione c’è e si chiama Stockholm Card. Con questa carta è possibile visitare tutti i musei di Stoccolma gratuitamente, fare le gite sui battelli, accedere allo Skansen e soprattutto usare tutti i trasporti di Stoccolma gratis. Si può scegliere se farla per 24, 48, 72 e 120 ore. Quando avevo letto per la prima volta di questa carta ero sulla nave. Sono subito sceso all’ufficio informazioni della compagnia e ho chiesto se mi era possibile andare all’aeroporto con questo sistema. Mi hanno risposto di no, e io me ne sono ritornato mesto e sconsolato alla mia cabina. Oggi però, appena arrivato in città, sono andato all’ufficio informazioni turistiche e lì mi hanno detto che se si fa un giro un po’ strano è possibile arrivare in aeroporto senza pagare nulla. Gran cosa, il problema dormire è risolto. Per il mio soggiorno a Stoccolma ho un budget di 2000 Corone. La Stockholm Card per 120 ore costa 895 Corone. E’ quasi la metà del mio budget, però l’unica spesa che avrei in aggiunta sarebbe il mangiare e l’armadietto per lo zaino. Ho fatto un paio di conti e ho deciso di farlo. Adesso mi sento un signore davvero. Ho una suite prenotata sulle panchine dell’aeroporto e una carta che mi permette di fare praticamente tutto quello che volevo fare gratis. Già amo la Svezia. Lo sbattimento per reggere questo ritmo è alto, ma conto di farcela. Non so cosa ci sarà dopo, ma al momento non ci penso. Cenerò, farò una passeggiata e poi me ne andrò all’aeroporto. Spero che sia tanto “casa” quanto lo è stato quello di Vaarta.


Sulla strada

Helsinki, Finlandia, 26 apr 2011, giorno 106, ore 21:40, aeroporto di Helsinki

Non so bene da dove cominciare. Ieri ho dormito in ostello e credo che non lo farò mai più finchè sarò da queste parti. Sì, ho fatto la doccia e ho dormito in un letto, ma i 26 Euro che mi hanno chiesto non li riesco proprio a giustificare. Oltretutto non avevo nemmeno internet, poichè per accedere alla WiFi bisognare pagare altri 5 Euro. Vaarta Airport: internet free, bagni puliti e ottime panchine. Lo zaino lo lascio un po’ negli ostelli e un po’ nei depositi bagagli delle stazioni. Le mie finanze non stanno affatto bene, sono quasi al verde e i prezzi di questi Paesi non sono consoni alla situazione. Oggi ho consegnato il passaporto all’ambasciata russa. Il 6 maggio, salvo imprevisti, dovrei finalmente ottenere il visto russo alla modica cifra di 83 Euro compresa l’assicurazione sanitaria che è d’obbligo avere se si vuole ottenere il visto. Me lo merito, l’ho sudato troppo per non averlo sul passaporto. Fino a quel momento vivrò per la strada, non c’è soluzione. Per mangiare sono ospite fisso di McDonald’s: è il modo più economico per nutrirsi, anche più del supermercato. Eppure questa situazione non è male. Niente check-in o check-out, niente file, niente moduli da riempire, niente documenti. Libero. C’è un po’ di McCandless in tutto questo. Avevo voluto di più, speravo in maggiore libertà, ma i negozi che vendono attrezzature da campeggio hanno una strana concezione della parola “Offerta”, quindi mi accontenterò di quello che ho. Ho anche pensato di iniziare il buisness del riciclaggio. E’ una storia curiosa, ve la racconto.

Mi è capitato in un paio di occasioni di fare spesa al supermercato. Di solito tengo un conto mentale di quello che spendo, ma in entrambi i casi quel conto si è rivelato errato. Pochi centesimi, massimo un Euro, eppure non capivo. L’altro giorno stavo facendo spesa quando ho visto cinque barboni in fila ad una specie di distributore. Mi sono incuriosito e ho guardato quello che facevano. Tutti avevano delle sportine piene di plastica, vetro e lattine che infilavano dentro ad un buco col codice a barre rivolto verso l’alto. In quel preciso momento ho capito perchè tutti i barboni di Riga, Vilnius, Helsinki e Tallinn elemosinavano bottiglie. Anche nei viaggi passati, se un barbone mi vedeva con una bottiglietta quasi vuota mi chiedeva se gliela davo. Non ho mai capito perchè: fino a ieri. Perchè sono soldi! Se un barbone chiedesse degli spiccioli otterrebbe solo rifiuti, se invece chiede bottiglie vuote in molti casi ottiene ciò che vuole. La macchina in cui tutti infilano i rifiuti è in realtà un contatore. Alla fine del lavoro, dopo aver infilato dentro tutte le bottiglie e le lattine, la macchina eroga uno scontrino che i barboni cambiano alla cassa. Ho controllato sullo scontrino e tutto torna. Una bottiglietta d’acqua costa 1,75 Euro. Sullo scontrino viene scritto 1,55 acqua, più 0,20 bottiglia. E’ una cosa geniale. Tanto per cominciare, anche se non ho i dati reali, con questo sistema la città di Helsinki sono sicuro che ricicli almeno l’80% di vetro, plastica e lattine; inoltre i barboni non si mettono a fare l’elemosina, ma sostituiscono in parte i netturbini. E non guadagnano male. 20 cent per ogni bottiglia di plastica e 15 cent per ogni lattina. Per il vetro non lo so, ma credo più che con la plastica. E’ un bel buisness, per uno che non ha nulla, e a quanto ne so è diffuso in tutto il nord Europa, di sicuro in Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania. Anche in Cina, ora che ci penso, vedevo spesso vecchi e barboni che rovistavano nel pattume o che mi chiedevano la plastica. Credo che sia l’unico lavoro del mondo che è lecito fare in nero e senza fatturare. Sono totalmente a favore di questo sistema e se me la dovessi vedere proprio male potrei sempre provare. Scherzi a parte (forse) adesso devo attendere dieci giorni per i documenti. Col fatto che sono in Europa e posso circolare senza passaporto ma solo con la mia carta di identità avevo pensato di andare a Stoccolma. Non che mi aspetti che i prezzi siano più bassi, ma la nave per arrivarci è economica e magari trovo delle soluzioni più pratiche per dormire. Qui, anche se dormo in aeroporto, devo comunque pagare l’autobus che mi ci porta e il deposito bagagli. E’ come pagare un ostello senza avere l’ostello. Cercherò online i prezzi dei collegamenti interni di Stoccolma e se avrò fortuna domani comprerò il biglietto.

Rileggendo quello che ho scritto sembro un incrocio tra lo Scrooge di “A Christmas carroll” e zio Paperone. Non sono tirchio, non è una questione di denaro, è una questione di spazio, di percorso. Quando i soldi saranno finiti del tutto e non potrò nemmo più comprare da mangiare dovrò essere già dalle parti dell’Italia. E che fine farò io? Ho tante altre cose che vorrei fare, tanti altri posti che vorrei vedere. Se per poterli raggiungere dovrò dormire sulle panchine, allora così sia. Sono uno che si accontenta per la sistemazione, ma non si accontenta mai per quello che riguarda la strada, quella da percorrere, quella che è ancora da fare, quella che aspetta. Anche se guardandomi indietro mi rendo conto di averne percorsa tanta, non mi basta mai. Sono un tossico delle distanze, non so che fare. La lezione di Whitman l’ho imparata alla grande e credo che anche Kerouac sarebbe fiero di me. L’importante è andare: il modo di farlo si trova sempre.


Architecture in Helsinki

Helsinki, Finlandia, 26 apr 2011, giorno 106, ore 20:27, aeroporto di Helsinki

Helsinki è la capitale mondiale del design 2012. Oltre ad avere ottenuto questo privilegio, è la città ideale per scoprire la cultura del design. Il Design District è un quartiere di Helsinki interamente dedicato a questo tema. Questo luogo vanta innumerevoli negozi di design, arredamento, abbigliamento, gallerie e musei. Se a questo aggiungiamo anche il museo del design, direi che il titolo menzionato poco sopra è del tutto meritato. Non si può nemmeno sorvolare sull’architettura di questa città. Lo stile è certo quello nordico, linee semplici ma eleganti, però espresso nei vari stili che hanno caratterizzato i diversi periodi. Dal legno all’art nuveau, dal funzionalismo al modernismo passando per lo Jugend fino ad arrivare agli edifici moderni. E’ un crogiolo di storia dell’architettura. Anche evitando i luoghi più celebri, comunque si nota una certa selezione degli edifici. Persino gli appartamenti e i condomini rispecchiano l’amore di questa città per l’architettura. Non sono edifici tirati su tanto per vendere, ma costruzioni studiate, con il loro perchè, su cui spicca subito il ribrezzo per le cose spicciole. Il migliore esempio di architettura moderna è sicuramente il Kiasma, il museo di arte contemporanea di Helsinki. “Il Kiasma, non è un museo, è un’esperienza” recita la brochure. Ero un po’ scettico a riguardo, lo immaginavo come un mero slogan, invece si è rivelato essere verissimo. Nei suoi cinque piani ospita mostre permanenti e temporaanee di scultura, fotografia e installazioni di tutti i tipi. Il modo in cui sono presentate non è quello convenzionale, ma coinvolgono il visitatore in modo unico. Passeggiando per le gallerie si incontrano sì turisti, ma anche studenti di arte e artisti, tutti con l’adesivo blu, che è il biglietto di ingresso, appuntato sulla maglietta. Una tessera annuale per uno studente d’arte residente ad Helsinki costa 12 Euro. E’ una gran cosa, ma anche costasse 100 Euro, se abitassi ad helsinki non ci rinuncerei.

Kiasma Museum, Helsinki

Al di là delle sue attrattive e dei suoi prezzi, la vita ad Helsinki è davvero bene organizzata. I trasporti pubblici ne sono un esempio lampante. Tutta la città è coperta da un servizio di tram e autobus davvero efficiente. Ad ogni fermata c’è un display che indica il tempo d’attesa ed i tempi sono reali: mai un ritardo. C’è anche una linea di metropolitana, innumerevoli piste ciclabili e alcuni traghetti che raggiungono i vari porti della capitale finlandese. Il traffico è molto leggero, i pedoni vengono sempre fatti passare dagli automobilisti e da quando sono qui non ho mai sentito un clacson. Centri commerciali, vie dello shopping e boutique hanno riaperto i battenti dopo le vacanze di Pasqua: la vita c’è, solo che si stava riposando per le feste. Una cosa che invece interessa soprattutto i fotografi è la luce. Sarà lalatitudine, sarà l’inclinazione dei raggi del sole, non lo so, però la luce è fenomenale. E’ sempre morbida, delicata. Rende tutti i colori belli e vivaci. Fare fotografie è un vero piacere. Il sole tramonta molto tardi, ma il suo tramontare, il suo abbassarsi lentamente e dolcemente sul mare, offre una gamma di colori e di effetti che non avevo mai visto. Helsinki è una gran città, piccola ma molto vivibile. Se i prezzi fossero quelli a cui ero abituato in Cina varrebbe davvero la pena farci un pensierino.


La Pasqua

Helsinki, Finlandia, 23 apr 2011, giorno 103, ore 22:41, aeroporto di Helsinki

La Pasqua non si concilia bene con il presentarsi in ostello senza avere prenotato. Avevo deciso di investire denaro in un letto vero e una doccia, necessità di cui sentivo il bisogno. Invece gli ostelli sono tutti pieni per via delle feste. Mi avevano offerto una stanza a 43 Euro, ma ho rifiutato. Così eccomi qui, di nuovo a passare una notte in un aeroporto. Gli ostelli sono completi fino a lunedì. Spero di trovare una sistemazione passabile per domani notte, altrimenti la storia si fa lunga. Avevo pensato anche di passare la notte alla stazione dei treni, ma al sabato sera sembra il ritrovo di tutti i nazisti di Helsinki, quindi ho optato per il caro vecchio aeroporto.

Helsinki sembra una bella città, eppure ha qualcosa che non mi convince. Come al solito è diversa da come me la ero immaginato, eppure questa volta è una differenza che non mi piace. Sembra morta, priva di vita. Forse che dalla Cina mi porto dietro un’abitudine a clacson a tutte le ore, masse di gente e attività frenetiche, eppure qui sembra che in giro non ci sia nessuno, i tram sono quasi vuoti e anche se è sabato sera non c’è una gran mossa per le strade. Però il sole tramonta verso le dieci e oltre, un tramonto lento, soffuso. La luce sparisce piano piano e il cielo si riempie di sfumature. Domani cercherò di fare qualche foto, per stasera cercherò di dormire come meglio posso. Non so perchè, ma ho il terrore che mi caccino fuori. L’aeroporto è piccolo e un tizio conciato come me, senza bagaglio, che si sdraia su una panchina e dorme desta qualche perplessità. Spero anche che non ci sia un orario di chiusura. Se non ci fosse l’aeroporto proprio non so casa farei. Non ho ancora deciso come proseguire. Per ora cercherò di fare arrivare domani, poi si vedrà. E adesso a nanna….


La paura di volare

Urumqi, Cina, 22 apr 2011, giorno 102, ore 20:46, aeroporto

Questa è mondiale. Non so quale forza stia agendo contro di me, ma sta facendo un ottimo lavoro. Il volo doveva essere già partito, e invece sono ancora qui. Perchè? Vediamo.

Aeroporto, check in, controllo personale, controllo passaporto. Qui il primo intoppo. Non capivano perchè non avessi il visto russo e non sapevano dove fosse Helsinki. Finland, Europe. Non c’è stato verso. Hanno chiamato gente istruita, hanno discusso un po’ e poi mi hanno fatto il timbro. Io in mezzo a tutto questo cercavo di darmi un contegno, la sicurezza di chi sa di avere ragione; in realtà sudavo copioso. Ma sono passato. Duty free, breve attesa, imbarco, controllo biglietto, cintura allacciata. Era fatta, ero sull’aereo. Stavo pensando a come dev’essere precipitare quando lo speaker dell’aereo fa un annuncio, per fortuna bilingue: cinese e russo. I cinesi seri, i russi ridono. Poi tutti si alzano e prendono i bagagli. Che succede? Hanno saputo che a bordo c’ero io e hanno sospeso il volo? Io non capivo ma copiavo. Mi sono alzato, ho preso lo zaino e mi sono messo in fila. Poi vedo una hostess e chiedo spiegazioni. Che succede? Perchè scendiamo? Cambio, diceva quella, cambio. Sì ma perchè cambio. Poi una ragazza russa si avvicina e mi dice: “L’aereo è rotto. Bisogna cambiarlo”. Cosa? Cosa? Come rotto? Rotto? Ma non fanno manutenzione? In quel momento mi sono passati davanti tutti gli edifici, gli autobus, le strade, le camere e i muri della Cina, e le condizioni in cui versavano. Di certo i cinesi non sono i più forti sostenitori della manutenzione, ma credevo che per gli aerei ci fossero delle regole. Forse è così, ma al momento non ne sono più tanto sicuro. Già volare non è il mio forte, se si aggiunge anche questo fattore ecco che la sicurezza si dilegua e al suo posto compare la paranoia. Sono in paranoia: l’ultima sfiga che mi rimane da collezionare è precipitare con l’aereo. Almeno sotto c’è la terra, questo mi conforta. Sulla terra si trovano gli aeroporti, e non puoi scegliere luogo migliore per atterrare, anche in caso di emergenza.

Così adesso sono seduto davanti al nuovo gate, il volo è alle 22:30 e io mi crogiolo immaginando tutte le peggiori cose che potrebbero succedere sull’aereo. La mia scena apocalittica preferita è il contatto tra due aerei ad alta quota come si vede in Fight Club. Se dovesse succedere spero di morire di infarto sul colpo, secco, indolore. Ma potendo scegliere spero non succeda. Scriverei ci vediamo in Russia, ma non voglio fare provocazioni a forze oscure o al signor Murphy in persona. Ci vediamo quando ci vediamo.

P.S. Ah, ma poi: perchè ridevano i russi?


Arrivederci Asia

Urumqi, Cina, 22 apr 2011, giorno 101, ore 13:28, ostello

Tra qualche ora avrò il volo. Dopo tre mesi spesi a scorrazzare per l’Asia credo sia il caso di tirare un riga e fare un bilancio. Ho visitato molte città, ho cambiato spesso bandiera e ho sempre lottato contro la burocrazia. Ho conosciuto tante persone, alcune superficialmente, altre più a fondo, ma tutte mi hanno lasciato qualcosa. Ho fatto grande scorta di templi, una scorta che credo durerà per un bel pezzo. Vorrei poter dire di avere imparato qualche lingua, ma questo mi manca. Mi sono sempre scontrato con gli ideogrammi asiatici e per quanto mi sia sforzato, non posso dire di andare oltre le cinque espressioni basilari: grazie, ciao, scusa, arrivederci e prego. Ah, anche “non piccante”, essenziale per il mio quieto vivere. L’Asia mi è piaciuta, è un viaggio da fare almeno una volta nella vita. Ti mette davanti ad un mondo che è totalmente diverso dal tuo, dall’Europa, dalla nostra filosofia di vita. Ho pensato a lungo a quali parole usare per descrivere questa differenza. Credo che ce l’avrei fatta ad esprimermi, se non avessi letto una frase di Terzani. E’ talmente perfetta e giusta, l’ho trovata così vera, che ha assunto per me i caratteri di una definizione. La riporto:

…l’Occidente – diceva – è la cultura intesa come scienza, cioè come conoscenza del mondo attorno all’io, mentre l’io è solo strumento e luogo di pensiero; ne derivano le scienze della natura e dell’osservazione. L’Oriente invece – cioè l’India, perché secondo lui tutto venne da lì anche in Giappone attraverso la Cina e la Corea – vuol dire cultura in quanto ricerca dell’io pensante, il pensiero inteso come pensiero dell’io che pensa se stesso perché l’io non è parte del tutto, ma il tutto. Il distinguere è illusione; il tutto, l’assoluto, è verità. Cercare di distinguere è la via dell’errore. In queste due direzioni – dice lui – il mondo s’è mosso per secoli arrivando a questo pauroso abisso di oggi in cui da una parte c’è l’io che ha dimenticato se stesso nella conoscenza dell’attorno, anzi è diventato schiavo del conosciuto – la civiltà della macchina e la fine dell’umanesimo -; dall’altra parte c’è l’io che ha raggiunto profondità ricchissime e forme di cultura avanzate, ma che, avendo dimenticato la conoscenza dell’attorno, ora muore di fame e ancora di peste e di lebbra…”.

Tiziano Terzani, “In Asia”, pag. 21

Difficile fare meglio di così, anche se a consolarmi è il fatto che quelle sopra citate non sono nemmeno parole di Terzani, ma uno stralcio di dialogo avuto con un personaggio incontrato lungo il suo viaggio. La regola, tuttavia, è chiara: “verba volant, scripta manent”, quindi sono parole di Terzani. Direi che racchiudano tutto ciò che ho riscontrato nella pratica.

Tornando al mio caso, non mi paragono minimamente allo scrittore e giornalista italiano. Non ho conosciuto l’Asia così a fondo, non ho visitato tanti Paesi (di sicuro non tutti quelli che avrei voluto visitare), non ho speso così tanto tempo tra gli occhi a mandorla. Ho giusto dato una spolverata alla superficie e mi sono fatto un’idea, ma sono contento di quello che ho fatto. Guardandomi indietro sono soprattutto contento di essere volato subito in Giappone. Allora la cosa mi indispettì, ma vedendo come sono andate le cose, mi sarei indispettito maggiormente se mi fossi ritrovato impossibilitato ad andarci per via dello Tsunami. E’ una buona lezione: a volte le cose non vanno come vorremmo, ma unendo i puntini scopriamo che in realtà sono andate meglio di quanto non potessimo sperare. E’ un ragionamento che si può fare solo a posteriori, quindi ci vuole del tempo. Anche il fatto che adesso come adesso sia obbligato ad andarmene è una situazione che magari si rivelerà la cosa migliore che mi potesse capitare. Non so cosa farò una volta ad Helsinki, ma non sono affatto triste o scoraggiato. Lo ero quando ho impattato con la realtà delle cose, ma ora, a mente fredda, sono estremamente curioso di scoprire cosa mi riserverà il futuro, fiducioso che sarà bellissimo. Ho qualche progetto, certo, ma voglio aspettare a pronunciarmi di avere tutte le informazioni. Quando saprò, scriverò.

Un’altra decisione giusta è stata quella di non volare direttamente in Cina, ma fermarmi a Taipei e Singapore. Uno sbattimento, per alcuni, una possibilità, per me. Una possibilità di visitare luoghi che normalmente non fanno parte delle mete tradizionali asiatiche. Ho commesso qualche errore in Mongolia, avrei potuto rimanere di più, ma ho dovuto fare i conti con i visti e con il tempo, oltre che con la geografia. Se mi fossi reso conto prima che la Cina confinava direttamente con il Kazakistan avrei agito diversamente, ma a quel tempo non lo sapevo. Un errore stupido, da pivello ignorante, che mi è costato molto caro. Ormai è andata, ma posso assicurare che sarà un errore che non commetterò mai più, a costo di fare come alle elementari e mettermi a scrivere sul quaderno “la Cina confina a sud con….”.

C’è anche un po’ di gioia, non la nascondo, nel tornare in Europa. Oltre alla lingua, sulla quale mi sono già espresso nei post precedenti, c’è anche la questione cibo. Dopo tre mesi di riso, noodles e ravioli, non vedo l’ora di mangiare qualcosa di simile alla mia cucina. Sarà solo molto dura riabituarsi ai prezzi europei e soprattutto finlandesi. Una notte in ostello a Helsinki, nel più economico che abbia trovato, costa 20 Euro. 20 Euro, mi viene male solo a pensarci. Con la stessa cifra in Cina sto in ostello una settimana. Credo che se il collegamento tra il centro e l’aeroporto costerà meno che dormire in ostello, allora dormirò in aeroporto per un po’, come facevo a Hong Kong. Dal mangiare non posso esimermi, ma cercherò di risparmiare il più possibile.

Credo che tornerò da queste parti. Certo un giorno visiterò per bene il sud est asiatico. Inoltre mi piacerebbe tornare in Cina da qui a dieci anni, vedere se il miracolo cinese sarà effettivamente esploso, vedere tutte queste costruzioni completate e vedere come cambierà il loro modo di vivere. Sono felice di aver assistito alle fasi iniziali di questo embrione. Spero per loro che le cose vadano bene per tutti, soprattutto per le zone rurali. Sono curioso di sapere cosa farà il governo per gestire questo divario.

Ci sarebbero anche altre cose da dire e da analizzare, ma avrò tempo una volta tornato a casa, quando potrò osservare questo viaggi da lontano. Salirò sul banco della mia normalità e ricorderò a me stesso che bisogna sempre guardare le cose da angolazioni diverse. Questo è tutto; se non interverranno forze maggiori che impediranno il corso naturale del mio viaggio, il prossimo post sarà scritto dall’Europa. Da Mosca se sarò fortunato o tutt’al più da Helsinki.

Arrivederci Asia, spero non passi troppo tempo per il nostro prossimo incontro. E’ stato un vero piacere conoscerti. Stammi bene.


Epilogo

Urumqi, Cina, 21 apr 2011, giorno 100, ore 19:14, ostello

Ci siamo, la faccenda è conclusa. Sembrava tutto fatto ieri sera; prenotato il volo da casa, una cosa sicura. Poi una mail nella notte cinese (ora di Beijing, come dicono da queste parti) sintomo della difficoltà di dormire dovuta ancora ai pensieri del post precedente. “La prenotazione non è stata confermata”. E con questo siamo a due. Il sonno ha preso poi finalmente il sopravvento e il problema è scivolato tra le ombre di Morfeo. Ma stamattina si è ripresentato. Non mi restava che prenotare in agenzia, a qualsiasi prezzo, per qualunque destinazione che non richiedesse un visto. La Lonely Planet mi segnalava un’agenzia molto a sud del mio ostello. Mi sono messo in marcia, ma dell’agenzia nessuna traccia. Forse aveva chiuso, forse non c’era un’insegna leggibile. L’ho cercata a lungo, ma invano. Stavo per ritelefonare a casa quando mi è piovuto dal cielo un ufficio della Southern Airlines. Non avrei potuto desiderare di meglio. Proprio la compagnia con cui avrei dovuto prenotare dal sito web. Sono entrato e ho chiesto informazioni sullo stesso volo. Parlavano inglese, è stato facile. Mezz’ora e avevo il biglietto. Urumqi – Mosca, sedici ore di attesa in aeroporto e poi Mosca – Helsinki. Ironia della sorte ho anche speso meno che da sito web: 460 Euro solo andata. Avevo il terrore che nell’atto della prenotazione qualcosa andasse storto. Mi aspettavo da un momento all’altro che l’agente mi dicesse “Sorry, it’s impossible” e poi adducesse un motivo qualunque. Dopo tutti i miei guai burocratici ho iniziato a credere ciecamente nella legge di Murphy, ne sono diventato rispettoso all’estremo, quasi riverente. Invece non è successo nulla, ho pagato, ho ritirato il biglietto e sono uscito.
La mia avventura asiatica si concluderà domani, salvo ulteriori imprevisti. Ieri ero piuttosto abbattuto all’idea, oggi però mi sento benissimo, in forma, quasi smanioso di ritornare in Europa. La cosa che mi fa sorridere è che finalmente potrò tornare a parlare con tutti, a leggere i cartelli, a chiedere informazioni a chiunque. Sembra una bazzecola, ma questa barriera linguistica che mi trascino dal Giappone, e che sembra terminerà con l’arrivo a Helsinki, ha avuto il suo peso. Non ci ho pensato fino a che non mi sono trovato davanti questo pensiero, ma sarà bello poter tornare di nuovo ad una comunicazione attiva. Parlavo da solo da troppo tempo, sono andato ad intuito per troppi chilometri. L’inglese tornerà a farla da padrone, ed io ne sono felice. Inoltre la Finlandia mi incuriosisce parecchio. Ho pensato che avrò tante possibilità di itinerario una volta giunto laggiù, anche senza andare in Russia. Insomma, il viaggio è lungi dall’essere concluso. Il problema più grande ora, se di problema si può parlare, è il denaro. Le due prenotazioni mancate mi hanno “mangiato” più di 800 Euro e il biglietto che ho comprato in contanti se ne è portati via altri 460. La mia situazione è questa: sul conto ho 5,24 Euro, ho 300 RMB cinesi in contanti (tipo 30 Euro), 7000 e rotti Tugrug mongoli (4 Euro circa), 135 dollari americani e 5 euro che mi porto dietro da Budapest. Più spiccioli e monetine da mezza Asia. Fine dei miei soldi. Gli 800 torneranno a casa non so quando. Ma contrariamente a quanto si possa pensare non sono preoccupato e non ho chiesto soldi a casa. Mi ritroverò in Finlandia, che è tipo il Paese più sicuro del mondo o comunque sul podio della sicurezza. Sarà una pacchia per me. Se non avrò denaro sarà solo un modo per avvicinarmi a McCandless, un modo per assimilare qualche altra informazione sul suo viaggio e il suo modo di vivere. Informazioni preziose, di cui ho premura, prese in diretta, non da un libro. E ne sento davvero il bisogno di queste informazioni. Ma non voglio fare piani o farmi viaggi inutili. Quando arriverò a Helsinki farò i miei conti e valuterò il da farsi. Fino ad allora aspetterò e basta.

Ingannando il tempo ho scritto al Corriere della Sera. Ho letto un pezzo sulla proposta di cambiare l’articolo 1 della Costituzione. Non mi dilungo nei particolari. Io sono d’accordo, anzi cambierei di più. Ho sentito il desiderio di far sapere alla redazione il mio pensiero e l’ho fatto. L’attesa è lunga e a scrivere il tempo vola. Mi piacerebbe una risposta, ma dalla mia esperienza deduco che non arriverà.

Epilogo: Europa sto tornando. E sono carico.


Christopher McCandless

Urumqi, Cina, 20 apr 2011, giorno 99, ore 04:12, letto

Sono molto turbato. Sono le 4 e 10 e non riesco proprio a dormire. La causa è il titolo di questo post: Chris McCandless. Forse con questo nome nessuno lo conosce, forse dovrei chiamarlo col suo nome da vagabondo, Alexander Supertramp, o forse dovrei solo dire che è il protagonista di Into the Wild, il famoso film. Oggi ho iniziato il libro e non mi sono mosso se non dopo averlo divorato. Mi ha troppo colpito, è stato come un pugno fortissimo alla bocca dello stomaco. Mi ha tolto il fiato. Troppe domande mi ha lasciato, domande alle quali forse non troverò mai risposta. Avevo visto il film già da tempo, ma il libro è un’altra cosa. L’autore è stato davvero bravo, anche se nemmeno lui può conoscere tutte le risposte. Una domanda su tutte, banale ma spontanea: perchè è morto? Perchè, dopo due anni lungo la strada, ha commesso tanti errori? Perchè non ha portato più cibo con sè? Perchè non una mappa, una bussola, un piano B? Io lo capisco. Davvero. Per certe cose sono come lui, anche se in molte differiamo. Io lo so che a volte si prova un esigenza, un desiderio di compiere determinate cose; anche se possono sembrare stupide, pericolose, sciocche: noi dobbiamo farlo. E’ lo spirito dell’uomo, innato in certi individui, selvaggio, istintivo, amplificato dalla giovinezza e se vogliamo dalla stupidità che ne consegue. Lo capisco e non lo giudico. Ma perchè tanti errori? Non voleva morire, di questo sono strasicuro. Uno non scrive “che bello vivere, grazie che esisto” per poi cercare la morte deliberatamente. Perchè non ha seguito il fiume? Era cambiato, voleva tornare. Perchè non seguire il fiume? Perchè non ha esplorato meglio e più a fondo i dintorni? Giuro che questa cosa non mi fa dormire, mi ha rapito, stregato, ossessionato. Un ragazzo in gamba, il tipo che vorresti accanto in un brutto impiccio, intelligente, con anni di vagabondaggio alle spalle come ha potuto morire così? All’inizio ero indignato leggendo delle lettere che gli abitanti dell’Alaska avevano scritto all’autore saputa la storia del giovane. Stupido, inesperto, inadeguato, stolto, impreparato. Ne hanno scritte di tutti i colori. Certe cose però erano vere. Il fucile sì, perchè non una mappa? Aveva un migliaio di dollari quando è partito per l’Alaska. Una mappa. Non gli serviva, non la voleva, conosco la sensazione. Comprala e non guardarla, nascondila. Se sei nei guai la consulti. Perchè non ha fatto le prove di conservazione delle carni? E sì che di tempo ne aveva a disposizione. Ha imparato a lavorare il cuoio, perchè non ha imparato a conservare la carne? Il libro mi ha chiarito il punto delle piante che pare abbia mangiato e lo abbiano portato alla morte. Persino un biologo avrebbe potuto commettere lo stesso errore, che poi di errore non si può parlare. Eppure io vorrei parlargli, dirgli delle cose e chiedergliene delle altre. Ma non si può più ormai. Ho trovato il sito della sorella e le ho scritto. Le ho scritto tante cose e le ho chiesto di poter avere una copia del diario di Christopher. E’ una richiesta enorme, assurda, lo so bene, ma mi sembra l’unico modo per conoscerlo un po’ più a fondo. Non so se mi risponderà, eppure mi è di conforto.

Urumqi, Cina, 20 apr 2011, giorno 99, ore 22:46, ostello

Questo è quello che scrivevo stamattina in preda ad una fervente eccitazione. Nonostante le mie vicessitudini, che sono nulla a confronto, ho continuato a pensare a Chris tutto il giorno. Ho capito forse alcune cose. La mappa, la bussola, l’accetta, erano tutte cose che appartenevano ad un mondo che Chris forse non voleva portarsi dietro. Avrebbero forse corrotto quel mondo incontaminato che voleva scoprire e sfidare. Mi sono messo nei suoi panni e sono certo di supportarlo in questa sua decisione. Ma sorge un’altra domanda. Perchè si è spinto solo in una direzione dopo aver lasciato il Magic Bus nei primi tempi? Ci sono almeno otto punti cardinali che si proiettano su un terreno, se si escludono le quarte, perchè lui ne ha scelto uno, è tornato indietro ed è vissuto da sedentario? E’ una contraddizione alla sua scelta di nomadismo e di contatto con l’ambiente. Se avesse esplorato anche altre direzioni certo avrebbe trovato qualcosa di sgradevole dal suo punto di vista, contatto umano, limitazione di libertà, ma forse avrebbe avuto modo di raccontare poi la sua esperienza. Sento che c’è una spiegazione, so che qualcosa gli è passato per la mente, qualcosa che noi non sappiamo, che non ha confessato alla carta e forse nemmeno a sè stesso. Un motivo inconscio che lo ha condotto dove sappiamo. Gli sarebbe bastato attraversare il fiume per ritrovare la vita. Provo un desiderio impellente di vedere il luogo con i miei occhi. Vederlo con gli occhi della mente non è sufficiente. Magari si arriva lì e si scopre che l’esplorazione non era fattibile, o magari che la bellezza e la natura del luogo inibivano la preoccupazione e la curiosità. Un biglietto per Fairbanks, Alaska, dalla Cina costa 900 Euro, troppi per me. Confesso che, vista la mia situazione, era una soluzione che avevo preso in considerazione. ipotesi però scartata per via del mio budget. McCandless non aveva budget. Lui sì che era ricco davvero. Estremamente ricco, un’ estremista anche in questo. Questa mattina ho scritto anche una mail ad un caro amico che sapevo avesse letto il libro per sfogarmi e avere un altro parere. Vorrei riportare un passaggio della sua risposta:

“Per me dovresti vederlo cosi’, Chris, come un profeta, che con il suo destino, magari seguendo una meta che non ha nulla a che fare con la tua, ha guidato la tua vita nel cercare il tuo di destino. Per me non dovrebbe importarti sapere se ha deciso di fare quel che ha fatto perchè gli si era tappata una vena nel cervello, o perchè era morbosamente innamorato di Jack London e voleva testare con mano il wild descritto da London come “la saggezza dell’eternità che irride alla vita”, o perchè detestava la società e le sue regole cosi’ tanto che la sua priorità era diventata quella di allontanarsi il più possibile da questa. Poi veniva il resto. E non ti dovrebbe interessare nemmeno il perchè dei suoi errori. Il suo messaggio, o meglio quello che hai voluto capire del suo messaggio, ti è arrivato forte e chiaro, é un bellissimo messaggio e per me ti conviene concentrarti su questo”. D.V.

Sono parole bellissime e giuste. Quello che ha fatto Alexander Supertramp è stato fornire un’alternativa a quello che sappiamo, un esempio, una guida per spronare quelli che secondo Guccini soffrono di “una morte un po’ peggiore”. Sebbene credo che non fosse questo il suo intento, sebbene io ritenga che abbia fatto tutto per sè stesso, questo è quello che ci rimane. Io ne sono consapevole, eppure non mi basta. Devo capire. Se fosse difficile, o troppo complicato, lascerei perdere. Qui non c’è nulla di complicato, è solo un lavoro di indagine su prove insufficienti, ed il fatto che le prove siano tali non mi dà pace. Quanto vorrei poterci parlare. Ho anche pensato a lungo alla morte e a come sia mezzo di immortalità. E’ una conseguenza empirica, pur rivelante una certa vena di giustizia, ma se muori in circostanze non comuni, fuori dalle morti convenzionali accettate dalla società, allora quest’ultima si interessa di te più che da vivo. Il tuo sacrificio, anche se involontario, ti conserva. Gli uomini custodiscono e analizzano la tua storia e ti innalzano al ruolo di immortale. Finchè la tua storia è viva nella memoria collettiva, allora tu vivi in loro. E’ l’unico modo, seppur tragico, che io conosca per raggiungere tale stato. Achille docet.

Vorrei che chi leggesse questo post e avesse delle opinioni personali le lasciasse in commento. Sento davvero la necessità di confrontarmi con qualcuno su quest’uomo e la sua storia. Spero che la sorella mi risponda, ma non ci conto troppo. Sebbene siano passati tanti anni, credo che riceva migliaia di lettere come la mia. Eppure ci spero. Vorrei approfondire l’analisi, ma non ho elementi. Per celebrare la memoria e lo stile di Chris ho lasciato anche io un segno del mio passaggio in questo ostello, con un pennarello blu sul muro della mia camera. Non è nulla, ma mi ha fatto capire la sensazione. Ed è una bella sensazione.


I cento giorni

Urumqi, Cina, 20 apr 2011, giorno 99, ore 19:39, ostello

Una via di uscita l’ho trovata, anche se non è decisamente la cosa che desideravo. Per tentare comunque tutto di visitare la Russia non mi resta che prendere un volo. Stoccolma e Helsinki sono le due mete migliori, come prezzo e posizione. Ho chiesto a casa di provare a contattare l’ambasciata russa a Roma per sapere se ho bisogno del visto di transito anche solo per quelle che sarebbero sedici ore di attesa a Mosca. Il volo per Helsinki, la mia prima scelta, comporta uno scalo di una notte nella capitale russa. Sedici ore di attesa e poi un altro volo per la capitale finlandese. Da lì poi proverei ad ottenere questo tanto sofferto documento per poi tornare in russia da uomo pseudo libero. E Tallin, idilliaca Vecchia Guardia, è comunque vicinissima. In caso tutto ciò non fosse possibile ci sarebbe un volo per Stoccolma. Nessuno scalo in territorio russo, andrei a Pechino per poi tornare in Europa e cimentarmi nella stessa impresa sopra citata. Comunque vada, credo di poter ufficialmente annunciare il termine della mia avventura asiatica. La Wellington-burocrazia ha vinto. Si torna in Europa, non c’è nulla da fare. Non ne sono entusiasta, non sono pronto. L’unico aspetto positivo è che una volta rientrato nei confini dell’Unione Europea, non avrò più nessun problema di transito. Russia a parte, naturalmente. Ho le mani legate. Tutto quello che potevo tentare l’ho tentato. Si torna verso casa, verso l’Italia, in una maniera che mai avrei creduto possibile. Ho fatto degli errori? Se sì, quali? Sicuramente qualcosa avrei potuto fare, ma al momento non saprei dire cosa. Certo le coincidenze contro di me sono state tante e ripetute, ma forse se avessi avuto più informazioni, più esperienza, magari tutto questo si sarebbe potuto almeno aggirare in qualche modo. Ma ormai è tardi. Con un po’ di tristezza e tante perplessità mi avvio verso la strada di casa. Entro 24 ore dovrei risolvere tutto, con l’aiuto da casa.  I tanti andrò dei miei progetti si sono trasformati oramai in avrei potuto andare. Lo sconforto domina. Mi preparo per la mia Sant’Elena sperando si trasformi in un’Elba. Una pausa triste prima dei gloriosi cento giorni. E i miei cento giorni di viaggio scadono domani.


Collasso burocratico!

Urumqi, Cina, 20 apr 2011, giorno 99, ore 13:47, ostello

Urumqi è Waterloo e io mi sento Napoleone. Ecco la situazione.

Mentre andavo all’ambasciata kazaka con un taxi mi è venuto in mente una cosa che avevo dimenticato da tempo: il mio visto cinese. A Lanzhou era tutto ok, ma lì ho perso quattro giorni per aspettare il treno. Ho controllato e ho scoperto con rammarico che scade il 24 aprile. Forse ce la faccio, ho pensato, dipende dai kazaki. All’ambasciata era un inferno. Decine di persone accalcate davanti all’ingresso, come animali. Non si capiva nulla. Stavo per rinunciare quando il fato mi ha mandato un angelo: un cinese che parlava inglese, forse il primo che abbia mai incontrato per strada. Mi ha detto che con il mio passaporto potevo entrare evitando la fila, ha sbraitato per dileguare un po’ di calca e sono entrato. Prima di condurmi dentro mi ha accompagnato in una copisteria e mi ha fatto fare le fotocopie del passaporto necessarie per poter ottenere il visto. E’ stato la mia salvezza. Una volta entrato anche i funzionari kazaki si sono rivelati squisiti oltremisura. Parlavano quasi tutti inglese, uno addirittura qualche parola di italiano. Mi ha fatto piacere risentirla, pur con un accento strano. Purtroppo le notizie non erano quelle che mi aspettavo. Cinque giorni lavorativi ci vogliono per il visto, e non è prevista alcuna procedura di emergenza. E’ stata il primo colpo della giornata, e non sarebbe stato il più duro. Esco e valuto la situazione. La cosa migliore da fare è andare all’ufficio cinese ed estendere il visto, ho pensato. Ho preso un altro taxi e mi ci sono recato. Anche qui, all’interno era un putiferio. Anche qui, sorpresa ironica, ho trovato tutti i funzionari che parlavano inglese. Le brutte notizie mi sono arrivate ben chiare all’orecchio. Chiedo informazioni sull’estensione del visto. La procedura richiede cinque giorni e un sacco di carte di cui non ho capito bene la natura. Non ho cinque giorni, e anche se li avessi questo vorrebbe dire attendere ad Urumqi per almeno 15 giorni lo sbroglio di tutta la matassa burocratica. Impensabile. Secondo colpo. Sono ad un punto morto, non posso nè restare nè andarmene. La mia mente, almeno una parte di essa, ha iniziato a pensare cose inutili. Tutte cominciavano con “E se…”. E se ci fosse stato il posto sul treno a Lanzhou? E se fossi andato a Xian anzichè a Xining di ritorno dal Tibet? E se non mi fossi ammalato? E se fossi rimasto in Mongolia coi ragazzi francesi un’altra settimana? E se avessi avuto quattro giorni in più. Quattro giorni e ce l’avrei fatta. L’altra parte del mio intelletto mi diceva che era inutile recriminare il passato e piagnucolare sul presente. Non fa altro che appesantire una situazione già abbastanza pesante. Le cose stanno così: adesso bisogna rimediare. La Thailandia è un’ipotesi da scartare. La fortuna vuole che all’ambasciata kazaka abbia incontrato due belgi che mi hanno informato di non essere stati in grado di ottenere il visto kazako in India. Forse la lontananza dal confine implica le stesse regole che valevano per me a Budapest. Quindi andare in Thailandia non mi serve per tornare a casa lungo il mio itinerario. Potrebbe rivelarsi solo uno spreco di denaro, esperienza a parte. Non sono povero, ma le mie finanze sono in quel momento delicato in cui non bisognerebbe commettere errori. Altrimenti si deve andare a prestito e io non voglio farlo. Voglio fare quello che posso con quello che ho.

La mia sola soluzione è l’aereo, scelta obbligata in questo frangente, ma anche qui le notizie non sono affatto buone. Avevo pensato di prendere un volo per Tallin, Estonia. Da qui avrei potuto ottenere, se la memopria non mi ingannava, un visto russo e salvare un minimo del mio itinerario. Il volo Urumqi – Tallin costa 1500 euro. Fuori budget. Mi sono allora ricordato che mentre andavo in Giappone ho fatto scalo ad Helsinki. Qui ho letto una pubblicità: “Helsinki Airport, your gate to Asia”. Ho cercato un volo per Helsinki, che confina con la Russia ed è ad uno sputo da Tallin. Il volo costa 470 euro. Perfetto! E invece no. La compagnia è la Aeroflot, la compagnia russa, e il volo fa scalo a Mosca. Io non ho il visto russo e non è possibile ottenere nemmeno un visto di transito all’aeroporto. Almeno secondo il sito del ministero degli esteri. terzo durissimo colpo. Il mio morale è ai minimi storici e ho finito gli assi nella manica. Forse ci sono altre soluzioni, ma al momento mi sfuggono. La soluzione estrema è un volo per Bologna, ma non mi sento pronto. E’ successo tutto troppo in fretta, troppo inaspettatamente. Pensavo di avere ancora almeno un mesetto, e invece esiste la concreta possibilità che io abbia un’ottantina di ore prima di essere costretto al rimpatrio. Ho mandato una mail all’ambasciata russa in Italia, ma da quanto mi ricordi non sono celebri per le loro celeri risposte, e io ho tutto fuorchè il tempo. Proverò a cercare altri voli, altre compagnie. Oggi pomeriggio andrò a cercare delle agenzie di viaggio, ma temo che la situazione ormai si sia delineata. Sono davvero in un cul-de-sac. Tuttavia non mi sento ancora sconfitto. Il mio spirito sognatore sente che interverrà qualcosa a trarmi d’impiccio, ma è solo una vocina. Intanto però applicherò al tempo rimasto il più grade proverbio che sia mai stato inventato: “Aiutati che il ciel t’aiuta”. La situazione è intricata. Se qualcuno legge questo post e ha soluzioni alternative non esiti a contattarmi. Stavolta ho davvero bisogno di una magia. L’avventura asiatica forse è giunta al termine. Spero solo con tutto il cuore che non sia anche la fine del viaggio. E’ troppo per il novantanovesimo giorno. Attenderò gli sviluppi del pomeriggio.


Le città della Cina

Urumqi, Cina, 19 apr 2011, giorno 98, ore 22:25, ostello

Urumqi. Con i suoi 2250 chilometri di distanza è la città più lontana da un oceano sulla Terra. Passeggiando mi chiedo quanti di quelli che mi circondano e mi guardano abbiano mai visto il mare o mai lo vedranno in vita loro. Urumqi. La mia porta di accesso al Kazakistan o alla Thailandia. Dipenderà dai burocrati, anche se per quello che riguarda la Thailandia sarebbe un piccolo escamotage. Con un aereo si va dappertutto da qualunque punto di partenza. Qui ci sono molte persone non orientali, senza occhi a mandorla per dirla spiccia. Deduco che siano kazaki o kirgiki o discendenti tali. I cartelli hanno tre lingue: cinese, cirillico e arabo o farsi, non li distinguo. L’inglese qui è una lingua morta. I musulmani erano già tanti a Lanzhou, ma qui i cappellini bianchi sono quasi la prassi. Le moschee sostituiscono lentamente ma inesorabilmente i Buddha e i templi. Mi mancheranno. Sebbene sia arrivato da non più di dieci ore, ho già capito a grandi linee di che cosa si tratta. E’ la Cina B. Ho sviluppato una teoria. Le città della Cina hanno tre categorie: A, B e C. Le città di categoria A, come ad esempio Beijing, Xian, Chengdu, immagino Shanghai, Hong Kong, sono città effettivamente moderne, con servizi “all’europea”, con monumenti e attrazioni degni di essere visitati. Hanno storie da raccontare, carattere, personalità. Sono città che rispecchiano il secolo in cui viviamo, almeno dal mio punto di vista, dalla prospettiva di un europeo che vive in Italia. La Cina B è diversa. Sì, è una Cina che ha l’apparenza della sorelle di categoria A, ma se analizzata da vicino presenta molte differenze. I suoi grattacieli, le sue strade, i suoi cantieri fanno pensare ad una città moderna, ma riflettono una crescita in atto, un potenziale sviluppo che non è ancora avvenuto. Sono timide, sciatte, a volte pompate dall’urbanistica governativa.  Sono più indietro di qualche decennio, ecco tutto. Non trovi tutto, non hai tutti i servizi, c’è poco di concreto da assorbire. Hohhot, Lanzhou, Xining, Guangzhou, Urumqi ne sono alcuni esempi. E’ una Cina che rincorre le capoliste, una Cina da metà classifica che arranca per cercare di raggiungere la zona Europa. E non solo metaforicamente parlando. La Cina C, in ultimo, è quella prettamente rurale. E’ la Cina in cui i contadini vanno in città per vendere le uova, in cui le donne girano coi cesti di vimini attaccati ad una canna di bambù, che non ha molte linee elettriche, che lavora i campi senza trattori o macchinari, la Cina che è povera e arretrata. L’ho vista poche volte, per lo più durante gli spostamenti, e quelle volte che l’ho incontrata sulla pelle (un esempio il post “Uomini e topi” o “Il popolo che ride”) ha avuto effetti a volte da sogno, a volte da incubo. Ma così è la Cina, almeno la Cina di oggi vista con i miei occhi. Urumqi. Speravo in una città A, ma mi dovrò accontentare di quello che ho.

Cercavo una qualche guida per il Kazakistan, ma non ve n’è traccia. Ho frugato in tutte le librerie intenazionali, due, ma niente. Qualunque sia la mia prossima meta, dovrò arrangiarmi senza guida. L’ho già fatto, ma era diverso. Avrei voluto valutare qualche opzione, se fosse stato meglio il Kazakistan o il Kyrgyzstan, ma dovrò andare a naso, seguire l’istinto. La Lonely Planet, o una qualunque concorrente, non è ancora arrivata da queste parti. Di attrattive non ce ne sono molte e spero che domani all’ambasciata mi diano buone notizie sia per quello che riguarda i tempi di attesa, sia per la fattibilità della faccenda: il visto per il Kazakistan. Sono abbastanza tranquillo, ma se dovessero esserci dei problemi sarei fregato. Un cul-de-sac. Di tornare in Mongolia per poter arrivare in Russia non se ne parla. Sono dall’altra parte del Paese, dovrei tornare a Beijing, fare il visto mongolo, arrivare a Ulaanbaatar, aspettare venti giorni un visto russo da 150 dollari americani e poi andare a Mosca. Mi fregherei comunque il Kazakistan. No, l’unica speranza è che l’ambasciata non faccia storie e faccia presto. Un’altra opzione che immagino possa esserci è quella di arrivare ad Almaty in aereo e fare il visto in aeroporto, ma non so se il Kazakistan lo concede. Mi informerò. Per il momento non posso far altro che andare a dormire in questo ostello che non è dei migliori che abbia frequentato di recente. Le stanze sono accettabili, ma i bagni è come se non ci fossero. Ricordano quelli di una discoteca italiana alle sei di mattina. Non credo che mi laverò spesso. Spero sempre di più che l’ambasciata faccia presto e non faccia storie.


Euge VS la Thailandia

Lanzhou, Cina, 17 apr 2011, giorno 96, hotel

E’ un po’ che non scrivo. Ciò, tuttavia, non significa che me ne sia stato completamente con le mani in mano. In questi giorni di dolce far niente la mia mente si è accanita su un punto: la Thailandia. E’ un po’ che mi frullava in testa l’idea di andarmene un po’ al mare. Dopo quasi cento giorni di viaggio, avrò ben diritto ad un po’ di riposo. La Thailandia mi era sembrata la meta perfetta. Economica, suggestiva, calda e con uno dei mari più belli del mondo. Ho cominciato a guardare in giro qualche sito e ho scoperto con meraviglia che per arrivarci bastavano poche centinaia di euro. Sono stato un bel po’ a pensarci. Andare in Thailandia significava cambiare completamente location, vestiario, equipaggiamento, significava buttarsi in un nuovo Stato senza avere la minima idea di cosa aspettarsi. Era troppo bello per non farlo. Così, ho caricato la Postepay e ho prenotato. La risposta non mi è piaciuta subito. “La prenotazione NON è confermata. Stiamo verificando. Attendi una mail di conferma”. Preferisco la Ryan, o la Tiger, o la Jetstar. Loro ti danno subito il biglietto. Volagratis no. Così attendo, faccio una doccia, mi faccio dei viaggi mentali e finalmente arriva la mail. Sorry mister, niente biglietto. A quanto pareva c’erano stati dei problemi di comunicazione, non era possibile contattare la compagnia e un altro po’ di bla bla. Poco male, penso, cambierò sito. Tornai così a fare ricerche, rendendomi però subito conto che i prezzi più competitivi erano sul sito che mi aveva rifiutato la prenotazione. Ci ritorno, cambio date e riprenoto. “La transazione presenta degli inconvenienti”. Hummm, e questo cos’è? Insospettito dalla parola “transazione” controllo il saldo della Postepay: i soldi non c’erano. Ah, i cani. Prendono i soldi e non mi danno il biglietto. Approfittando di una chiamata a casa, chiedo al quartier generale di chiamare il sito al numero verde e domandare qualche chiarimento. La risposta non tarda ad arrivare. “Bla bla bla, ci vogliono dai due ai dieci giorni per il riaccredito”. Ecco fatto. Mentre la mia immaginazione mi proiettava già sulle bianche spiagge thailandesi, la tecnologia bancaria mi inchiodava a Lanzhou. E per fortuna che non mi ero fatto ancora rimborsare il biglietto del treno per Urumqi, altrimenti sì che sarei impazzito. Non far nulla è bello, ma preferisco muovermi. Così, riassumendo, la situazione è la seguente. Domani andrò a Urumqi e inoltrerò domanda per il visto Kazako. Se questo visto è come tutti gli altri da me richiesti, avrò una finestra di entrata di almeno un paio di mesi. Questa finestra mi fornirebbe tutto il tempo necessario per la mia visitina in Thailandia. Da Urumqi il volo per Bangkok costa ancora meno che da Lanzhou, quindi se riuscirò a prenotare e se il visto non mi creerà problemi, avrò tutto il tempo per volare tranquillo al sole dei tropici. Dalla Thailandia poi, se avrò il visto, potrò rivolare in Kazakistan ad Almaty e da lì proseguire la mia strada verso casa. In teoria è tutto bello e facile, in pratica possono andare storte un sacco di cose ancora. Quindi non faccio piani, mi limito ad improvvisare, anche se devo ammettere che sto già pensando a dove procurami un costume da begno e della crema solare. La mia testa è molto più veloce della burocrazia e della tecnologia messe insieme. Si vedrà!