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Archive for March, 2011

Un po’ di numeri

Xi’an, Cina, 31 mar 2011, giorno 79, ore 17:09, ostello

Alle 22:30 ho il treno per Lanzhou. Nell’attesa ho fatto un po’ di conti. Ho rispolverato il mio taccuino e, tramite un sito che ho trovato per caso, ho calcolato quanta strada ho fatto finora.

Da quando sono partito da Bologna, secondo il programma del sito, ho percorso in totale 24.810 chilometri. Più della metà dell’ipotetica circonferenza dell’intero pianeta. Questi 24.810 km sono da suddividere: 16.892 in aereo, 6.884 in treno e 1033 in autobus. Tuttavia bisogna dire che il sito mi ha calcolato le distanze in linea d’aria, e non seguendo le strade o le rotaie. Inoltre non ho contato i piccoli spostamenti o le escursioni per motivi pratici. Per l’aereo non è un gran problema, il dato è attendibile, ma riguardo al treno e all’aereo ho seri dubbi in proposito. Non credo proprio che 6.884 km sia un dato accettabile, men che meno i soli 1033 km di autobus. Ho anche fatto una mappa approssimativa del mio percorso.

Mappa al 31 mar 2011Non è molto accurata, come d’altronde non lo sono i chilometri, però dà un’idea. Ho calcolato anche quanto mi è costato ogni singolo chilometro. Ponendo di avere speso 3300 Euro in 79 giorni di viaggio (anche questo dato non è affatto certo in quanto dovrei controllare gli estratti conto per esserne sicuro), ne risulta che ogni chilometro mi è costato 0,133 Euro. Direi di essere stato abbastanza bravo, contando che i chilometri dovrebbero essere molti di più. In quei 13 centesimi è compreso tutto: trasporti, cibo, dormire, visti e tutti gli extra. Ciò per dare un’idea generale di quanto può costare un viaggio del genere e, per paragone, di quanto occorra spendere per viaggiare come indipendenti.

Viaggiare da indipendenti che è impossibile in Tibet. Oggi sembra che finalmente si arrivata la risposta definitiva. La mia agente di Chengdu mi aveva fatto un prezzo troppo alto, quasi 500 Euro per 8 giorni di viaggio. A questa notizia, arrivatami in serata, ero molto abbattuto, ma non mi sono dato per vinto. Ho tirato fuori il mio taccuino e ho scritto email a quasi tutte le persone che ho incontrato in questo viaggio, chiedendo aiuto o informazioni riguardo alla mia prossima meta. Fortunatamente Theo mi ha risposto e mi ha dato la mail di un altro ostello di Chengdu che organizza viaggi in Tibet. Li ho contattati e questi mi hanno risposto quasi subito. Morale della favola, sarebbe un tour per tre persone, io e una coppia di non so dove, al prezzo di 300 Euro. Non è il massimo, ma rispetto ai 500 che mi avevano fatto supporre è una gran soluzione. Attendo le istruzioni per il pagamento e intanto mi avvicino al tetto del mondo. La prossima città, Lanzhou, sarà solo a 1600 m s.l.m., ma già a Xining, la seconda tappa, sarò a 2275 m s.l.m. Da lì andrò a Golmud, 2800 m s.l.m. e “soltanto” 800 m di differenza di altitudine da Lhasa. In questo modo non dovrei aver problemi di mal d’altitudine. Purtroppo non posso fare nulla riguardo alla burocrazia. Sono nelle mani di persone che non ho mai visto e che spero si rivelino oneste almeno la metà di quanto mi abbiano fatto supporre. In fin dei conti, a me basta arrivare. Una volta lì, tour o non tour, sono sicuro di riuscire ad arrangiarmi. La sorveglianza, però, è stratta, talmente stretta che una volta finito il periodo di soggiorno che hai concordato con l’agenzia di viaggi, o ti portano al confine Nepalese o ti fanno salire su un treno diretto in Cina. Non ti mollano un attimo. Queste sono le notizie che ho da qui. Una volta arrivato finalmente in Tibet,  mi renderò conto se siano cose serie o robe per turisti.


Tibet, ma quanto mi fai penare?

Xi’an, Cina, 29 mar 2011, giorno 77, ore 18:24, ostello

Scrivo di nuovo in diretta. E’ il secondo giorno che sto qui e ho ricevuto solo brutte notizie. La mia agente di viaggi si trova a Chengdu. E’ una ragazza che non ho mai visto, si chiama Angie e il suo contatto me l’ha dato Alex, il ragazzo che ho conosciuto a Yangshuo. Ho lasciato la Mongolia convinto, dalle sue parole, che mi sarebbe bastato arrivare a Lhasa e avrei trovato tutto pronto: documenti, permessi e tour. Non è così. Le notizie sono cambiate. Dapprima sembrava che non ci fossero abbastanza viaggiatori per organizzare un tour, poi sembrava che bastasse aspettare fino al 7 di aprile per poter procedere. Una mail di ieri sera mi avvertiva che invece alcuni avevano rinunciato e quindi si tornava al punto di partenza. Oggi, secondo l’ultima mail, dopo aver cambiato alcune tappe dell’itinerario del tour, mi riconfermano il 7 aprile come data per essere a Lhasa. Sembra buono, se non fosse che l’ostello di Xi’an mi ha avvertito che domani dovrò sgomberare, poichè hanno delle prenotazioni che occupano tutte le stanze. Fantastico. Devo far passare 10 giorni e non ho idea di dove andare. Potrei iniziare l’avvicinamento a Lhasa e quindi ad abituarmi all’altitudine, se non fosse che dopo Lanzhou la Lonely Planet mi avverte non esserci nulla degno di nota. Solo paesini sonnecchianti e piuttosto noiosi. Come se non bastasse Angie mi ha appena avvertito che il pagamento dei suoi servizi può essere effettuato solo tramite bonifico bancario. Non avendo idea di come si debba procedere, credo che mi toccherà andare a Chengdu a pagare di persona. E’ un bello sbattimento. Sono un sacco di chilometri buttati al vento. Tuttavia, se non troveremo un compromesso o una soluzione alternativa, sarò costretto ad andare laggiù. Tanto più che da domani sarò in mezzo ad una strada. Nell’attesa di conoscere le sorti del mio futuro, impiego il mio tempo in due modi: leggo Terzani e cucio. Già, il mio guardaroba comincia a subire le ingiurie del tempo e della trascuratezza. Il risultato è che sono disseminato di buchi dappertutto. In Mongolia avevo comprato un set da cucito per sistemare la giacca che avevo comprato. Essendo il nipote di una sarta, ho richiamato alla mente le immagini che da bambino accompagnavano i miei pomeriggi: mia nonna che cuciva e io che la imitavo. Devo dire che sono un sarto discreto. Non un fenomeno, ma i miei rattoppi reggono alla grande. Calze, pantaloni, scarpe. Tutto è sistemato e chiuso. Esteticamente non è il massimo, ma non ho grandi pretese. Il set non comprendeva nè ditale nè forbici, ma ho scoperto che un accendino può sopperire a queste mancanze senza problemi. Taglia e spinge come se fosse stato creato apposta per queste funzioni. Mi chiedo come mai non sia un’accessorio standard di ogni corredo. La faccenda di Terzani è un po’ più complessa. Per chi non sapesse chi sia, è stato un giornalista italiano che ha speso gran parte della sua vita a contatto con l’Asia e con gli asiatici. Potremmo dire che ha fatto quello che sto facendo io, solo per più tempo e su distanze più larghe, senza contare che, come è ovvio che sia, è arrivato molto più in profondità di quanto non stia facendo io. La sua presenza si è inserita nel mio viaggio con prepotenza, senza che io abbia fatto nulla di particolare per richiamarla. E’ iniziato tutto con Facebook. Un giorno stavo curiosando sul sito quando ho letto di una mostra a Roma che riportava le fotografie di un certo Terzani e dei suoi viaggi in Asia. Non ne avevo mai sentito parlare, così l’ho Googlato e ho guardato la sua pagina di Wikipedia. Poi è morta lì. Se non che un mio amico, senza che io gli chiedessi nulla, mi ha inviato alcuni dei suoi libri, mentre un’altro mio amico mi ha pubblicato un link di una sua intervista su Youtube. Allora mi sono messo a leggere. Una gran penna e una gran persona. Mi piacciono i suoi libri, in alcune cose mi ci immedesimo e alcune altre avrei potuto benissimo scriverle io (forse meno bene). L’unica cosa che mi dispiace è che sia morto. Avrei voluto contattarlo in qualche modo, magari andarlo atrovare se fosse stato ancora in India, chiedergli consigli, racconti, cose così. Invece mi dovrò accontentare di quello che c’è. Dei suoi libri, della sue esperienze su carta. Magari un giorno qualcun altro leggerà delle mie.


Un giovane e un vecchio

Treno Erlian – Hohot, 26 mar 2011, giorno 74

Sempre su quel treno ho incontrato un giovane. All’inizio mi è parso cosa da nulla, un giovane come tanti. Però parlava inglese, così ci siasmo messi a chiacchierare. Era curioso, come tutti del resto, e voleva sapere come si viveva in Europa. Gli ho raccontato la mia vita, Modena, il lavoro che al momento manca e i piani inesistenti del mio futuro. Ascoltava come se fosse una fiaba. Mi ha detto che in Cina c’è tanta povertà e che a molte persone piacerebbe fare quello che io sto facendo: un viaggio per scoprire cosa c’è di là dall’orizzonte. Ciò mi ha aiutato a capire tanti di quegli sguardi meravigliati che spesso accompagnano le mie spiegazioni. Io, dalla mia, gli ho detto che in Europa si fa tanto parlare della Cina e del suo imminente sviluppo. Gli ho detto che in questa Cina che scorre dal finestrino del treno, io rivedo le foto della mia Italia degli anni 50 e 60, le immagini in bianco e nero del nostro miracolo economico. Il miracolo cinese è qui, sta succedendo, credo, quindi basta solo avere pazienza. Mi ha detto che le mie parole lo hanno cambiato, perchè aveva sempre creduto che noi vedessimo loro come dei poveri senza niente da offrire. Verità e stereotipo. Gli ho paarlato degli amici che ho incontraato nel mio viaggio, di come tanti di loro in questo momento stiano studiando la lingua cinese in vista di un futuro utilizzo. “Ma non hai paura? La tua famiglia non ha paura che tu sia qui da solo?”, mi chiede. Perchè paura? Da quando sono qui non mi è mai accaduto nulla di male. Ho solo incontrato amici e persone gentili e ospitali. I cinesi sono poveri, forse, ma non rubano. E nella loro povertà hanno qualcosa che noi europei abbiamo un po’ perso: il rapporto umano. Se sei cinese e sali su un treno, automaticamente sei amico con tutti. Ci si scambia cibo, parole, sorrisi e scherzi. In Europa non è così, e in questo voi siete molto più ricchi di noi. “Tu sei ricco”, mi ha detto. Non credo proprio. “Non parlo di soldi, ma di vita. La tua vita è ricca”. Lo spero, ho risposto. Siamo andati avanti così e oltre fino all’arrivo a Hohhot. Qui il giovane mi ha chiesto se potevamo fare una fotografia. Non so cosa gli abbia detto, quali delle mie parole lo abbiano così toccato, fattostà che quando ci siamo scambiati gli indirizzi email era quasi commosso. Felice. Il mio incontro, o forse le mie parole, devono averlo profondamente scosso, perchè ad un certo punto ha tirato fuori 100 Youan e me li ha offerti dicendomi “Anche se io non ho niente, questi te li voglio dare. Perchè credo che quello che tu stia facendo sia bellissimo e io voglio supportarti”. Mi ha fatto venire i brividi. E’ un gesto di grande portata, soprattutto se proveniente da un ragazzo di nemmeno vent’anni. Naturalmente ho rifiutato, 100 Youan sono 10 euro per me, ma tanti soldi per lui. Gli ho detto di non prenderla male, di non reputarla un offesa, ma non potevo proprio accettarli. Il solo fatto che me li avesse offerti valeva per me tutto il denaro del mondo. Ci siamo salutati lungo la strada dopo che mi aveva fermato un taxi. Mi ha guardato andare via salutando col braccio alzato. Io ho risposto al saluto dal vetro posteriore del taxi. Felice, ricco e sempre più ricco.

Hohhot, Cina, 27 mar 2011, giorno 75, ore 16:00, piazza

Al momento di lasciare l’ostello di Hohhot la ragazza al bancone mi chiede aiuto. Un vecchio che sembrava parente di Mao voleva sapere delle informazioni che la ragazza non era in grado di fornire. Gli chiedo cosa desiderasse e lo osservo attentamente. Era asiatico, di aspetto, con lunghi capelli bianchi e una barba bianca anch’essa, e lunga e sporca come se ci avesse mangiato sopra. Portava abiti consunti, della foggia tipica del viaggiatore di lungo corso. Una camicia a quadri rossi sdrucita e pantaloni con le tasche laterali grigi. Ai piedi scarpe da trekking vecchie almeno quanto lui. Aveva occhiali spessi come fondi di bottiglia che tradivano una forte miopia e alle orecchie un apparecchio acustico. Parlava un inglese abbastanza fluente, sebbene reso irrequieto dal tono tipico di alcuni anziani. Voleva sapere se avessi una guida della Cina, poichè avendo perso la sua, non aveva più gli indirizzi degli ostelli lungo il suo percorso. Gli chiesi, troppo incuriosito per badare all’educazione, la provenienza e l’eta. Mi disse di essere giapponese e di avere sessantanove anni. Poi prese ad illustrarmi il suo percorso. Mi disse di essere da lungo tempo in giro per la Cina, di volere andare in Tibet e poi in Mongolia, per poi arrivare in Russia e proseguire in treno fino a San Pietroburgo. Poi, una volta raggiunta la città degli zar, avrebbe deciso se ritornare in Asia o proseguire alla volta dell’Europa. Mi sono subito immedesimato nel personaggio. Mi sono visto alla sua età a fare quello di cui mi ha detto. Contando che io lo sto facendo a ventisei anni e che ci sono dei giorni che proprio mi sento esausto, sia per lo sbattimento che per la fatica, mi sono chiesto se mai potessi averne le forze una volta raggiunta la sua età. E invece lui stava lì a copiare gli indirizzi come un mio coetaneo, con la stessa meticolosità che avrei usato io se fossi stato al suo posto: tanta strada da fare senza una guida. E’ stato un incointro stupefacente. Ho pensato a lungo a quel vecchio. Ad essere sincero ci penso ancora, ogni volta che sollevo lo zaino o che aspetto in coda. Penso che bisogna essere proprio in gamba per compiere un’impresa del genere, a quell’età e su quella distanza. Mi riprometto di provarci anche io, sebbene quell’età mi sembri ad anni luce da questo momento.


Erlian

Erlian, Cina, 26 mar 2011, giorno 74, ore 12:45, piazzale della stazione e treno a seguire

Erlian sembra costruita come un outlet. Vie tutte uguali con case tutte uguali in uno stile che ricorda tanto un outlet. Tre lingue per ogni cartello: cinese, mongolo e cirillico. L’inglese è lontano quanto l’aramaico, come avrò modo di scoprire. Dopo aver salutato Tyler che mi scarica in paese, fermo un bonario signore e gli chiedo di accompagnarmi alla stazione dei treni. Il tizio inizia a pedalare e io mi accomodo nella cabina formata da quattro lamine di plastica e tenute insieme coi cavi elastici. Ad un certo punto il biciclettatore si ferma davanti ad una fila di baracche di legno, si volta verso di me con un ghigno beffardo e inizia a battere ripetutamente la mano sul pugno chiuso indicandomi con lo sguardo le pittoresce costruzioni. E’ un bordello, intuisco, la versione Erliana della via a luci rosse di Amsterdan. Solo senza bionde. “Hei straniero, vuoi farti una sbirba?” “No, grazie” “Mo come no? Mo guarda che sventole” E le sventole, forse incuriosite dalla scena, in effetti si affacciano dalle porte e sorridono. Sorrisi ammiccanti cinesi. Una serie discreta delle più luride bagasce che si siano mai viste. Il quadretto è così invitante che farebbe scappare un marinaio appena sceso a terra dopo un giro del mondo. Faccio segno al buon uomo che sono a posto così e quello, ridendo come una iena, torna a pedalare alla volta della stazione.

La bigliettaia non parla inglese. Niente, zero. Le dico dove voglio andare e quella mi dice sempre no. Datong? No. Beijing? No. Xining? No. A me andava bene una qualunque destinazione verso sud. Alla fine sono riuscito a strappare un biglietto per Xian con un cambio in un posto di cui non avevo assolutamente idea. Dove? Chiedevo, e quella mi rispondeva in cinese e vedendo che non capivo, me lo scriveva, sempre in cinese, per farmelo leggere. Studia l’inglese, mi dicevano, che da grande ti servirà dappertutto. Dappertutto. Salito sul treno verso la destinazione ignota ho scoperto due cose: la prima, che la mia meta era Hohhot, la seconda, che quella gentilissima signorina della biglietteria mi aveva dato un biglietto per il posto a sedere. Volevo piangere. Il viaggio durava nove ore. Nove ore in una carrozza stracolma di gente seduto in una fila da tre e al centro. Ho quasi pianto. Ho giurato a me stesso che appena sceso a terra mi sarei fatto scrivere in cinese “Letto, non posto a sedere”. Siamo partiti subito male. Io avevo addosso la giacca pesantissima che avevo comprato per ripararmi dai meno venti di Ulaanbaatar. Nella cabina ci saranno stati 25 gradi e una quantità di polvere tale per cui i bambini giocavano con la sabbia tra i seggiolini. Non c’era spazio per mettere la giacca se non tre posti più in là e non mi fidavo. Di cosa, poi, ora non saprei dire. Lo zainetto era in mezzo alle gambe mie e di altre cinque persone e io grondavo sudore come se mi avessero buttato addosso una secchiata d’acqua. Stavo impazzendo. A un certo punto mi sono tolto la giacca. La odiavo troppo, alla faccia della fiducia. L’ho buttata da una parte e un tipo ha cominciato a guardarla molto attentamente. “La vuoi?” gli ho detto “E’ tua!”. Un cinese sui cinquant’anni è sceso due stazioni dopo con una giacca mongola che gli stava a pennello. Fine della mia giacca nuova. Però ero felice, respiravo e avevo una cosa in meno a cui pensare. Questa scenetta aveva attirato l’attenzione degli astanti su di me. Tutti mi guardavano, sentivo sulla pelle che fremevano dalla voglia di chiedermi delle cose. Quando non ce l’hanno più fatta a resistere credo che si siano interrogati su chi avesse dovuto parlarmi. Hanno scelto una ragazza (devo dire che spesso sono le donne quelle che parlano meglio l’inglese e che hanno il coraggio di fare le domande) e quella ha cominciato l’intervista. Ho tirato fuori la guida della Cina e ho elencato loro tutti posti in cui sono stato, dal Giappone fino a quel treno e di quello che avrei ancora dovuto fare. Un pubblico attento e affamato di sapere, sguardi meravigliati e sorrisi hanno accompagnato il mio momento di celebrità. Più tardi avrei scoperto il perchè di quelle grida di meraviglia, ma questa è un’altra storia. Dalla via che il ghiaccio era rotto, si sono lasciati andare tutti e hanno cominciato a chiedermi di fare delle foto. Certo, sono qui apposta. E via di cellulari e compatte, abbracci, sorrisi e altri scatti perchè i primi non erano venuti bene. Quanta umanità in tutto questo. Sono salito sul treno come uno straniero e grazie a niente sono diventato “Italia”. L’uomo che incontra l’uomo come se fosse la prima volta, e lo scopre diverso ma allo stesso tempo amico e simile. Non lo accoglie con la paura, ma con un sorriso. E devo dire che in questo viaggio di sorrisi ne ho collezionati tanti, talmente tanti che quasi non so più dove metterli. E ne voglio ancora. Momenti preziosi ai quali è impossibile dare un valore. Il solo stringere le mani e incrociare lo sguardo con persone che non ho mai visto e che molto probabilmente mai più rivedrò. E c’è più sincerità e affetto e amore in quelle mani e in quegli occhi sconosciuti che in certi rapporti che si coltivano per una vita. Questa è la vera ricchezza; non il denaro, o le auto, o le ville, o i gioielli. No, questa, l’umanità. L’amore del tuo prossimo che è insito e radicato in lui da tempi immemorabili. Sono ricco, seppur vestito di cenci, con pochi soldi in tasca, sporco e seduto in un lurido vagone. Ma vivo, vivo davvero. Thoreau diceva: “Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza e in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire in punto di morte che non ero vissuto“. Whitman scriveva: “E io o tu, senza dieci centesimi in tasca, possiamo acquistare i piu’ preziosi frutti della terra…”. Io quelle ricchezze le ho avute sì per niente, ma in un vagone e non in un bosco. Le ho succhiate e assaporate tutte fino all’ultima briciola e non ne sono ancora stanco, nè credo che mai lo sarò. Tutti i luoghi della Terra sono niente senza le persone che li abitano. Ma ritorniamo su quel treno. Ho offerto in giro un po’ di sigarette e gomme da masticare mongole. Ne hanno preso tutti e tutti mi hanno dato qualcosa. Brustolini, caramelle, tè e biscotti. Un tipo mi voleva regalare un wurstel piccante, ma a quello mi sono opposto. Non mi sento ancora abbastanza dei vostri per mangiare quella roba, raga. E poi il piccante mi fa male.


Il Confine

Zamin Uud, confine mongolo-cinese, 26 mar 2011, giorno 74, ore 7:15, stazione dei treni

Le mie paure di non trovare un mezzo per passare il confine sono state smentite subito. Dopo appena qualche passo sul binario, una folla di autisti mi è venuta incontro per offrirmi i loro servigi. Ho scelto l’autista più brutto e l’ho seguito dopo avere chiesto il prezzo: 5 con le dita. 5 mele? 5 euro? Tugrug, Youan, cammelli. Non sapevo. Alle elementari la maestra mi ha insegnato a specificare sempre l’unità di misura. Forse qui non hanno maestre come la Grazia. Immaginavo 5000 Tugrug, ma è saltato fuori essere 50 Youan. 5 Euro circa per passare di là dal filo spinato. Il parcheggio della stazione è pieno di jeep e quella del mio autista è una Toyota. Mi accomodo e inizio a riempire i moduli che trovo sul sedile e sparsi per tutto l’abitacolo. Nella mia fanciullesca ingenuità di viaggiatore europeo mi guardo intorno e penso: “cinque posti, cinque persone”. Non è così. Uno dopo l’altro si intrufolano nella jeep tante di quelle persone che sembra di essere in una puntata di “Scommettiamo che…”. Alla fine ci ritroviamo in undici più l’autista, che nel frattempo è cambiato. Non male per quel certificato che omologa il veicolo per cinque persone, ma qui non ci badano. Chi nel baule, chi fra il cambio, chi in braccio ad altri ci stiamo tutti. Tutti tranne la comodità. Per quella proprio non c’è spazio. Nelle ore di fila che precedono il mio ingresso in Cina (ce ne sono volute tre e mezzo, alla faccia della Lonely Planet che diceva che si faceva prima) mi ritrovo ad osservare il nuovo autista. Mi ricorda troppo Tyler Durden. Almeno la sua versione mongola. Occhiale da sole a specchio, giacca di pelle blu e stivali di pelle rossi. E’ solamente meno figo di Bradd Pitt, ma il personaggio c’è tutto. Inoltre è abile nel suo lavoro. Con i suoi sottoposti è severo e secco negli ordini, ma con le guardie è docile come una vacca al pascolo, sorride sempre e ammicca con tutti. E la jeep avanza tra la folla. Una colonna umana che attende il controllo documenti mongolo, passa la terra di nessuno con ogni mezzo e rifà la coda per il controllo passaporti cinese. Sembra di stare in un film. Le guardie hanno le stelle rosse sul colbacco, i ladri le jeep. Land Rover, Land Cruiser, jeep russe e giapponesi. Nessun europeo, al solito. Certo, qui c’è solo autentico volgo. Gli europei sono ricchi, pagano di più e il confine lo passano in treno. E’ una bella esperienza. Mi fa capire come si sta dall’altra parte della tv. Non siamo in zona di guerra o in presenza di clandestini, ma a parte questo è uguale alle immagini dei telegiornali. Stipati all’interno di un mezzo e poi in fila per il verdetto. Puoi passare. Oppure no. Io sì. Welcome back to China!


La Religione

Ulaanbaatar, Mongolia, 23 mar 2011, giorno 71, ore 16:05, ostello

Bene o male credo di essermi fatto un’idea generale di tutte le religioni più importanti. Nel corso dei miei viaggi ho avuto a che fare con ogni sorta di Cristiani, Musulmani, Buddisti, Shintoisti e quant’altro. Tra chiese, moschee e templi, non voglio passare certo per un esperto di teologia, quale non sono, ma c’è una cosa che devo dire accomuna tutti questi credi: tutti gli Dei hanno bisogno di soldi. Che siate in un tempio buddista, in una cattedrale cristiana o in una moschea musulmana, avrete sempre la possibilità di comprare la grazia del vostro Dio preferito tramite offerte e donazioni. E’ una cosa incredibile. Se siete musulmani e vi recate in pellegrinaggio a Istambul alla moschea blu, potrete fare un’offerta alla moschea che verrà certificata con una ricavuta. Una ricevuta. Questo forse perchè possiate farne sfoggio con i vostri amici una volta tornati a casa, per dimostrare loro che bravi musulmani siete,  oppure perchè quando creperete, nel caso la vostra sorte fosse incerta e Allah avesse perso la matrice, voi potrete mostrare la vostra ed assicurarvi così un posto in paradiso. Sempre che i vostri parenti abbiano messo la ricevuta nella tasca del vostro abito funebre. I buddisti, invece, sono più per il divertimento legato all’offerta. Nei templi giapponesi e cinesi è possibile cambiaro denaro contante con dischi di ferro o monete da gettare a volte all’interno di un cerchio, a volte contro una campana. Se fate centro o fate suonare il cembalo, la fortuna è assicurata. Sono procedure discutibili, fanno pensare quasi ad una tangente, ma non è questa la cosa che più mi sconcerta. Ciò che mi lascia allibito è il fatto che io abbia visto più e più volte individui poverissimi donare al Dio di turno alcuni di quei pochi denari che possedevano. Gente affamata e malvestita che anzichè impiegare il denaro per la vita corrente, lo impegna per la vita futura. Ho visto straccioni donare frutta e biscotti in Cina e monaci ben pasciuti sgranocchiare quegli stessi biscotti tra una preghiera e l’altra. Perchè diciamolo: Dio non mangia i biscotti, ma i monaci sì. Teoricamente Dio non ha bisogno nè di casa, nè di denaro, nè di servi, perchè colui che ha creato il mondo, gli uomini, il bene e il male, potrà anche fare a meno del denaro, dico io. Se proprio è ingordo potrebbe crearselo da sè. Ma le istituzioni religiose no. Non ne ho mai viste rifiutare le offerte, non ho mai visto monaci o sacerdoti dire ad un fedele “No, sei troppo povero. Questi soldi tienili tu. Dio capirà”. O Dio non capisce oppure non gli importa. Perchè il flusso di denaro è a senso unico. Non ho idea di come l’autorità ecclesiasitica impieghi il denaro. Certo non per coloro che lo donano, se non in minima parte. Se la parrocchia di Buddha di Ulaanbaatar impiegasse il denaro delle offerte per donare una domenica un aratro al signor Rossi che ha rotto il suo, un’altra domenica per pagare le medicine al signor Bianchi che non può permettersele, allora capirei. Sarebbe un trionfo di umanità. Persone che seppur povere si aiutano a vicenda tramite la mediazione religiosa. Sono oltremodo sicuro che se funzionasse così, nessuno farebbe offerte e tutti si precipiterebbero a recriminare miseria alla porta del tempio. Se non si ottiene nulla, doniamo tutti. Se si riceve qualcosa, ci catapultiamo ad arraffare in massa. La stupidità umana nella sua forma migliore. Ma non c’è da preoccuparsi, è una cosa impossibile a verificarsi. Il Signore dà false speranze e riceve denaro sonante. E’ senza dubbio la truffa più grande della storia. Sì, perchè essendo il premio finale la vita eterna dopo la morte, l’unico modo per scoprire se davvero esiste un Dio e un paradiso e un inferno è quello di crepare. E io non ho mai visto un morto presentare reclamo all’ufficio della curia. Davvero ben pensata. Ripenso a quelle due anziane che mi hanno superato sulle scale del monte Wudan per arrivare al tempio d’oro posto sulla cima per dire una preghiera e donare a Buddha una latta da venti litri d’olio. Venti chili trascinati a fatica sul monte da due settantenni per permettere a Buddha di friggersi i noodles. Non mi metto a parlare dei Cristiani e del Papa perchè non ho abbastanza spazio in wordpress e perchè sarebbero pixel troppo bollenti. Anche qui, però, non è che vada meglio. Se qualcuno volesse approfondire la faccenda denaro – Chiesa, consiglio il libro “La questua”, di Curzio Maltese. E’ un libro che fa incazzare, ma fa capire. Sull’esistenza di Dio consiglio quello di Richard Dawkings “L’illusione di Dio”. C’è perplessità, in me, dopo questa riflessione. Parlando di dottrina pura e semplice, ogni religione ha insiti in sè dei princìpi di valore che sono propri di ogni uomo. Belle parole, chi più chi meno. I cristiani e i musulmani sono tifosi troppo sfegatati nei confronti del loro Dio. Non avrai altro Dio all’infuori di me e Allah è l’unico Dio e Maometto il suo profeta. Qualcuno si sbaglia. Ma i buddisti sono più filosofici, più aperti alle opinioni diverse. Quasi una democrazia in un mondo di totalitarismi. Ma quando si parla di soldi sono tutti una grande famiglia, una famiglia di bisognosi che accetta denaro da chiunque e in qulunque modo. C’è chi compra vestiti, chi automobili, chi parlamentari e chi un posto in paradiso. Non sono ancora riuscito a trovare delle risposte nella religione. Quei princìpi così bene espressi nelle parole che le costituiscono cozzano irrimediabilmente con i comportamenti di chi le professa. A conti fatti è quasi meglio credere in Google: anche lui è onnisciente. E anche lui accetta denaro sonante.


Scusa, hai detto Tibet?

Ulaanbaatar, Mongolia, 22 mar 2011, giorno 70, ore 16:20, ostello

Mi è arrivata la mail che tanto aspettavo: il Tibet è aperto, e sembra lo sia dal 18 di marzo. Sono felice e credo che me ne ritornerò in Cina dopodomani. Domani andrò all’ambasciata Kazaka per sapere se possono farmi il visto. In questi due giorni ho avuto un sacco di informazioni. L’agenzia che mi ha detto Manuel mi ha garantito il visto russo per 130$ americani e in dodici giorni lavorativi. Sono 25$ in meno dell’altra agenzia e in più ho un’assicurazione sanitaria mongola per l’intera durata del visto, cioè 21 giorni. Se le cose dovessero andare per il meglio, una volta giunto a Novosibirsk scenderei dalla Transiberiana per dirigermi verso il Kazakhistan e Astana. Lì farei richiesta per un nuovo visto russo e poi mi dirigerei su Mosca. Spero che la burocrazia, per una volta, non mi crei problemi. Ma torniamo al Tibet. Per motivi di ristrettezze economiche non posso permettermi il treno diretto Ulanbaatar – Beijing. Prenderò invece un treno nazionale per Zamyn-Uud, attraverserò il confine in autobus, in jeep o in autostop, e da Erlian prenderò un altro treno nazionale per Beijing. Il diretto costa 80 euro, la soluzione a tappe 30. E’ un bel risparmio ed è il modo in cui i ragazzi francesi sono arrivati a Ulaanbaatar. Una volta arrivato a Beijing prenderò il treno per Xian, e da lì proseguirò con un altro treno per Xining. Qui sosterò alcuni giorni per abituarmi all’altitudine e poi via, verso Golmud, una delle città più elevate del mondo. Un altro paio di giorni e poi, finalmente, il Tibet, Lhasa. Essendoci solo, “solo”, 800 metri di differenza di altitudine tra Golmud e Lhasa, con questo metodo non dovrei avere nessun tipo di problema per quello che riguarda il mal d’aria. Se dovessi avere qualche capogiro, Luciano, un argentino che ho incontrato a Beijing, mi ha detto di mangiare un po’ di cioccolato e tutto passa. E’ il metodo che lui usa quando vola in Perù dall’Argentina. Quindi direi che sia tutto. Il mio equipaggiamento da montagna/freddo è a postissimo. Gli scarponi mi fanno un po’ male, ma credo che riuscirò ad abituarmi. Passare da un paio di Nike ad un paio di anfibi militari sovietici richiede pazienza. Però il Tibet ha riaperto, il resto non mi interessa.


Freddo, burocrazia e strategia

Ulaanbaatar, Mongolia, 21 mar 2011, giorno 69, ore 16:27, ostello

Di ritorno dalla mia avventura in mezzo alla steppa, la prima cosa che ho fatto è stata andare al gabinetto. La seconda è stata una doccia calda.  Sono quelle piccole soddisfazioni che ti riempiono la vita. Una volta vestito mi sono messo alla ricerca di un equipaggiamento invernale serio. I primi negozi che ho visitato, quelli del centro città, avevano prezzi da Italia, quindi non li ho presi nemmeno in considerazione. La mia unica altra alternativa valida era il mercato nero, così ci sono tornato. Mi sono diretto subito nella zona che avevo visto essere ricca di articoli di mio interesse, e una volta trovato una bella giacca militare mongola imbottita mi sono messo a contrattare. La contrattazione in mongolo non è il mio forte, quella in inglese non è il loro, così ci siamo basati sul linguaggio universale delle transazioni commerciali: i numeri. I cellulari sono una grande invenzione, in questo caso, perchè ti permettono di capire e di farti capire. Basta scrivere quello che vuoi pagare come se fossero numeri di telefono. Non mi ci è voluto molto per trovare tutto quello che mi serviva. Una giacca imbottita, un paio di stivali e un paio di guanti. Il tutto per meno di 35 euro. I pantaloni non li ho trovati, ma dovrei cavarmela in qualche altro modo. Sulla via di ritorno mi sentivo euforico. E’ incredibile come la sensazione di calore cambi il tuo modo di approcciarti a qualsiasi cosa. Adesso non solo non ho più freddo, ma ho anche l’aspetto di un mongolo. E loro sembrano apprezzare.

Ritornato all’ostello ho fatto un’altra grande scoperta che potrebbe cambiare tutto il proseguimento del mio viaggio. In un’agenzia di Ulaanbaatar, consigliatami dai ragazzi francesi, ho scoperto che posso ottenere il visto turistico per la Russia per 155 dollari americani e aspettando due settimane. Niente code, fogli, assicurazione sanitaria; niente. Solo soldi. Questa è una grande notizia. Come se non bastasse, controllando la posta ho trovato un messaggio di Manuel, l’italiano che ho incontrato sul treno per Ulaanbaatar, nel quale mi diceva che presso la sua agenzia sarei in grado di ottenere persino il visto per il Kazakistan. Questo vorrebbe dire che al mio ritorno potrei fare quasi tutto quello che non ho fatto all’andata. Grandi notizie. Devo ancora verificarle di persona, ma sono pittosto fiducioso, poichè le fonti sono valide. Se tutto si rivelerà essere così come ho detto, tornerei presto in Cina, andrei in Tibet e in Nepal e poi me ne tornerei a casa felice e contento con la transiberiana. Sarebbe l’epilogo degno di un viaggio del genere. Incrocio le dita.


A come Avventura

Ulaanbaatar – Terelj (55 km N di Ulaanbaatar), 19-20 mar 2011, giorno 67-68

LA PARTENZA

Mi sono messo sulle tracce dei francesi come un cane. Prima di lasciare Ulaanbaatar non sapevo nemmeno quale fosse la nostra destinazione. Terelj, piccolo villaggio al centro di un grande parco nazionale. La Lonely Planet ci dava un autobus in partenza alle 16:00. Se per caso doveste capitare da queste parti non state a perdere tempo a cercarlo: o non c’è o è introvabile. Ci siamo messi a domandare a chiunque. Chi non sa, chi dice che è qui, chi dice che è lì, chi dice che è dall’altra parte della città. Non lo abbiamo trovato. Abbiamo provato allora a chiedere un passaggio ad un minivan, ma volevano troppi soldi. Nessuno si muoveva per meno di 50.000 Tugrug. Stavamo per abbandonarci all’autostop, uno dei metodi più diffusi per viaggiare attraverso la Mongolia, quando un taxi ci racoglie e ci dice che ci avrebbe portati per 30.000. Ci accontentiamo. Saliamo in macchina e uno dei ragazzi francesi mi dice “Our adventure begins!”.

L’ARRIVO

Dopo circa due ore di viaggio attraverso strade dissestate oltremisura, arriviamo a Terelj. Neve, ghiaccio, monti, qualche casa, tante iurte e ancora neve. Il tipo della macchina cambia idea e ci chiede 40.000 Tugrug. Non esiste, noi non cediamo e alla fine gliene diamo 33.000. Un euro in più non fa differenza. Non facciamo in tempo a fare un passo nel paese che subito tre mongoli a cavallo ci avvicinano e ci chiedono se vogliamo dormire a casa loro. Chiediamo il prezzo per dormire, mangiare e andare a cavallo per tutto l’indomani. La trattativa è difficile, il loro inglese è pessimo e il nostro mongolo inesistente. Si contratta in dollari americani, “No mongol money”, e si scrivono le cifre della transazione sulla neve. Riusciamo a strappare un gran prezzo. 4$ per dormire, 4$ per pasto e 10$ a cavallo. Siamo contenti. Ci rendiamo conto che i nostri ospiti sono tutti ubriachi. Non sarebbe un gran problema, se non fosse che per raggiungere la iurta bisogna montare a cavallo con loro. Montiamo in due, un mongolo e un europeo per ogni cavallo. Loro hanno le redini, le staffe e metà sella. Noi abbiamo solo l’altra metà e fatichiamo non poco per restare in equilibrio. Il mio compagno ad un certo punto cade. Non crdo che sia stata la posizione scomoda, credo che fosse troppo sbronzo per restare in sella. Il mongolo, tuttavia, non fa una grinza. Si alza, tira un calcio al cavallo e rimonta in sella. Dopo dieci minuti di cavalcata arriviamo a destinazione.

Terelj

LA IURTA E IL PASTO

Le iurte mongole sono tende, in sostanza, ma non hanno nulla a che vedere con quelle che usiamo in Europa per andare in campeggio. Sono piuttosto vere e proprie case mobili. Hanno una porta in legno e una stufa a legna al centro, quattro letti, un tavolo e quattro sgabelli e hanno un raggio di circa tre metri.  Si sta come in ostello, forse meglio. La stufa diffonde un calore che è una bellezza a sentirsi e lo spazio non manca. Dopo una mezz’ora portano la cena. Si tratta di Goulash mongolo, un piatto a base di riso con carne di non so che tipo e cipolle. Siamo tutti affamati e divoriamo il pasto come lupi.

Io davanti a una iurta

I FRANCESI

Non potevo desiderare di meglio per questa gita. I ragazzi francesi si sono rivelati essere compagni di viaggio formidabili. Si parla del più e del meno, della vita in Francia, di quella in Italia, dei viaggi fatti e dei piani per il futuro. I ragazzi hanno anche con loro una scacchiera da viaggio, così la sera trascorre tranquilla. Una partita a scacchi ai confini del mondo civilizzato. La stufa ha un solo problema: bisogna alimentarla. Se si è svegli, è facile, ma durante la notte è un inconveniente. Ci siamo svegliati tutti per il freddo circa tre volte, e ogni volta abbiamo riacceso il fuoco. La temperatura all’esterno sarà stata al di sotto dei meno venti, quindi la iurta priva del fuoco è impossibile da vivere.

Gli avventurieri

IL FREDDO

La mattina ci svegliamo e ci prepariamo per la cavalcata. I ragazzi francesi, saggi, hanno comparto a Beijing il loro equipaggiamento invernale. Tute da sci, giacche a vento, guanti da sci e scarponi impermeabili. Io mi presento con le mie Nike, una calzamaglia di pile e una tuta e la giacca cinese che ho comprato a Kaiping. Uno dei miei guanti ha raccolto un tizzone ardente durante la notte e ha il pollice bruciato. Un barbone e due professionisti. A posteriori, forse, sono stato un pazzo ad affrontare ciò di cui dirò in seguito senza un equipaggiamento adeguato, ma ad Ulaanbaatar mi sentivo in grado di fare tutto. Qui però non eravamo ad Ulaanbaatar. Basti pensare che pochi minuti dopo essere usciti dalla tenda, la mia barba ed i miei baffi erano sempre completamente ghiacciati. Coprirli con la sciarpa è stata un’idea stupida, perchè una volta sciolto il ghiaccio, quindi diventao acqua, dopo pochi istanti ad essere ghiacciati sono sia la barba che la sciarpa. Per riempire le nostre bottiglie ci siamo fatti portare dell’acqua bollita, evitando così i germi mongoli. Pensavo che non sarei riuscito a bere acqua fresca per almeno un paio d’ore, invece dopo aappena mezz’ora, non solo l’acqua era freschissima, ma all’interno della bottiglia era possibile vedere alcuni pezzi di ghiaccio. Non ho mai provato un freddo simile in tutta la mia vita.

Freddo

I CAVALLI

La prima cosa che ci hanno detto i mongoli sui loro cavalli è stata “Mongolian horse crazy”. Nessuno di noi tre aveva mai avuto esperienza coi cavalli. Nonostante gli avvertimenti, i mongoli ci fanno montare e ci abbandonano un po’ a noi stessi. Due cose ci insegnano (se è possibile utilizzare questa parola): per fermare il cavallo tira le redini verso di te e per farlo muovere dagli una pacca sul sedere gridando “CHOW”. Tutta qui la lezione di equitazione. In meno di cinque minuti, secondo loro, siamo in grado di partire. Va detto che i mongoli ci tengono che i loro cavalli camminino, e per essere sicuri che lo facciano, oltre ad aizzarli con le grida utilizzano calci, schiaffi e bastonate. Folkloristico, ma quando stai avanzando e il mongolo da dietro sprona il tuo cavallo senza che tu ne abbia la minima idea, allora diventa tutta un’altra storia. Il mio cavallo, per fortuna, è abbastanza tranquillo. Essendo io un grande fan del film “L’uomo che sussurrava ai cavalli”, ho speso un sacco di tempo a parlare al mio cavallo e ad accarezzargli il collo. Forse parlare in inglese ad un cavallo mongolo è una cosa abbastanza inutile, ma non ho mai avuto problemi con lui. La stessa cosa non si può dire dei ragazzi francesi. Uno di loro è stato disarcionato, mentre l’altro ad un certo punto ha perso il controllo del cavallo e si è fatto una galoppata non desiderata. Quando l’ho raggiunto mi ha detto di non avere mai avuto tanta paura in vita sua. La sella è di cuoio e dopo appena un’ora diventa insostenibile. Il culo fa male e, a causa del moto del cavallo, anche la schiena comincia a subire. Non essendo abituato ai movimenti, metto tutta la mia forza nelle gambe e sulle staffe, quindi anche le gambe dopo un po’ cedono. Ma il paesaggio vale tutto questo. Un’area totalmente incontaminata. Neve, alberi e pendii rocciosi a perdita d’occhio. Mi sento un sacco avventuriero a percorrere a cavallo queste terre. Siamo tutti su di giri per questa esperienza, io e i ragazzi francesi, ma dopo tre ore il freddo ha la meglio. Giuro che ero strasicuro che avrei perso almeno un paio di dita dei piedi. Non sentivo più nulla dalla vita in giù. Le gambe paralizzate, i piedi inesistenti. Avrebbero potuto tagliarmeli che non avrei sentito alcun male. Il mio pollice, scoperto a causa del tizzone, era violaceo. A nulla è servito tenerlo tra i crini del cavallo. Bisognava tornare, non c’era soluzione. Una volta rientrati nella iurta ci siamo mesi vicini vicini attorno all stufa che quella brava donna di casa mongola aveva mantenuto accesa durante la mattinata. Ci viene servita una zuppa di carote e quant’altro con alcuni ravioli cinesi e riso. Io ero talmente affamato che avrei mangiato del legno. Il pomeriggio, di nuovo sui cavalli, è stato molto meglio. Il freddo era meno pungente e inoltre avevamo maggiore dimestichezza coi cavalli. Io ho discusso con la nostra guida. Il mongolo aveva raccolto una sferza e ogni volta che si avvicinava al mio cavallo, questi si spaventava e faceva le bizze per paura di essere frustato. Non ho detto nulla, da principio, ma poi la situazione è degenerata. Una frustata nel punto giusto e il mio cavallo è impazzito, è saltato in mezzo alla neve ed ha comiciato a scalpitare. Io sono riuscito a restare in sella (i ragazzi francesi hanno applaudito, mi hanno detto che sembravo Jhon Wayne) e una volta tranquillizzato il cavallo sono andato dal mongolo e gli ho detto di stare lontano da me. Credo che abbia capito, perchè da quel momento mi ha lasciato solo in coda al gruppo. Qui ho cominciato davvero a cavalcare. Ho scoperto che non era sufficiente incitare il cavallo con le urla ma bisognava incitarlo coi garretti nei fianchi. Poche garrettate vuol dire al passo, tante garrettate vuol dire al galoppo. Piano piano diventavo padrone della bestia e la conducevo come più mi piaceva. E’ stata un’esperienza incredibile. A cavallo in un deserto di ghiaccio: una vera avventura.

IL RISULTATO

Dopo tutto questo il risultato è che ho male al culo e alla schiena. Le gambe hanno la carne greve nonostante i miei 60 giorni e più di cammino. Però lo spirito si è arricchito e il morale è sempre più alto. Siamo rientrati ad Ulaanbaatar in autobus. Il viaggio è stato piacevole e i mongoli si sono dimostrati contenti di averci a bordo. Mi piace la Mongolia. E’ un luogo ancora incontaminato, dove gli abitanti sono nomadi per la maggior parte e dove la densità di popolazione in certe zone raggiunge la cifra di un abitante ogni tre chilometri quadrati. Credo che tutto questo cambierà. Il turismo si affaccerà sempre di più e questi prezzi inevitabilmente si alzeranno. Come se non bastasse il governo ha un progetto in corso per costruire nuove città. Nuove abitazioni, meno tende e meno nomadi. Ma non credo che il nomadismo cesserà mai di esistere su queste terre. I discendenti di Gengis Khan sono nomadi, ce l’hanno nel sangue e credo che si manterrano tali anche per i millenni a venire.


Incontri

Ulaanbaatar, Mongolia, 19 mar 2011, giorno 67, ostello

Quello che sembrava essere la casa di un brutale marito, si è rivelato invece essere il modo migliore per risolvere i miei problemi. Ieri sera era veberdì ed io sono andato in disco. Sì, una vera disco mongola. Ci sono andato assieme alle ragazze americane che lavorano in Mongolia e che sono qui da sei mesi e con due ragazzi francesi. Questi due ragazzi, soprattutto, sono stati la mia benedizione. Oggi, infatti, andrò con loro per una gita fuori Ulaanbaatar in un parco naturale. Non so nè dove, ne come, ma sono già felice di poter finalmente vedere questa terra magica di cui tutti parlano. Andarci da solo sarebbe costato molto di più, ma in tre divideremo come i bravi fratellini. Mi trovo bene con loro, mi sembrano simpatici e soprattutto sono in viaggio da settembre, quindi di esperienza ne hanno da vendere. Mi hanno anche detto che per loro è possibile richiedere il visto russo qui a Ulaanbaatar. Una notizia che mi ha fatto impazzire. Se possono loro, che sono francesi, perchè allora non io che praticamente sono loro fratello. Burocraticamente parlando, s’intende. Ma torniamo alla mia serata. Le discoteche mongole, mi dispiace deludere l’uditorio, sono quasi come quelle italiane. Una pista, un DJ, un bar e qualche tavolino. Niente stanze coperte di tappeti o di pelli, per intenderci. L’ingresso costa 10.000 MRT, che sono tipo sei o sette euro, e il guardaroba è compreso nel prezzo. Il bar, dalla sua, offre una selezione di vodke che vanno dal distillato di patate fatto in casa, la scelta più economica, per arrivare fino alla Viborowa o alla Moskovskaya (credo si scrivi così). Per ogni bevanda è possibile scegliere la quantità da comprare: 50 ml, 100 ml, o la bottiglia intera. Alla faccia del “Bevi la vodka responsabilmente”. La cosa che mi ha fatto quasi piangere, è che c’era anche il Martini. Incredibile, ma vero. Oltretutto venduto ad una cifra anche accettabile, considerando che lo si trova quasi dall’altra parte dle mondo. La cosa più divertente del locale, comunque, sono di certo i mongoli. A parte il fatto che l’abbigliamento da pista va dalla camicia alla maglietta della CorriUlaanbaatar, loro fanno proprio sputtanare. Non sono tamarri, ma ballano (mi viene da dire come dei mongoli, ma la descrizione sarebbe obsoleta in questo caso, in quanto è sicuro che un mongolo balli come un mongolo) in maniera molto divertente. le americane sono state circondate da attenzioni maschili, come è logico, ma anche noi siamo stati circondati di attenzioni maschili. Tutti che venivano lì, ti volevano stringere la mano, ti chiedevano da dove venivi, se ti piaceva la Mongolia, se volevi bere con loro. Fantastico, davvero un’esperienza da rifare.

Tra due ore e mezza ho il bus che mi porterà coi ragazzi francesi alla scoperta di un luogo a me ignoto. Per qualche giorno sarò irreperibile, dunque. Ci vediamo quando torno alla civiltà. Ci rivediamo a Ulaanbaatar.


Il Mercato Nero: Naran Tuul Market

Ulaanbaatar, Mongolia, 18 mar 2011, giorno 66, ostello

Contrariamente a quello che si può pensare d’istinto, il mercato nero di Naran Tuul non è quel posto dove si possono cambiare i soldi sottobanco e dove si possono trovare le mercanzie di contrabbando. Semplicemente viene chiamato così, senza nessuna ragione a me conosciuta. Leggendo sulla guida che si tratta di uno dei mercati più estesi dell’Asia, mi è venuta voglia di andarlo a visitare. inoltre avevo intenzione di cercare un bel pastrano russo vecchio stampo da aggiungere al mio guardaroba per proteggermi dal freddo. le indicazioni erano un po’ vaghe, ma chiedendo in ostello mi è stato indicato l’autobus numero 23. Arrivo alla fermata e aspetto. I mongoli non fanno tanto caso a me. Ripensando alla Cina, sono preparato a tutto quello che può capitare sull’autobus. Solo una prcauzione aggiuntiva, in questo caso: la guida diceva che il mercaato è il luogo migliore di Ulaanbaatar per incontrare scippatori e rapinatori. Forte di questo avviso, ho lasciato tuto in ostello. Avevo con me solo 30 euro in valuta mongolaa e 15 dollari americani. Ero in una botte di ferro. Salito sull’autobus rimango deluso. Anche qui nessuno fa caso a me. potrei esserci come non esserci che per i mongoli è lo stesso. Solo un signore anziano mi si avvicina per dirmi di sedersi al suo posto. io lo ringrazio ed insisto affichè si sieda lui, ma questi non ha voluto sentire ragioni. Una volta seduto, il vecchio mi chiede se sono tedesco. Tedesco? Rispondo che sono italiano. Annuisce e smette di considerarmi. ad un certo punto succede un fatto strano. L’autobus si ferma e tutti scendono. Nello scendere un ragazzo mi afferra per il braccio e mi trascina giù con lui, mi spinge verso una ltro autobus e poi mi ci8 butta dentro. io lo guardo senza capire, ma lui sorride e mi fa segno di ok. Va bene, andiamo avanti. Dopo qualche minuto si arriva al capolinea. lo capisco perchè l’autobus fa una grande curva e poi tutti i passeggeri scendono. non c’è traccia da nessuna parte di uno dei mercati più grandi dell’Asia. Siamo arrivati in periferia, le strade non sono più asfaltate e in generale c’è un’aria di degrado. Chiedo all’autista se mi sa indicare la strada per il mercato. O meglio, tiro fuori la Lonely Planet e gli faccio leggere il nome del mercato in cirillico. lui fa segno di sì con la testa e mi con la mano mi fa capire che il mercato è tutto intorno. Non capisco ma ringrazio e scendo. Non sapendo bene che cosa fare e dove andare, mi metto a seguire gli altri passeggeri. Ci addentriamo in una specie di…. No, non trovo le parole giuste. Per semplificare dirò che camminavo per una strada di sassi tra case fatiscenti, rottami e immondizia. Sì, è una buona descrizione. Addemtrandomi in questa baraccopoli, passatemi il termine, si arriva ad un muro. E’ un muro tipo il muro di Berlino, ma più basso e con molti buchi larghi abbastanza da diventare porte. attraversata la porta arrivo in un parcheggio e in lontananza vedo la porta di quello che immagino essere il mercato. I frequentatori di questo mercato vanno dagli anziani ai giovani, dagli ubriachi che stramazzano nel fango alle dieci di mattina alle mamme coi bambini. Non è pericoloso, non mi sento affatto intimorito o spaventato. Semplicemente nessuno mi considera. io per loro non esisto. Arrivato ala porta del mercato mi è richiesto un pedaggio del valore di due centesimi di euro. Avevo letto di questo biglietto d’entrata, quindi sono sicuro di essere nel posto giusto. Il mercato è davvero enorme. Si può descrivere come un ammasso sconclusionato di banchetti e di ambulanti che vendono di tutto. Biancheria, scarpe, corde, zaini, antiquariato, bagni, vestiti e qualunque altra cosa vi venga in mente. Le file non sono proprio ordinate, ma la folla non è tanta, quindi mi muovo con agilità. I settori sono divisi, senza indicazioni, per genere di merce venduta. I venditori sono tranquilli, le uniche grida che si sentono sono quelle degli ubriachi. Passeggio tranquillo tra le bancarelle. Se non trovo qui il mio pastrano sovietico, non lo troverò da nessun’altra parte. Difatti, poco dopo, arrivo nella zona delle giacche: Nike, North Face, Adidas e altre marche occidentali clamorosamente false, riposano accanto ad abiti tradizionali mongoli e giacche di pelle di fattura cinese. Ci sono anche le giacche che cerco io, ma sfortunatamente o sono il modello corto, inutile con questo vento, o il modello militare. Niente giacca. I prezzi sono molto bassi, meno della metà di quello che si pagherebbe in un grande magazzino del centro. la mia ricerca continua per quasi due ore. In tutto questo lasso di tempo nessuno, nessuno mi ha mai chiesto di comprare o di dargli qualcosa o di vedere qualcosa. Sarà il freddo o la bassa stagione, ma gli stranieri qui non vengono minimamente considerati. Anche per quello che riguarda i borseggiatori, ho da ridire. Per quanto io fossi l’unico uomo bianco del mercato, mai, in nessun momento mi sono sentito osservato o seguito o taccato da nessuno. Forse in agosto, per via del boom dei turisti, è diverso, ma io mi sento di dire che non c’è alcun pericolo. Al ritorno non sono riuscito a trovare l’autobus. Il 23 non passava dal mercato e quello che lo ha sostituito all’andata non aveva numero, solo scritte. Me la sono fatta a piedi. Per quanto abbia un milione di abitanti, a me Ulaanbaatar sembra piccolissima. Forse è un’impressione, ma mi sembra molto, molto più piccola di Modena. Però ha uno dei mercati più grandi dell’Asia. Una chicca: sono capitato per caso nel settore dei giocattoli. Mentre nella zona NATO del mondo i bambini che giocano con le armi finte annoverano nel loro arsenale M4, M16 o Berette, nel ex blocco sovietico i pargoli hanno invece AK-47, AK-74 e Dragunov. Grazie Guerra Fredda per queste deliziose differenze.


Violenza domestica o sesso sfrenato?

Ulaanbaatar, Mongolia, 18 mar 2011, notte, ostello

Un urlo. Mi sveglio. Un altro. Che succede? L’americana nel letto a fianco al mio russa come la filarmonica di San Francisco. Accendo la torcia e vedo che i letti sono tutti vuoti. Hum. Che sia stato un sogno? No, le urla continuano. Tendo l’orecchio, ma non riesco a capire se sono di piacere o di dolore. Mi alzo dal letto, apro la porta e resto in ascolto. Si sente parlare, poi un rumore come di lotta e infine altre urla. In quell’istante fa capolino dalla porta della sala comune un’altra ragazza. E’ perplessa quanto me, se non proprio spaventata. Mi chiede se so cosa stia succedendo. Non ne ho idea. Restiamo in ascolto: il misterioso avvenimento continua. Stanno facendo sesso? mi chiede la ragazza. Non credo, secdondo me si menano, e a giudicare dalle urla, la donna è in svantaggio. Dalle voci soffuse e dai rumori e dalle urla avevamo capito solo questo: dentro alla stanza misteriosa da cui provenivano le urla c’erano un uomo e una donna. Entro nella sala comune e vedo che ci sono altre ragazze che si stanno chiedendo cosa fare. Qualcuna propone di bussare, un’altra di chiamare la polizia, un’altra ancora di chiamare il loro supervisore e sentire cosa dice. Optano per quest’ultima scelta. Ho scoperto più tardi che queste quattro ragazze sono delle americane che fanno servizio di volontariato nei corpi di pace o  una cosa del genere, ma questa è un’altra storia. Mentre si svolge la discussione e la telefonata, i rumori, o forse dovrei dire le urla, continuano. A volta mi sembra addirittura di sentire rumori come di schiaffi o di una persona che sta soffocando. Il loro supervisore dice di non chiamare le polizia, dice di aspettare cinque minuti e poi le avrebbe richiamate. Non succede nulla di nuovo. Le ragazze sono particolarmente preoccupate. Vorrebbero andarsene, ma sono le tre di notte e Ulaanbaatar a quest’ora non è il massimo. Io sono stupito ma non spaventato. So che è brutto dirlo, ma magari da queste parti menare la moglie e strozzarla è normale. Discutibile come usanza, non c’è che dire, ma non meno di altre. Forse più grave, ma comunque un’usanza. Magari invece il tipo è un pazzo omicida e le leggi mongole lo condannerebbero a morte. Non lo so.  So solo che in tanti anni e in tanti ostelli, non mi era mai capitata una cosa del genere. Adesso si sente il pianto di una donna provenire dalla stanza. Parla, dice qualcosa, ma dei rumori sordi le impediscono la favella. Sono pugni? Altre urla e altri pianti. Il supervisore richiama e dice che ha intenzione di chiamare l’ostello per sentire se è tutto a posto. Nel caso in cui la voce del proprietario o qualcosa di altro non l’avesse convinto, avrebbe chiamato la polizia. Il telefono suona. Nessuna risposta. Suona di nuovo. Stavolta qualcuno risponde. Siamo tutti zitti, fermi immobili, non osiamo nemmeno respirare per cercare di cogliere qualche significato nelle parole che udiamo. No, no, no. Everithing ok. Everibody sleeping. Il telefono riattaccato e la porta richiusa a chiave. Il supervisore richiama. Dice che gli è stato detto che la confusione è stata creata da un ospite che ha lasciato l’ostello, ma che adesso è tutto tranquillo. In effetti c’era un letto occupato da una ragazza che al momento manca all’appello, ma non crediamo che sia la verità. Ciononostante le urla cessano e con essi i rumori sordi. Tutto sembra tranquillo. Non del tutto convinti andiamo a letto e rimandiamo le spiegazioni all’indomani mattina.

Ore 10:12

Mi sveglio e ricordo gli avvenimenti della notte. Sembra incredibile. Questo è uno degli ostelli più belli che abbia mai visto, e al mio check in il personale sembrava un pezzo di pane. Tutti gentili, tutti servizievoli, tutti sorridenti. Mi vesto e cerco la proprietaria. Se è stata picchiata di sicuro ne porterà i segni sul corpo o addirittura sul viso. La incontro nella sala. Mi sorride e mi chiede scusa se durante la notte c’è stata un po’ di confusione. Il suo viso è perfetto, le braccia non presentano lividi o altro, la postura è corretta. L’ho esaminata a lungo e attentamente prima di dirle che se non era un problema per lei, non lo era nemmeno per me. Non so se abbia colto l’invito e l’abbia ignorato, ma non ha detto nulla e io mi sono messo a fare colazione. Le ragazze parlano di cambiare ostello. Se così fosse io rimarrei l’unico ospite nel caso nessuno venga alloggiato oggi. Non mi interessa più di tanto. Magari c’è un’altra spiegazione a tutto quello che è avvenuto; non era nè sesso nè violenza domestica, ma una televisione a volume troppo alto, la prova di una tragedia, un ballo rituale mongolo che si svolge alle tre di notte in camera col coniuge. Non lo so. Se però dovessi scommettere, io punterei sulla violenza domestica. Welcome to Mongolia, mi sorridono amaramente le americane.


Oggi cucino io: la Mongolia

Ulaanbaatar, Mongolia, 17 mar 2011, giorno 65, ore 15:45, ristorante dal nome impronunciabile

Ecco la ricetta per preparare la Mongolia. Prendete un po’ di Norvegia, abbondate ma levatene il filetto. Unite ora una buona dose di Siberia. Quella che trovate sulle cartoline va benissimo. Spolverate il tutto con un pizzico di Cina. Mescolate bene, curandovi di togliere tutte le case che trovate sparse, e lasciate riposare in freezer per qualche ora. Servite ben freddo. Il piatto non è di vostro gusto? Forse che è un po’ troppo per voi? Allora provate quest’altra ricetta, quella di Ulaanbaatar. Chiedete al vostro negoziante di fiducia di tenervi da parte per una settimana tutti i casermoni sovietici su cui riesce amettere le mani. Prendeteli e coloratene qualcuno di azzurro pallido o di verde acqua, gli altri lasciateli grigi. Una volta fatto ciò aggiungete qua e là qualche costruzione di fattura cinese. Senza esagerare. Cospargete il tutto con fango e ghiaccio e arricchite con abbondante vento freddo del nord. Forti raffiche costanti se riuscite a trovarne. Per servire al meglio questo piatto, adagiatelo su un reticolato di strade dissestate e infestate da un traffico tipo Manhattan nell’ora di punta con una dose di clacson cinesi. Servite gelato.

L’arrivo a Ulaanbaatar col treno è piuttosto bizzarro. Un momento prima sono iurte e deserto, un momento dopo si scende in città. Se vi voltate verso la direzione da cui siete venuti ecco riapparire le iurte e il deserto. Non ingannatevi: la stazione non è in periferia, ma a quattro chilometri dal centro. Non sono mai stato a Murmansk o nell’estremo nord della Russia, anche se spesso mi ci sono recato nei miei viaggi immaginari. Bè, se la dovessi dipingere a fantasia, la dipingerei esattamente come la città che mi circonda in questo momento. Aggiungerei soltanto il mare, di cui qui non c’è traccia. Non è una brutta città, in fondo. Credo che necessiti di un po’ di tempo per abituarcisi. Il freddo, però, è reale. Non tanto per la temperatura, di cui tra l’altro ignoro il valore, quanto per il vento. Un soffio gelido, potente e costante, che metterebbe a dura prova persino gli abitanti di Trieste. I Mongoli invece sonop tranquilli. Molti di loro girano beati sonza sciarpa, cuffia o guanti. Tempra d’acciaio, quella mongola. Non così la mia, che risente di quest’aria che penetra nei vestiti come aghi e ghiaccia le coscie e il viso. Per mantenersi al freddo, è risaputo, bisogna bruciare molte calorie, e ciò mette fame. Sorpresa delle sorprese, la Mongolia non ha l’onore di annoverare tra i suoi ristoranti nessuna catena di fast food occidentali. Almeno io non ne ho trovate. Poco male, ho una fame che mangerei persino le frattaglie di montone bollite e servite in brodo. Niente del genere, per fortuna. Entrando in un locale a caso mi servono pollo al forno, riso, patate, carote e salsicce viennesi. Il pasto più europeo che abbia mai mangiato da due mesi a questa parte. Ho visto che servono anche una specie di spaghetti al ragù, “spaghetti alla bolognaise”. Credo che li assaggerò, se non altro perchè il loro prezzo, un euro e mezzo, vale tutto il rischio che si corre.


Il risveglio

Linea Pechino – Ulaanbaatar – Mosca, 17 mar 2011, giorno 65, ore 9:23, treno

Un rumore metallico mi desta dal mio dormire. Nello scomparto fa freddo, ma la coperta che mi avvolge mi impedisce di sentirlo. In ventisei ore di viaggio ne avrò dormite quattordici. Manuel, se possibile, forse anche di più. Uno dei viaggi più piacevoli che abbia mai fatto. All’improvviso mi rendo conto di dove sono. Il confine mongolo è stato superato con successo all’una di notte, ricordo. Quindi adesso sono in piena Mongolia. Il treno è fermo, quindi sono in una stazione. Vediamo come sono le città mongole. Mentre pensasvo a tutto questo ero sdraiato. Mi alzo, indosso gli occhiali, mi avvicino al finestrino e tutto quello che vedo è niente: una stalla, una decina di iurte e il deserto. La città è tutta qui. Rimango molto meravigliato da tutto ciò, sembra di essere in un western di Sergio Leone. A conferma della mia sensazione, un cespuglio secco rotola spinto dal vento sul binario. E poi un altro. E un altro. Cerco a lungo Clint Eastwood, ma non lo scorgo. Il treno riparte e persino quelle poche tende che costituivano la città, spariscono per lasciare posto ad un ambiente spoglio e desolato, ma totalmente incontaminato. Non una strada, non una linea elettrica turbano la sua desolazione. Tutto è come perso in un incanto, addormentato. O forse sono solo io che sto ancora dormendo e questo è un sogno. Benvenuto in Mongolia.


Lo scartamento

Treno Beijing – Ulaanbaatar – Mosca, 16 mar 2011, giorno 64, ore 21:40, Erlian, confine cinese

Si imparano tantissime cose interessanti sui treni viaggiandovi con chi li conosce bene come Manuel. Dopo quindici anni di servizio sui treni, lo scartamento per lui non ha segreti. Che cos’è lo scartamento? Esso è, in sostanza, la larghezza dei binari. Uno sprovveduto come me pensava che i binari avessero la stessa larghezza in tutto il mondo. Non è così. I binari russi hanno una larghezza maggiore rispetto a quella della quasi totalità dell’Europa. Perchè? Perchè così, in passato, i treni non potevano entrare in Russia senza prima aver modificato lo scartamento, quindi senza essere prima controllati e approvati dalle autorità russe. Furbi, questi russi. La larghezza maggiore è la stessa in tutti i Paesi del blocco sovietico, e per modificarla si opera in questo modo. Il treno, in questo caso specifico non senza pochi sballottamenti, viene condotto su un binario speciale, sormontato da una gru. La gru in questione viene attaccata al treno, e questi viene sollevato con estrema lentezza. Se il mio compagno di viaggio non mi avesse detto quello che stava succedendo, difficilmente mi sarei accorto di essere stato sollevato. Una volta ultimata la procedura, una squadra di operai, manualmente, procede ad allargare gli assi. Una procedura lenta ed antiquata che costa al viaggiatore almeno un paio d’ore. Anche in Spagna e in Portogallo, continua il mio cicerone, hanno uno scartamento più largo, solo che la procedura che loro hanno adottato è molto più rapida. Gli assi del treno vengono sbloccati e il treno viene condotto lungo un binario speciale che si allarga gradualmente fino a raggiungere la larghezza desiderata. Una volta raggiunta, due operai, uno da una parte e uno dall’altra, bloccano nuovamente le ruote. Blocco russo due ore, blocco iberico quindici minuti. Ma non sarebbe più facile cambiare il treno? Sì, ma perchè rinunciare ad una procedura che dà lavoro a tante persone?


Il treno

Cina, 16 mar 2011, giorno 64, ore 12:00, treno Beijing, Ulaanbaatar, Mosca

Il treno su cui giungerò in Mongolia, mi dicono appartenere alla linea Transmongolica, il ramo mongolo della Transiberiana che arriva fino a Beijing. Questo stesso treno sul quale sono coricato a scrivere, arriverà a Mosca tra otto giorni. Tutto questo lo so per due motivi: il primo è che su ogni carrozza c’e scritto in cinese, russo e mongolo Beijing, Ulaanbaatar, Moskva, il secondo è che nel mio stesso scompartimento ho ritrovato un italiano: Manuel. Siamo gli unici due a dividere lo scompartimento. Costui ha quarantadue anni, come lavoro fa l’accompagnatore turistico ed è un esperto di treni. Vive a Londra, quando non è in viaggio, e laggiù per quindici anni ha lavorato come capotreno sull’Eurostar della tratta Londra – Parigi – Bruxelles. Da un paio d’anni ha voltato pagina e accompagna i turisti per un’agenzia londinese attraverso le ferrovie, soprattutto orientali, che conosce così bene. Russia, Cina, Mongolia, Europa dell’est e Turchia sono ormai per lui come una seconda casa. Mi ha raccontato tantissime cose interessanti, sia sui treni che su ciò che gli è capitato. Di gran lunga l’incontro migliore che abbia mai fatto su un treno.

La Transiberiana mi affascina tantissimo, non c’è che dire. Una strada ferrata che corre da un capo all’altro del mondo attraversando paesaggi incantati e desolati allo stesso tempo. Prometto a me stesso che quando sarà il momento farò di tutto per poter tornare a casa viaggiando su quel treno. La Russia, come sempre, esercita il suo richiamo su di me. Mi chiama e mi attira ogni volta che anche solo ne parlo.

Lasciando Beijing si attraversa una terra arida e inospitale. Tutto è dello stesso colore, un marrone terra secca che alla luce abbagliante del sole fa apparire tutto come se fosse un immenso deserto. Alberi spogli dello stesso colore della terra e fiumi ghiacciati grigio sporco sembrano dipinti sulla tela del Pianeta. Sullo sfondo, il pittore, ha posto delle catene montuose; brulle, aride, marroni anch’esse. Non una casa o una macchia di vegetazione si scorge sulla loro nuda roccia. Alcune serre, alcuni campi incolti su cui è riconoscibile la geometria dell’uomo. E’ tutto qui. Il treno scivola lentamente sulle rotaie, le quali formano l’unico segno inconfutabile della presenza dell’uomo su querste terre. Almeno su una piccola parte di esse. Sembra che il treno domandi il permesso per attraversarle. All’interno delle carrozze fa un po’ freddo. Il riscaldamento è indipendente per ogni carrozza, la quale possiede un comignolo ed una stufa a carbone. Si riesce proprio a percepire tutta la tradizione, tutta la storia di questa linea ferroviaria anche solamente passeggiando lungo i corridoi del treno. Tutto è poesia, tutto è romantico. Il viaggiatore sul treno storico che attraversa il deserto per giungere nell’Impero. Quali orizzonti mi porgeranno il saluto una volta attraversate le montagne? Un altro deserto, questa volta quello del Gobi, una creatura temuta da tutti e rispettata dai più. Mi sto avvicinando lentamente ad uno dei punti più inospitali ma allo stesso tempo affascinanti della Terra. La geografia remota del sussidiario delle elementari vissuta di persona. Non un rumore, non un movimento sembra trapelare al di là del finestrino. Una cartolina reale che scorre col treno, che viaggia con lui. Lo scompartimento sembra un piccolo salottino, per quanto eccezionalmenmte spartano. Quattro letti, non sei come sui treni di linea cinesi. Può sembrare una differenza da nulla, una bazzecola, ma dove si sta stretti e male in sei, si sta alquanto bene in quattro. Senza contare, poi, che per ora siamo solo in due. Nel salire sul treno ci consegnano anche due buoni pasto, premura del tutto inattesa. Pranzo dalle 11:30 a mezzogiorno e cena dalle 17:30 alle 18:00. Il bagno ha un water, un rotolo di carta igienica e persino un coprisedile igienico. Il letto è lungo e largo, ci sono un cuscino vero, un lenzuolo e una coperta. Un treno di lusso, secondo i miei standard, sebbene abbia pochi passeggeri. Ma non mi preoccupo, mi siedo col mio compagno di viaggio e mi godo il panorama.

Improvvisamente appare qualcosa a nord, nel paesaggio. E’ un muro enorme che si snoda lungo la vallata fino a perdersi tra i meandri della montagna. Un serpente di pietra disseminato da torri d’avvistamento che corre inarrestabile parallelo al treno. E’ lei, la grande muraglia. Un regalo d’addio giunto d’improvviso e prezioso, un souvenir da parte della Cina che mi augura buon viaggio. Per togliermi ogni dubbio chiedo conferma al controllore. E’ lei, giunge la conferma. Non posso chiedere di meglio da questa tratta. Nessun restauro, nessun turista. Niente cartelli, autobus o ambulanti. La muraglia cinese originale così come doveva apparire ai viaggiatori del passato. L’Atomica Cinese dei Modena in questo frangente ha tutto un altro sapore. Alcuni contadini cessano il loro lavoro per vedere il treno passare. Con due treni alla settimana, forse qui è ancora un avvenimento per cui valga la pena fermarsi a guardare.


Arrivederci Cina

Beijing, Cina, 15 mar 2011, giorno 63, ore 23:00, ostello
Ultima notte in Cina. I preparativi sono ultimati e dopodomani sarò in Mongolia. Ho conosciuto una coppia in ostello, lei svedese, lui australiano, che sono arrivati proprio da Ulaanbataar. Hanno parlato di una città accogliente e meravigliosa. Unico neo la temperatura che, a sentire loro, la notte, raggiunge i meno venti gradi. Il mio equipaggiamento non so se potrà reggere. Per i vestiti basta mettersi addosso tutti quelli che si hanno nello zaino, ma per i piedi c’è poco da fare. Le mie Nike si sono distinte durante questo viaggio, ma hanno parecchi buchi, quindi forse sarò costretto a rimpiazzarle. Lo farei con dispiacere. Per quanto mi sia stato sconsigliato di partire per un viaggio del genere con un paio di scarpe da ginnastica, devo smentire tutte le voci. Sono state eccezionali. Mai una vescica, mai i piedi bagnati o qualunque altro disagio. Nel fango, nella pioggia, lungo la strada o attraverso la foresta, non hanno mai dato alcun segno di debolezza. Chapeau per il signor Nike.

Sono contento di lasciare la Cina. Ho davvero voglia di cambiare aria, e per quanto non abbia la più pallida idea di quello che mi attenda, sono ricco di entusiasmo per il Paese che sto per raggiungere. La Mongolia, terra di deserti e di cavalli. Si dice che ci siano più cavalli che uomini. Si dice anche che i mongoli abbiano il vizio di alzare il gomito, ma perchè biasimarli? A sentire chi ci è già stato, essi si rivelano un popolo ospitale e gentile, disposto ad aiutarti e aperto agli stranieri. Questa è la teoria, per la pratica bisognerà aspettare. Per ingannare l’attesa ho pensato bene di farmi truffare. Una piccola truffa, la prima, una bazzecola che fa sorridere. Si tratta di Marlboro. Oggi ho comprato il mio primo pacchetto di sigarette falso. Bruciano in trenta secondi e hanno un gusto che sa di cartone. Le ho regalate ad un passante. Lui era tutto contento, mille sorrisi e ringraziamenti. Aspetta di fumarle, campione. Forse però, conoscendo i cinesi, le troverà buonissime.

L’unico scoglio che non sono riuscito a superare è quello della valuta. Gira voce che la valuta mongola, in Mongolia, riscuota poco successo. Il dollaro americano, d’altro canto, è accettato come l’oro, quasi come se fosse la valuta ufficiale. Quando ero ad Hong Kong avevo trovato una banca che al bancomat ti faceva scegliere se prelevare dollari o valuta locale. L’ho ricercata a lungo, ma invano. Sono costretto a cambiare i soldi cinesi che mi sono avanzati in dollari. E’ uno spreco enorme. Oltre a dover pagare la commissione della banca al prelievo, il tasso di cambio fa invidia a quello delgi strozzini. Su www.xe.com controllo periodicamente i tassi di cambio e verifico con l’estratto conto della mia banca quanto questi signori trattengano per il loro disturbo. Tutte le volte sono circa dieci euro, tra commissione e tasso sfavorevole. Se a questi ci si aggiunge la commissione dello sportello di cambio, quello che ci rimetto su 200 euro sono circa 15, 20 euro. Non male, per la fatica che fanno. Eppure i dollari sono necessari. Anche la svedese me lo ha detto. 150 dollari americani nel portafoglio possono fare la differenza in certe situazioni. Quando arriverò in città, pertanto, seppur malvolentieri cercherò un cambio.

Per la prima volta ho anche contattato l’ostello per farmi venire a prendere alla stazione. Come i veri signori. Arrivo, mi prendono il bagaglio e mi portano all’ostello. Il Montecristo dei poveri. Non mi costa nulla, quindi mi sembrava stupido non approfittarne. Chissà, magari ci prenderò gusto a farmi trattare come un signore. Oggi mi sono anche fatto la doccia e ho cambiato gli abiti. Alcuni, la tuta no. Da che io mi ricordi la indosso da Chegdu. Il bagno però era doveroso, più che altro per quelli che dormiranno in treno con me. Lavarsi è come il sonno e il mangiare. Se l’appetito vien mangiando e il sonno dormendo, la voglia di lavarsi viene lavandosi. Contando che non mi lavo molto, ne ho sempre meno voglia. E’ che è laborioso. Non ho nè l’accappatoio, nè l’asciugacapelli. Per asciugarmi uso un asciugamano grande come un francobollo e dopo che me lo sono passato in testa risulta essere irrimediabilmente spolto. Per asciugarmi i capelli metto in testa una maglietta fino a che non sono abbastanza asciutti per indossare la cuffia. Poi aspetto. Non è comodo, nemmeno rapido, però è il meglio che sia riuscito ad escogitare.

Amo la vita del viaggiatore. Fate largo, mongoli, sta arrivando il re dei topi!


Tre altre storie

Beijing, Cina, 14 mar 2011, giorno 62, ore 20:19, ostello

1 RIVELAZIONE
Beijing è Pechino

2 EUGE VS LA GRANDE MURAGLIA
Ieri volevo andare a vedere la grande Muraglia. Una leggenda metropolitana la racconta come l’unica costruzione dell’uomo visibile dalla luna. Ciò è impossibile. Per quanto i suoi quasi 8000 chilometri la rendano lunga, i suoi 10 metri di spessore la celano alla vista dell’uomo anche senza bisogno di arrivare fino alla luna. Parecchi astronauti hanno detto di non essere riusciti a vederla dallo spazio se non con un potente binocolo. Dalla luna sarebbe impensabile, poichè l’occhio umano non possiede una risoluzione di tale portata.
Il mio ostello organizza ogni giorno un tour guidato per arrivare laggiù. Il costo è però un po’ troppo elevato per le mie finanze, senza contare che aderire ad uno di questi tour guidati è un po’ come vederla a metà. Tanti turisti che fanno tante foto stupide. E poi file, controlli, biglietti e grida. No, visitarla in questa maniera sarebbe per me più penoso che piacevole. Andandoci da indipendente si risparmia parecchio, se non fosse che è difficile trovare gli autobus per arrivarci. Il governo cinese, ancora una volta, è stato molto abile nello sfruttare questa meraviglia. Sin dalla sua nascita questa costruzione è servita poco al suo scopo originale, cioè quello di tenere lontani i nemici del regno. Essi, infatti, hanno sempre trovato facile accesso grazie alle varie porte disseminate per forza di cose lungo il percorso. Come disse qulcuno, “Non è importante la larghezza del muro, quanto il coraggio degli uomini che lo difendono”. Uno dei suoi maggiori usi nell’antichità è stato quello di mezzo di spostamento. Una strada sopraelevata e lastricata che correva da un capo all’altro del Paese. Dopo svariate invasioni e dopo l’avvento di nuove armi, quest’opera è diventata inutile. Finchè, all’inizio del secolo, è intervenuto il turismo a valorizzarne la presenza. Il governo ha preso la palla la balzo, ne ha ristrutturato alcuni pezzi intorno alla capitale, e ha indirizzato lì la maggior parte del flusso turistico. In questo modo, milioni di turisti ogni anno hanno da spartirsi per alcune ore poche decine di chilometri di muro mentre altre migliaia osservano da lontano.
Devo confessarlo, non sono riuscito a trovare l’autobus. Ho seguito le indicazioni della guida, ma dove mi era stato indicato, non ho trovato nè autobus, nè segni di altro mezzo che potessero condurmi al muro. A conti fatti, però, ne sono contento. Sono andato in Cina e non ho visitato la muraglia. Almeno non condotto come una pecora, come un turista. Conoscendomi, so che una visita del genere avrebbe prodotto la più grande tempesta di rabbia interiore. Quindi, molto serenamente, ho preso la metropolitana e sono andato al Palazzo d’estate. Niente muraglia, dunque. Se riuscirò a vederne altri tratti, magari nell’interno del Paese e sempre da indipendente, ben venga, ma niente tour organizzato.

3 UNA BAMBINA
Passeggiando a caso per la città si arriva al China World. Questo è un complesso di edifici, tra cui quello più alto di Beijing, che racchiudono un grande centro commerciale, un hotel, uffici, un centro congressi e tutto quello che può stare dentro ad un agglomerato del genere. Camminando lungo i viali del centro commerciale si possono notare i marchi delle più prestigiose case di moda e gioielleria: Gucci, Luis Vuitton, Furla, Fendi, Tiffany, Cartier e Bulgari. In mezzo al complesso si trova anche una pista da pattinaggio sul ghiaccio. Bambini e ragazzi pattinano spensierati seguendo le note di una musica cinese. Qui ho assistito ad un fatto che mi ha colpito.
Cercavo qualcosa da mangiare, una merenda, niente più, quando la pista è stata sgombrata ed ha fatto il suo ingresso la macchinina che pulisce il ghiaccio. Adoro questo macchinario. Fa avanti e indietro lungo tutta la pista e quando il suo lavoro è terminato il ghiaccio pare uno specchio dal gran che è tirato a lucido. Mi sono fermato volentieri ad osservare il brav’uomo che adempiva a questo piacevole compito. Terminato il lavoro, però, nessuno è rientrato in pista. Le porte di accesso restavano inesorabilmente chiuse. Che stesseo chiudendo? Impossibile, erano appena le quattro di pomeriggio. Altamente incuriosito, attendo gli sviluppi. Ad un tratto, fanno la loro comparsa sul ghiaccio due figure: un uomo di trent’anni e una bambina di non più di otto. L’uomo prende il microfono e dice qualcosa in cinese che io non capisco. La bambina, invece, comincia a pattinare. Tutti gli occhi erano puntati su di lei. La cosa che più mi ha stupito, e che mi ha fatto pensare che quello fosse un allenamento, era il vestito della bambina. Una specie di calzamaglia nera che copriva tutto il corpo ed anche i pattini, proprio della specie che si osserva quando si guarda alla televisione un’esibizione di pattinaggio artistico. Non mi ingannai. Dopo qualche giro di riscaldamento la bambina si mette in posizione di partenza e l’uomo parla ad una radio che ha estratta dalla tasca. La musica, che fino a quel momento eraa cessata, riprende all’ordine dell’uomo, e la bambina inizia a danzare sul ghiaccio. Subito ho pensato a quanta pressione dovesse avere quella bambina sulle spalle. Tutto il centro commerciale la stava guardando. Ho immaginato che quella fosse una tattica, un allenamento per abituare l’atleta ad avere gli occhi puntati addosso mentre esegue gli stessi esercizi per una competizione internazionale. Gli occhi del pubblico delle olimpiadi sono come gli occhi del pubblico di un centro commerciale, in sostanza, quindi mi sono limitato ad ammirare l’astuzia e il grado di preparazione degli atleti cinesi. La bambina, d’altro canto, non doveva pensarla come me, perchè dopo appena due figure è caduta. L’uomo si è adirato. Urla, gesti secchi, ordini. Non so cosa gli abbia detto, ma dal suo atteggiamento non sembrava gli stesse dicendo “Hei, ti sei fatta male? Continuiamo?”. A questo punto qualcuno potrebbe cessare di pensarla come me, ma la mia convinzione è che anche questo sia giusto. Ogni maestro è diverso da un altro e magari, in questa sua intolleranza al minimo errore, si trova la chiave del successo che un giorno forse questa bambina raggiungerà. Certo, si può insegnare anche in altri modi, magari un po’ più affabili, ma l’importante credo sia il risultato. Così pensavo, mentre la bambina si rimetteva in posizione di partenza e la musica ricominciava. Questa volta, nessun errore. Un’esibizione bellissima. Questa bambina di otto anni danzava divinamente, scivolava sul ghiaccio con una padronanza di movimenti ed una sicurezza che nulla aveva da invidiare agli atleti professionisti. Non sono un esperto, va detto. Non distinguo un pattinatore olimpico da uno scandinavo che gozzoviglia sul ghiaccio in una domenica mattina qualsiasi di Stoccolma, però quella bambina era bellissima. Pattinava con la grazia di un angelo. Con i suoi movimenti metteva la gioia nel cuore. Ahimè diversamente la pensava il suo maestro. Grida, continue correzioni e gesti che esprimevano esasperazione hanno accompagnato fino in fondo tutta l’esibizione. Poi la bambina cadde di nuovo. Il maestro la chiamo a sè. Quando la bambina giunse a lui, le diede una pacca sulla spalla, non amichevole, ma come uno schiaffo, e poi le indicò ancora la posizione di partenza. Non so se il padre della bambina fosse presente all’allenamento della figlia. Se fossi stato io quel padre, di sicuro non avrei tollerato un simile gesto da parte dell’istruttore di mia figlia. Non tanto per lo schiaffo, quanto per il merito. Se al rimprovero dell’uomo ella si fosse alzata e l’avesse mandato a quel paese, avrei anche capito. Il rispetto è importante e ognuno lo amministra a modo suo. Ma quella bambina era l’impassibilità fatta a persona. Non una parola, non un gesto trapelavano dal suo atteggiamento. I suoi occhi erano dello stesso ghiaccio sul quale pattinava. Un’espressione da donna vissuta che non mostrava nessuna gioia. Questo è quello che mi ha fatto più pensare. Che valore può avere anche un oro olimpico se l’atleta che lo ottiene non prova emozione alcuna nell’ottenerlo? Se non c’è gioia, voglia di pattinare e di vincere, che valore può avere un’eventuale medaglia conquistata? A mio avviso nessuno. Considerando che un settimo dei talenti mondiale nasce sotto la bandiera cinese, mi sembra facile prendere questi talenti ed addestrarli ( e dico addestrarli, non allenarli, poichè questo mi pare di aver veduto) a vincere. Però non ci vedo il merito. In tutte le Olimpiadi che ho potuto vedere, a memoria ricordo che sempre la Cina abbia fatto incetta di medaglie. Ma quante di queste medaglie sono nate dal desiderio di vincerle e quante dalla costrizione a vincerle? Non c’è nulla di male a coltivare, ad assecondare il talento: il male sta nel perseguitarlo, nell’imporlo. Magari è tutto un mio farneticare, magari quella bambina era all’apice della gioia nel ricevere i rimproveri del maestro perchè sa che un giorno gli frutteranno. La sua espressione, però, non indicava niente di tutto questo. Avrei voluto sapere il nome di quella bambina. Forse un giorno, ho pensato, la si vedrà vincere un oro alle Olimpiadi ed io vorrò sapere se quella è proprio la bambina che ho visto allenarsi nel China World di Beijing. Purtroppo non sono riuscito nell’intento. Ero al piano superiore rispetto alla pista e nel tempo di trovare la strada per arrivare alla pista, questa si era aperta e aveva lasciato spazio alle altre persone. La bambina era sparita, ma se dovesse succedere ciò di cui sopra, credo che mi basterà guardarla negli occhi per sapere se è la stessa persona. Occhi di ghiaccio.


Le vacche

Beijing, Cina, 11 mar 2011, giorno 59, ostello

Ogni popolo potrebbe essere rappresentato nei modi e in quant’altro da un animale. Se per esempio dovessi dire quale animale rappresenta per me i giapponesi, direi senza dubbio alcuno le formiche. Ordinate, tutte in fila, pulite e laboriose. L’animale che invece rappresenta, sempre a mio avviso, i cinesi, è la vaccha. Una mandria sconfinata di vacche. Soffermiamoci su questo animale, considerato sacro dagli indiani e da noi mangiato e allevato. Immaginate vacche a perdita d’occhio. Esse, nella loro tranquilla esistenza, non hanno altro pensiero che mangiare, dormire, espellere le scorie e riprodursi. Immaginate adesso un campo sconfinato dove queste compiano il primo e il terzo dei bisogni sopra citati. Li compiono con noncuranza, senza alcuna remore ed esattamente nello stesso luogo. Nessuno si scandalizza. Immaginate adesso il mandriano che le deve condurre e controllare. Esso non può comunicare in alcun modo con loro se non tramite l’uso di suoni e di recinzioni. A volte le batte, ma in Cina questo non succede. Tutto il resto però sì. I miei occhi hanno veduto cose che se accadute in Europa, certo è successo solo in un passato assai lontano.

Stazione dei treni di Xian. Cinesi a perdita d’occhio che attendono il treno. Alcuni sulle panchine, altri a terra, qualcheduno in piedi ma tutti con un ingombrante bagaglio da portarsi appresso. In un angolo una madre e un pupo. I bambini cinesi, almeno quelli molto piccoli, hanno tutti un curioso vestiario. Le loro braghe e le loro mutande dispongono di un taglio verticale sul posteriore che lo attraversa in tutta la loro lunghezza. Quando questi stanno in piedi e camminano, una piega particolare nascondo le loro innocenti intimità, ma quando necessitaano di andare di corpo, non occorre che la madre tolga loro i calzoni. Essi sono già predisposti. Torniamo alla stazione e alla madre. Un suono, forse anche solo un’espressione del pupo, le fanno capire che egli deve fare la cacca. E che si può perdere forsse tempo prezioso per cercare un servizio? Giammai. Infatti la madre si alza e, condotto il bimbo in un angolo della stazione, gli dà il consenso per liberarsi. Così, mentre un signore anziano consuma i suoi noodles seduto appresso alla famigliola, il pupo fa la cacca. Non fa una grinza. Ecco però che il mandriano, in questo caso una sirena, dà il segnale: si aprono i cancelli. Subito è un calpestìo generale e una massa informe e indisciplinata si dirige verso uno strettissimo cancello. Se qualcuno dovesse cadere, sarebbe certamente perduto. Manca solo la polvere e vi sembrerebbe una mandria. Chi impreca, chi è tranquillo, chi ha perso il bagaglio, chi ha il pacco incastrato tra la gamba e il trolley di un vicino: non importa. Il flusso umano conduce tutti verso il cancelletto. Transenne lungo il camminamento impediscono ai più indisciplinati di lasciare la mandria. Non c’è da pensare, solo da muoversi. Niente formiche: vacche.

Beijing è una città straordinaria. Davvero un capolavoro di architettura e di storia. E di polizia. Forse la Cina è in guerra, forse ha paura, non so. Quello che so è che non ho mai visto tanti metal detector e punti di controllo in vita mia. Piazza Tienanmen. Uno si immagina, da viaggiatore che ha ancora fiducia negli uomini, di arrivarci e di camminarci immerso nello stupore dettato dalla dimensione e dalla sensazione di storia. Sì, si può fare, ma prima bisogna passare i controlli. Arrivi e ti fanno mettere lo zaino dentro all’apparecchio a raggi X. Davanti a te c’è una vecchia che viene quasi fatta spogliare. Poi è il tuo turno. Che fai? Vado in piazza. A fare che? Mah, un giro. Sei un terrorista? No, no. Che cos’hai in tasca? L’iPod. C’è dentro esplosivo? No, non è un’arma; potrei tirarlo, ma non lo farò. Cosa? No, no, agente. Costa troppo per ammazzarci un cristiano. E così si passa il controllo e si arriva in piaazza. Qui, ad ogni mattonella c’è un agente. E’ una cosa incredibile, davvero. Io aggiungo un po’ di finzione letteraria, ma non tanta da far offuscare i fatti. Controlli a parte, è un posto in cui recarsi almeno una volta ne3lla vita. In fronte alla piazza, la città proibita. Un enorme muro ne occulta la vista, e non è che il primo cortile. L’imperatore doveva amare davvero la privacy. Non sono entrato, lo farò domani. Oggi allenamento.

La tecnologia mi sta tradendo. La mia macchina fotografica da un po’ di giorni si è ammalata. Più che altro è vecchiaia. 33.000 scatti in un anno e mezzo sono tanti per la mia fedele amica. Spero che non decida di morire in Cina perchè altrimenti sarei rovinato. Come se non bastasse anche il mio pc ha cominciato a fare le bizze. Non so dare una definizione precisa del problema: si rifiuta di eseguire i miei ordini, è svogliato, spento. Se mi dovessero abbandonare entrambi, mi priverebbero di due dei miei principali interessi: la fotografia e la scrittura. Oppure potrebbero aprirmi nuovi orizzonti. Chissà? Staremo a vedere.

Il mio futuro si chiama Mongolia. Mercoledì, due giorni prima che mi scada il visto cinese, ho il treno per Ulaanbaatar. Per quelli di voi che desiderassero recarvisi da Beijing, due cose: il visto non costa 30 dollari americani ma 55 euro sonanti, mentre il biglietto del treno, il più economico, non costa 770 RMB ma 1350. Oggi ho quasi pianto a queste due notizie, ma fuori dal Paese ci devo andare, quindi c’è poca scelta.

Evviva la Cina. Evviva le vacche.


Toccata e fuga: Xian

Xian, Shaanxi, 9 mar 2011, giorno 57, ore 22:57, ostello

Xian, antica città capitale di Cina, offre tanto da vedere.  Sfortunatamente io sono povero di tempo, quindi la giornata di oggi è stata gestita come nei migliori tour organizzati: esercito di terracotta, museo, pagoda e mura cittadine. Tutto in 16 ore. E’ terrificate, non lo nego, ma domani per forza devo essere sul treno che mi porterà a Beijing, altrimenti rischio di non ottenere il visto per la Mongolia prima che mi scada quello della Cina. Odio sempre crescente per la burocrazia.

Tornando alle meraviglie cittadine, il famoso esercito di terracotta mi ha un po’ deluso. Per quelli che non sapessero di cosa si tratta, dirò brevemente che parliamo di  sette, ottomila guerrieri, costituiti appunto di terracotta, e  messi a guardia della tomba del primo imperatore cinese Qin Shi Huang. Non si sa di preciso se siano stati creati per proteggerlo nell’aldilà o per renderlo abile da trapassato di compiere tutte le imprese che compì da vivo; quantunque essi esistono. Sono conservati in un immenso capannone costruito sopra al sito, mentre gli scavi che piano piano li riportano alla luce sono ancora in corso. Una visita breve, all’interno di questo spazio che, a causa della pochissima luce di cui è dotato, mette addosso al visitatore tanta tristezza. Almeno dal mio punto di vista. Non posso purtroppo dare nemmeno una descrizione ricca della città, in quanto i miei piedi non hanno fatto che sfiorarla e i miei occhi non hanno avuto il tempo di stancarsi nell’analizzarla. La Pagoda della grande oca è notevole. Si staglia contro al cielo appena fuori dalle mura e con i suoi sette piani rappresenta una maestosità che è tipica delle costruzioni antiche. Oltre a questo punto non oso spingermi. Mi sarebbe piaciuto avere più tempo, curare i dettagli di questa mia visita, ma la burocrazia è inflessibile, ed io non ho nessuna voglia di darle motivi per perseguitarmi. Domani farò un altro giretto per la città e poi filerò via sul treno verso Beijing. Se il viaggio dovesse essere piacevole quanto lo è stato quello che mi ha condotto fin qui, sarei già ripagato del tempo che non ho potuto dedicare alla vecchia capitale.


Arrivederci Chengdu

Chengdu, Sichuan, 7 mar 2011, giorno 55, ore 22:04, ostello

Un po’ di malinconia nel lasciare Chengdu. In questa città ci stavo proprio bene, come una perla in un’ostrica. Sono certo che mi mancherà, anche se tra un mese sarò di nuovo qui per prendere la strada che, salvo ulteriori imprevisti, dovrebbe condurmi al tanto agognato Tibet e al Nepal. Se c’è un Dio dei viaggiatori da qualche parte, spero che interceda in mio favore con la burocrazia. Per qualche strana ragione questa entità sembra avercela con me, ma confido che dopo tanto perseguitarmi si sia stancato e voglia magari premiare la mia perseveranza con qualche inaspettato colpo di fortuna. Uno di questi potrebbe essere il treno che domani mattina mi porterà a Xi’an. Potrebbe essere pulito e poco affollato, la mia cuccetta potrebbe essere situata in uno scompartimento tranquillo, abitato da gente tranquilla. Potrebbe perfino avere un bagno pulito. Devo dire che non mi aspetto nessuna di queste cose, ma d’altro canto non mi aspetto nemmeno un ulteriore viaggio come quello che ho fatto per arrivare fin qui. Non so se lo reggerei, devo essere sincero. Sono quasi due mesi che mi sballotto da una parte all’altra dell’Asia, e sebbene il mio spirito sia determinato e il mio corpo si sia abituato alle scomodità del viaggio disorganizzato, non nascondo che spero che l’esperienza acquisita mi possa rendere gli spostamenti meno difficoltosi e magari più confortevoli. Ma questa è la via, quindi non resta che percorrerla e vedere quello che succederà.

Tra le altre cose che mi lascio alle spalle per volgere il mio cammino verso nord, mi dispiace lasciare Xiaoxiu e la signora che mi vende i noodles all’angolo della strada. Quest’ultima, sebbene la frequenti da poco, posso dire che è abbastanza simpatica e che mi mancherà. Con Xiaoxiu, invece, è un po’ diverso. Negli ultimi giorni era andato a fare un’escursione alla quale io non ho potuto partecipare in quanto egli era entrato in possesso dell’ultimo biglietto dell’autobus disponibile (ne converrete con me che quell’entità di cui sopra si è proprio accanita). Oggi, al suo ritorno, siamo stati entrambi sinceramente felici di rivederci. Sorrisi e abbracci. Poche parole, ma ci siamo intesi. Anche con lui, però, è solo un arrivederci. Quando il mio peregrinare per il continente asiatico sarà terminato e arriverò a Shanghai, allora ci rivedremo. Mi ha promesso una partita a calcio e io voglio dimostrare la superiorità del calcio europeo. I miei piedi non ne sono certo all’altezza, ma l’umore è alto. Se si trovassero altri ragazzi italiani dentro a qualche università si potrebbe anche tentare un Italia – Cina. Non sarà trasmesso sulla RAI ma sarei molto contento di partecipare ad una partita del genere. Mal che vada mi accontenterei di un Europa – Cina. Spero solo non ci siano poi tanti giocatori o rischio di restare in panca.

 


I muri che ci creiamo, i muri che abbattiamo

Chengdu, Sichuan, 5 mar 2011, giorno 53, ore 23:41, ostello

A Castelfranco Emilia c’è un unico ristorante cinese. Il piatto più prelibato che, a mio avviso, annoverano nel loro menù sono gli spaghetti pasta fresca con verdure. Ne vado matto, sebbene non mangi le verdure. Sono di sicuro nella top ten dei miei piatti preferiti, dopo quelli che cucina mia nonna. Io sono in Cina da più di due  settimane e non li avevo ancora mai mangiati. Ho paura del cibo. Già quando sono a casa c’è solo un ristretto numero di pietanze che mangio. Qui, poi, in un Paese straniero e con quasi nessuno che mi capisce, mangiare è uno dei miei principali problemi. La maggior parte del cibo cinese è piccante, e io col peperoncino ho poco feeling. Da qui si evince facilmente che i miei pranzi e le mie cene siano costituiti da poche variazioni e da molta ripetitività. Xiaoxiu è stata la prima breccia di questo muro. Essendo lui un cinese, è naturalmente abituato a mangiare i piatti di questa cucina, e sotto la sua spinta mi sono lasciato andare a qualche novità. La cosa migliore però che lui abbia fatto mai per me è stato scrivere sul mio taccuino “beef noodles non piccanti” in cinese. Circa mezz’ora fa mi è venuta fame. Il Macdonald’s, mia ahimè principale fonte di sostentamento, chiude alle undici, quindi mi sono dovuto arrangiare. Mi sono messo lo zaino in spalla e sono uscito dall’ostello. La Cina abbonda di banchetti che cucinano sui marciapiedi. Ce ne sono per tutti i gusti e servono praticamente qualsiasi tipo di pietanza. Io ne cercavo uno che servisse noodles, con la speranza di trovare qualcosa da mettere sotto ai denti. Non ci è voluto molto tempo prima che qiualcosa attirtasse la mia attenzione. Una signora sui 50 anni se ne stava tranquilla a cucinare col suo wok all’angolo della strada appena usciti dalla via del mio ostello. Ero spaventato ad approcciarmi direttamente a lei. Intorno al suo banchetto stavano alcuni tavolini pieni di clienti, e il solo fatto di passarci davanti e gettare un’occhiata fugace per saggiare il terreno ha destato la curiosità di tutti gli astanti. Faccio finta di niente e vado avanti. Appena arrivato fuori dalla loro visuale, mi giro e mi ripresento con noncuranza. Questa volta quasi nessuno mi considera, ma davanti alla signora si era creata un po’ di fila, quindi proseguo, attraverso la strada e mi siedo su un pilone di cemento nell’attesa che la fila si smaltisca. Accendo una sigaretta e medito sul da farsi. L’approccio diretto era fuori discussione. Non ho così tanto coraggio. Sarebbe occorsa una mossa Kansas City. Medito. Lo faccio o non lo faccio? Scemo, perchè non dovresti farlo? Ma, non so. Magari non mi piace, magari non ci capiamo, poi tutti mi guardano e io faccio la figura del coglione. Oh, butterai via 5Y, sono 50 centesimi; quanto alla gente che ti frega? Tanto non li rivedrai mai più. No, no, no, no vado via. Coniglio. Non sono un coniglio, è che non so cosa aspettarmi. Coniglio. La lotta con me stesso si è protratta in questo modo per tutta la durata della sigaretta. Mi immaginavo chissà quali situazioni, e tutte finivano senza il mio piatto di noodles ma con una magra figura. Spenta la sigaretta per terra (qui si può, lo fanno tutti) la situazione era ottimale. Nessuno in fila, pochi i seduti e la strada libera. Ora o mai più. Prendo lo zaino e mi avvicino alla signora con passo felpato. Una gazzella che si avvicina all’acqua per bere. Ci sarà un coccodrillo in agguato tra i giunchi pronto a sbranarmi? Arrivo al banchetto e non c’è nessun segno del coccodrillo. Io e la tipa ci guardiamo. Sorrido. Lei sbraita in cinese, ma non mi intimorisco. Qui hanno sempre questo modo militaresco di esprimersi. Dovreste vederli litigare. Mormoro un timidissimo “Beef noodles” che lei ignora completamente. Altri sbraiti in cinese. Scappo? Poi, con un estremo gesto di coraggio, tiro fuori il mio taccuino con la frase scritta da Xiaoxiu, la mostro al generale e ripongo in essa tutto il mio futuro. La signora mi prende il taccuino, legge, sorride e mi fa cenno di sì. Ce l’ho fatta, penso, evvai. Per fugare ogni mio dubbio lei indica la scodella col peperonico e dice “No?”. No. Tutto da manuale. Sono un duro, io. Ci mette pochi minuti a preparare il mio piatto. La piccola clientela seduta lì dietro mi guarda e sorride, ma nessuno fa poi tanto caso a me. Prendo la mia scodella, le bacchette, le do 5Y e me ne vado per la mia strada. Guardo la scodella, spezzo le bacchette e comincio a mangiare non senza un certo timore. Erano buonissimi. Davvero. Meglio addirittura di quelli del ristorante cinese di casa mia. Tutto contento mangio per la strada con un sorriso da cretino stampato sul volto fino ad arrivare al mio ostello. Qual’è la morale della favola? La morale della favola è che di sicuro io sono uno stupido, ma nella mia stupidità ho capito che la maggior parte delle difficoltà a volte me le creo io da solo. Non dico che da oggi mangerò tutto e sarò sempre felice e spensierato per quanto riguarda il nutrimento. Non è sempre domenica. Però credo che quello che potrei perdere assecondando i miei timori ha più valore di quello che potrebbe deludermi. Se fossero stati immangiabili li avrei semplicemente gettati. La signora, dal suo canto, ci ha guadagnato 5Y e un cliente fisso per tutta la durata del mio soggiorno a Chengdu. Durata che si protrarrà fino all’otto marzo, in quanto i posti sul treno che mi porterà a Xi’an erano esuriti fino a quella data. Adesso ho la pancia piena, il mio umore è alto e mi è capitata tra le mani una bella storia da raccontare. E niente coniglio! Tornando verso l’ostello ha cominciato a piovere. Sarà forse un segno?


Nella casa dei panda

Chengdu, Sichuan, 4 mar 2011, giorno 52, ore 18:29, ostello

Oggi sono andato a vedere i panda. Generalmente non mi piacciono gli zoo e i parchi naturali, ciononostante ho deciso di recarmici per due ottimi motivi: il primo è che non ho mai visto un panda dal vivo, il secondo è che la Cina è lo Stato dei panda, il luogo dove sono sempre vissuti, quindi mi sembrava stupido non approfittarne. Anche Xiao Xiu è venuto con me. Malgrado egli sia cinese e viva in Cina, non aveva mai visto un panda prima di oggi.

Panda Gigante a pranzo

Il “Giant Panda Research Base”, a dieci chilometri da Chengdu, è uno dei centri mondiali più prestigiosi per quanto riguarda lo studio di questi animali. E’ un area in cui i panda vivono tranquilli e vengono studiati sotto ogni minimo aspetto. Nutrizione, genetica, riproduzione e abitudini sono monitorati costantemente da esperti biologi. E’ ststo uno dei primi centri a riuscire nell’impresa di far nascere e vivere un cucciolo di panda in cattività. All’interno del parco, i visitatori possono vedere sia i panda giganti, quelli enormi bianchi e neri, che quelli rossi, i quali sembrano degli orsetti lavatori: sono più piccoli, hanno una coda lunga e una pelliccia rossastra sul dorso, nera sulla pancia.

Panda rosso

Inutile dire che mi sono divertito come un bambino. I panda sono buffissimi. Inoltre sono da considerare come orsi che hanno deciso di diventare vegetariani. Meglio bambù che carne, questo pensa il panda. E di bambù ne mangiano quintali al giorno. Sono furbi. Hanno un modo di togliere la corteccia del bambù sviluppaato da generazioni. Da quanto ho capito, essi evolvendosi hanno sviluppato un dente particolare che gli permette di incidere il fusto della pianta con precisione chirurgica. Passeggiando tra le viuzze che circondano i siti dei panda, li si può vedere fare due cose: mangiare e dormire. Se chiudiamo per un attimo gli occhi sul fatto che non possiedono la libertà, bisogna dire che non è poi una brutta vita.

E’ stata una bella escursione. Unico punto dolente è stata la stanza che descrive minuziosamente il parto dei panda in cattività. Stavo quasi per svenire. Non sono un fan di queste cose. Però sono decisamente un fan dei panda.


Un nuovo amico

Chengdu, Sichuan, 2 mar 2011, giorno 50, ore 10:34, stazione degli autobus

Ieri sera qualcuno è entrato nella mia camera all’ostello. Io stavo leggendo un ebook sul computer nell’attesa di addormentarmi, “L’isola del tesoro”. Era buio in stanza, quindi mi sono alzato e ho detto al nuovo venuto che poteva accendere la luce. Lui non capiva. Una volta accesa la luce ho capito il perchè: era cinese. Dapprima mi ha studiato un attimo, con l’aria tipica di tutti gli asiatici che quando vedono uno straniero sembrano pensare “Ce provo o non ce provo?”. Ci ha provato. Mi ha chiesto da dove venissi. Italia. Tu?. Da un posto vicino a Shanghai. Gli ho chiesto allora se conoscesse l’Alice, la mia amica che abita là. No, non la conosceva. “Italy good football”, mi ha detto, e da qui abbiamo cominciato una lunga enumerazione di calciatori militanti nel campionato italiano. Toti, Depiero, Pihrhlo, Ibramovch e tanti altri. La sua conoscenza geografica del Belpaese era interamente dovuta al calcio. Milano, Roma, Bologna, Firenze, Catania, Napoli sì, Venezia e Modena no. Esse non giocano in serie A. Potere del pallone. Non era nemmeno riuscito a trovare Juventus. Torino, gli dico. No Juventus city, Torino. “Ahhhhhhhhhhhhh!”. A quel punto, forse felice di avere scoperto qualcosa, mi ha offerto uno snack. A malincuore ho sorriso e ho assaggiato una tavoletta rosa di materiale pressato e dal gusto a tratti dolce e a tratti amaro. Sorrido, ma proprio non rieswco ad andare oltre al primo morso. Il dialogo, “dialogo”, è andato avanti per una buona ora, e oggi sono qui alla stazione dei bus di Chengdu in attesa del bus per Longshan e lui è qui con me. Sì, perchè una volta capito che sarei andato laggiù mi ha chiesto se ci potevamo andare insieme. Io ho accettato e lui si è emozionato come uno scolaretto. “Picture! Picture! You, me, picture!”. Mi ha subito dato il suo numero di telefono e la sua mail. Quando arrivi a Shanghai, mi ha fatto capire, chiamami che giochiamo a “Soccer”. E’ un ragazzo gentile, ma le comunicazioni tra di noi sono difficoltose. più che altro parole isolate e tanto intuito. Però ci chiamiamo.Almeno credo.

Chengdu, Sichuan, ore 20:18, ostello

Quando ero a Wuhan una ragazza mi ha chiesto di farle una foto. Ci siamo messi un po’ a parlare e lei mi ha detto di essere di Beijing. Io le ho detto che sarei andato a Chengdu. Lei mi disse: “La Cina ha quattro stagioni. Chengdu ne ha solo una ed è bellissima”. Mai furono dette parole più vere. Questa città e questa regione mi piacciono tantissimo. Mentre il resto del mondo è al freddo, qui si sta bene con la giacchetta e in maniche corte, c’è il sole ed è sempre ventilato. Io e Xiao Xu (credo che si chiami così, ma per comodità lo chiamerò solo Xiao) oggi siamo stati a Leshan. E’ una cittadona sonnecchiante che si frappone all’incrocio fra il fiume Min e il fiume Dadu. Di per sè, forse non sarebbe nulla di speciale, ma appena fuori da questo complesso, a strapiombo sul fiume si erge il Buddha Gigante più grande del mondo. Con i suoi 71 metri di altezza, il Buddha di Leshan si è guadagnato il primato mondiale e anche un posto speciale fra i beni protetti dall’UNESCO. La leggenda dice che questa statua gigante è stata scolpita nella roccia da un monaco buddista di nome Haitong. Questo volenteroso signore ha iniziato a scolpire3 la roccia sperando che il futuro Buddha avrebbe calmato le acque tumultuose del fiume e le sue letali correnti. Il Buddha fu finito di scolpire novanta anni dopo la morte del monaco ed effettivamente le acque si rilassarono dopo il suo completamento. Gli abitanti del luogo sostengono che sia stato il Buddha a calmare il fiume, i geologi, invece, che tutta la petra estratta dal monte per la sua scultrua e rivarsatasi in acqua abbia modificato il letto e il comportamento delle acque del fiume. A chi credere scegliete voi.

Andare a Leshan con Xiao mi ha fatto capire quanto è bello essere un cinese in Cina. Se hai bisogno di qualche informazione, basta che ti guardi intorno e leggi i cartelli, i segnali, gli avvisi e quant’altro. Se ancora non hai quello che cerchi ti basta fermare qualcuno e parlargli. Lui ti capisce e tu capisci lui. Fantastico. Tutta questa facilità è per me un lontano ricordo. Io sono abituato a googlare quello che cerco, trovare il corrispettivo in cinese occidentale, farmelo tradurre in cinese classico da qualcuno e poi andare in giro con un foglietto ed un taccuino mostrandolo a tutti fino a che qualcuno non mi dice dove andare. E’ tutta un’altra musica.

La giornata è stata piacevole. Io e il mio socio non ci siamo ammazzati di chiacchiere, ma ci sono stati tanti bei momenti e tante fotografie. Il migliore è stato sicuramente la cena. Ritornati a Chengdu senza aver mangiato nulla durante tutto il giorno eravamo affamati. Lui mi ha portato in un localino sulla strada e ha ordianto per me dei noodles al manzo. E’ stato bello. io non sarei mai riuscito a fare un ordine del genere (poco piccanti mi raccomanso) e quando mi è arrivata la ciotola di noodles erano tutti lì ad aspettare di sapere se mi piacesse oppure no. E’ buono. Evvai. Una roba tipo l’uomo Del Monte ha detto sì. Fantastico. Non so domani cosa ci aspetterà; non so nemmeno se avrò ancora un socio nei miei spostamenti. Quello che però so per certo è che Chengdu e il Sichuan sono il posto più bello sotto al cielo di tutta la Cina. Altro che Guilin.

Vi lascio con una foto dei due pirla sotto al Buddha.

Leshan, Buddha gigante