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Il Confine

Zamin Uud, confine mongolo-cinese, 26 mar 2011, giorno 74, ore 7:15, stazione dei treni

Le mie paure di non trovare un mezzo per passare il confine sono state smentite subito. Dopo appena qualche passo sul binario, una folla di autisti mi è venuta incontro per offrirmi i loro servigi. Ho scelto l’autista più brutto e l’ho seguito dopo avere chiesto il prezzo: 5 con le dita. 5 mele? 5 euro? Tugrug, Youan, cammelli. Non sapevo. Alle elementari la maestra mi ha insegnato a specificare sempre l’unità di misura. Forse qui non hanno maestre come la Grazia. Immaginavo 5000 Tugrug, ma è saltato fuori essere 50 Youan. 5 Euro circa per passare di là dal filo spinato. Il parcheggio della stazione è pieno di jeep e quella del mio autista è una Toyota. Mi accomodo e inizio a riempire i moduli che trovo sul sedile e sparsi per tutto l’abitacolo. Nella mia fanciullesca ingenuità di viaggiatore europeo mi guardo intorno e penso: “cinque posti, cinque persone”. Non è così. Uno dopo l’altro si intrufolano nella jeep tante di quelle persone che sembra di essere in una puntata di “Scommettiamo che…”. Alla fine ci ritroviamo in undici più l’autista, che nel frattempo è cambiato. Non male per quel certificato che omologa il veicolo per cinque persone, ma qui non ci badano. Chi nel baule, chi fra il cambio, chi in braccio ad altri ci stiamo tutti. Tutti tranne la comodità. Per quella proprio non c’è spazio. Nelle ore di fila che precedono il mio ingresso in Cina (ce ne sono volute tre e mezzo, alla faccia della Lonely Planet che diceva che si faceva prima) mi ritrovo ad osservare il nuovo autista. Mi ricorda troppo Tyler Durden. Almeno la sua versione mongola. Occhiale da sole a specchio, giacca di pelle blu e stivali di pelle rossi. E’ solamente meno figo di Bradd Pitt, ma il personaggio c’è tutto. Inoltre è abile nel suo lavoro. Con i suoi sottoposti è severo e secco negli ordini, ma con le guardie è docile come una vacca al pascolo, sorride sempre e ammicca con tutti. E la jeep avanza tra la folla. Una colonna umana che attende il controllo documenti mongolo, passa la terra di nessuno con ogni mezzo e rifà la coda per il controllo passaporti cinese. Sembra di stare in un film. Le guardie hanno le stelle rosse sul colbacco, i ladri le jeep. Land Rover, Land Cruiser, jeep russe e giapponesi. Nessun europeo, al solito. Certo, qui c’è solo autentico volgo. Gli europei sono ricchi, pagano di più e il confine lo passano in treno. E’ una bella esperienza. Mi fa capire come si sta dall’altra parte della tv. Non siamo in zona di guerra o in presenza di clandestini, ma a parte questo è uguale alle immagini dei telegiornali. Stipati all’interno di un mezzo e poi in fila per il verdetto. Puoi passare. Oppure no. Io sì. Welcome back to China!


La Religione

Ulaanbaatar, Mongolia, 23 mar 2011, giorno 71, ore 16:05, ostello

Bene o male credo di essermi fatto un’idea generale di tutte le religioni più importanti. Nel corso dei miei viaggi ho avuto a che fare con ogni sorta di Cristiani, Musulmani, Buddisti, Shintoisti e quant’altro. Tra chiese, moschee e templi, non voglio passare certo per un esperto di teologia, quale non sono, ma c’è una cosa che devo dire accomuna tutti questi credi: tutti gli Dei hanno bisogno di soldi. Che siate in un tempio buddista, in una cattedrale cristiana o in una moschea musulmana, avrete sempre la possibilità di comprare la grazia del vostro Dio preferito tramite offerte e donazioni. E’ una cosa incredibile. Se siete musulmani e vi recate in pellegrinaggio a Istambul alla moschea blu, potrete fare un’offerta alla moschea che verrà certificata con una ricavuta. Una ricevuta. Questo forse perchè possiate farne sfoggio con i vostri amici una volta tornati a casa, per dimostrare loro che bravi musulmani siete,  oppure perchè quando creperete, nel caso la vostra sorte fosse incerta e Allah avesse perso la matrice, voi potrete mostrare la vostra ed assicurarvi così un posto in paradiso. Sempre che i vostri parenti abbiano messo la ricevuta nella tasca del vostro abito funebre. I buddisti, invece, sono più per il divertimento legato all’offerta. Nei templi giapponesi e cinesi è possibile cambiaro denaro contante con dischi di ferro o monete da gettare a volte all’interno di un cerchio, a volte contro una campana. Se fate centro o fate suonare il cembalo, la fortuna è assicurata. Sono procedure discutibili, fanno pensare quasi ad una tangente, ma non è questa la cosa che più mi sconcerta. Ciò che mi lascia allibito è il fatto che io abbia visto più e più volte individui poverissimi donare al Dio di turno alcuni di quei pochi denari che possedevano. Gente affamata e malvestita che anzichè impiegare il denaro per la vita corrente, lo impegna per la vita futura. Ho visto straccioni donare frutta e biscotti in Cina e monaci ben pasciuti sgranocchiare quegli stessi biscotti tra una preghiera e l’altra. Perchè diciamolo: Dio non mangia i biscotti, ma i monaci sì. Teoricamente Dio non ha bisogno nè di casa, nè di denaro, nè di servi, perchè colui che ha creato il mondo, gli uomini, il bene e il male, potrà anche fare a meno del denaro, dico io. Se proprio è ingordo potrebbe crearselo da sè. Ma le istituzioni religiose no. Non ne ho mai viste rifiutare le offerte, non ho mai visto monaci o sacerdoti dire ad un fedele “No, sei troppo povero. Questi soldi tienili tu. Dio capirà”. O Dio non capisce oppure non gli importa. Perchè il flusso di denaro è a senso unico. Non ho idea di come l’autorità ecclesiasitica impieghi il denaro. Certo non per coloro che lo donano, se non in minima parte. Se la parrocchia di Buddha di Ulaanbaatar impiegasse il denaro delle offerte per donare una domenica un aratro al signor Rossi che ha rotto il suo, un’altra domenica per pagare le medicine al signor Bianchi che non può permettersele, allora capirei. Sarebbe un trionfo di umanità. Persone che seppur povere si aiutano a vicenda tramite la mediazione religiosa. Sono oltremodo sicuro che se funzionasse così, nessuno farebbe offerte e tutti si precipiterebbero a recriminare miseria alla porta del tempio. Se non si ottiene nulla, doniamo tutti. Se si riceve qualcosa, ci catapultiamo ad arraffare in massa. La stupidità umana nella sua forma migliore. Ma non c’è da preoccuparsi, è una cosa impossibile a verificarsi. Il Signore dà false speranze e riceve denaro sonante. E’ senza dubbio la truffa più grande della storia. Sì, perchè essendo il premio finale la vita eterna dopo la morte, l’unico modo per scoprire se davvero esiste un Dio e un paradiso e un inferno è quello di crepare. E io non ho mai visto un morto presentare reclamo all’ufficio della curia. Davvero ben pensata. Ripenso a quelle due anziane che mi hanno superato sulle scale del monte Wudan per arrivare al tempio d’oro posto sulla cima per dire una preghiera e donare a Buddha una latta da venti litri d’olio. Venti chili trascinati a fatica sul monte da due settantenni per permettere a Buddha di friggersi i noodles. Non mi metto a parlare dei Cristiani e del Papa perchè non ho abbastanza spazio in wordpress e perchè sarebbero pixel troppo bollenti. Anche qui, però, non è che vada meglio. Se qualcuno volesse approfondire la faccenda denaro – Chiesa, consiglio il libro “La questua”, di Curzio Maltese. E’ un libro che fa incazzare, ma fa capire. Sull’esistenza di Dio consiglio quello di Richard Dawkings “L’illusione di Dio”. C’è perplessità, in me, dopo questa riflessione. Parlando di dottrina pura e semplice, ogni religione ha insiti in sè dei princìpi di valore che sono propri di ogni uomo. Belle parole, chi più chi meno. I cristiani e i musulmani sono tifosi troppo sfegatati nei confronti del loro Dio. Non avrai altro Dio all’infuori di me e Allah è l’unico Dio e Maometto il suo profeta. Qualcuno si sbaglia. Ma i buddisti sono più filosofici, più aperti alle opinioni diverse. Quasi una democrazia in un mondo di totalitarismi. Ma quando si parla di soldi sono tutti una grande famiglia, una famiglia di bisognosi che accetta denaro da chiunque e in qulunque modo. C’è chi compra vestiti, chi automobili, chi parlamentari e chi un posto in paradiso. Non sono ancora riuscito a trovare delle risposte nella religione. Quei princìpi così bene espressi nelle parole che le costituiscono cozzano irrimediabilmente con i comportamenti di chi le professa. A conti fatti è quasi meglio credere in Google: anche lui è onnisciente. E anche lui accetta denaro sonante.


Scusa, hai detto Tibet?

Ulaanbaatar, Mongolia, 22 mar 2011, giorno 70, ore 16:20, ostello

Mi è arrivata la mail che tanto aspettavo: il Tibet è aperto, e sembra lo sia dal 18 di marzo. Sono felice e credo che me ne ritornerò in Cina dopodomani. Domani andrò all’ambasciata Kazaka per sapere se possono farmi il visto. In questi due giorni ho avuto un sacco di informazioni. L’agenzia che mi ha detto Manuel mi ha garantito il visto russo per 130$ americani e in dodici giorni lavorativi. Sono 25$ in meno dell’altra agenzia e in più ho un’assicurazione sanitaria mongola per l’intera durata del visto, cioè 21 giorni. Se le cose dovessero andare per il meglio, una volta giunto a Novosibirsk scenderei dalla Transiberiana per dirigermi verso il Kazakhistan e Astana. Lì farei richiesta per un nuovo visto russo e poi mi dirigerei su Mosca. Spero che la burocrazia, per una volta, non mi crei problemi. Ma torniamo al Tibet. Per motivi di ristrettezze economiche non posso permettermi il treno diretto Ulanbaatar – Beijing. Prenderò invece un treno nazionale per Zamyn-Uud, attraverserò il confine in autobus, in jeep o in autostop, e da Erlian prenderò un altro treno nazionale per Beijing. Il diretto costa 80 euro, la soluzione a tappe 30. E’ un bel risparmio ed è il modo in cui i ragazzi francesi sono arrivati a Ulaanbaatar. Una volta arrivato a Beijing prenderò il treno per Xian, e da lì proseguirò con un altro treno per Xining. Qui sosterò alcuni giorni per abituarmi all’altitudine e poi via, verso Golmud, una delle città più elevate del mondo. Un altro paio di giorni e poi, finalmente, il Tibet, Lhasa. Essendoci solo, “solo”, 800 metri di differenza di altitudine tra Golmud e Lhasa, con questo metodo non dovrei avere nessun tipo di problema per quello che riguarda il mal d’aria. Se dovessi avere qualche capogiro, Luciano, un argentino che ho incontrato a Beijing, mi ha detto di mangiare un po’ di cioccolato e tutto passa. E’ il metodo che lui usa quando vola in Perù dall’Argentina. Quindi direi che sia tutto. Il mio equipaggiamento da montagna/freddo è a postissimo. Gli scarponi mi fanno un po’ male, ma credo che riuscirò ad abituarmi. Passare da un paio di Nike ad un paio di anfibi militari sovietici richiede pazienza. Però il Tibet ha riaperto, il resto non mi interessa.


Freddo, burocrazia e strategia

Ulaanbaatar, Mongolia, 21 mar 2011, giorno 69, ore 16:27, ostello

Di ritorno dalla mia avventura in mezzo alla steppa, la prima cosa che ho fatto è stata andare al gabinetto. La seconda è stata una doccia calda.  Sono quelle piccole soddisfazioni che ti riempiono la vita. Una volta vestito mi sono messo alla ricerca di un equipaggiamento invernale serio. I primi negozi che ho visitato, quelli del centro città, avevano prezzi da Italia, quindi non li ho presi nemmeno in considerazione. La mia unica altra alternativa valida era il mercato nero, così ci sono tornato. Mi sono diretto subito nella zona che avevo visto essere ricca di articoli di mio interesse, e una volta trovato una bella giacca militare mongola imbottita mi sono messo a contrattare. La contrattazione in mongolo non è il mio forte, quella in inglese non è il loro, così ci siamo basati sul linguaggio universale delle transazioni commerciali: i numeri. I cellulari sono una grande invenzione, in questo caso, perchè ti permettono di capire e di farti capire. Basta scrivere quello che vuoi pagare come se fossero numeri di telefono. Non mi ci è voluto molto per trovare tutto quello che mi serviva. Una giacca imbottita, un paio di stivali e un paio di guanti. Il tutto per meno di 35 euro. I pantaloni non li ho trovati, ma dovrei cavarmela in qualche altro modo. Sulla via di ritorno mi sentivo euforico. E’ incredibile come la sensazione di calore cambi il tuo modo di approcciarti a qualsiasi cosa. Adesso non solo non ho più freddo, ma ho anche l’aspetto di un mongolo. E loro sembrano apprezzare.

Ritornato all’ostello ho fatto un’altra grande scoperta che potrebbe cambiare tutto il proseguimento del mio viaggio. In un’agenzia di Ulaanbaatar, consigliatami dai ragazzi francesi, ho scoperto che posso ottenere il visto turistico per la Russia per 155 dollari americani e aspettando due settimane. Niente code, fogli, assicurazione sanitaria; niente. Solo soldi. Questa è una grande notizia. Come se non bastasse, controllando la posta ho trovato un messaggio di Manuel, l’italiano che ho incontrato sul treno per Ulaanbaatar, nel quale mi diceva che presso la sua agenzia sarei in grado di ottenere persino il visto per il Kazakistan. Questo vorrebbe dire che al mio ritorno potrei fare quasi tutto quello che non ho fatto all’andata. Grandi notizie. Devo ancora verificarle di persona, ma sono pittosto fiducioso, poichè le fonti sono valide. Se tutto si rivelerà essere così come ho detto, tornerei presto in Cina, andrei in Tibet e in Nepal e poi me ne tornerei a casa felice e contento con la transiberiana. Sarebbe l’epilogo degno di un viaggio del genere. Incrocio le dita.


A come Avventura

Ulaanbaatar – Terelj (55 km N di Ulaanbaatar), 19-20 mar 2011, giorno 67-68

LA PARTENZA

Mi sono messo sulle tracce dei francesi come un cane. Prima di lasciare Ulaanbaatar non sapevo nemmeno quale fosse la nostra destinazione. Terelj, piccolo villaggio al centro di un grande parco nazionale. La Lonely Planet ci dava un autobus in partenza alle 16:00. Se per caso doveste capitare da queste parti non state a perdere tempo a cercarlo: o non c’è o è introvabile. Ci siamo messi a domandare a chiunque. Chi non sa, chi dice che è qui, chi dice che è lì, chi dice che è dall’altra parte della città. Non lo abbiamo trovato. Abbiamo provato allora a chiedere un passaggio ad un minivan, ma volevano troppi soldi. Nessuno si muoveva per meno di 50.000 Tugrug. Stavamo per abbandonarci all’autostop, uno dei metodi più diffusi per viaggiare attraverso la Mongolia, quando un taxi ci racoglie e ci dice che ci avrebbe portati per 30.000. Ci accontentiamo. Saliamo in macchina e uno dei ragazzi francesi mi dice “Our adventure begins!”.

L’ARRIVO

Dopo circa due ore di viaggio attraverso strade dissestate oltremisura, arriviamo a Terelj. Neve, ghiaccio, monti, qualche casa, tante iurte e ancora neve. Il tipo della macchina cambia idea e ci chiede 40.000 Tugrug. Non esiste, noi non cediamo e alla fine gliene diamo 33.000. Un euro in più non fa differenza. Non facciamo in tempo a fare un passo nel paese che subito tre mongoli a cavallo ci avvicinano e ci chiedono se vogliamo dormire a casa loro. Chiediamo il prezzo per dormire, mangiare e andare a cavallo per tutto l’indomani. La trattativa è difficile, il loro inglese è pessimo e il nostro mongolo inesistente. Si contratta in dollari americani, “No mongol money”, e si scrivono le cifre della transazione sulla neve. Riusciamo a strappare un gran prezzo. 4$ per dormire, 4$ per pasto e 10$ a cavallo. Siamo contenti. Ci rendiamo conto che i nostri ospiti sono tutti ubriachi. Non sarebbe un gran problema, se non fosse che per raggiungere la iurta bisogna montare a cavallo con loro. Montiamo in due, un mongolo e un europeo per ogni cavallo. Loro hanno le redini, le staffe e metà sella. Noi abbiamo solo l’altra metà e fatichiamo non poco per restare in equilibrio. Il mio compagno ad un certo punto cade. Non crdo che sia stata la posizione scomoda, credo che fosse troppo sbronzo per restare in sella. Il mongolo, tuttavia, non fa una grinza. Si alza, tira un calcio al cavallo e rimonta in sella. Dopo dieci minuti di cavalcata arriviamo a destinazione.

Terelj

LA IURTA E IL PASTO

Le iurte mongole sono tende, in sostanza, ma non hanno nulla a che vedere con quelle che usiamo in Europa per andare in campeggio. Sono piuttosto vere e proprie case mobili. Hanno una porta in legno e una stufa a legna al centro, quattro letti, un tavolo e quattro sgabelli e hanno un raggio di circa tre metri.  Si sta come in ostello, forse meglio. La stufa diffonde un calore che è una bellezza a sentirsi e lo spazio non manca. Dopo una mezz’ora portano la cena. Si tratta di Goulash mongolo, un piatto a base di riso con carne di non so che tipo e cipolle. Siamo tutti affamati e divoriamo il pasto come lupi.

Io davanti a una iurta

I FRANCESI

Non potevo desiderare di meglio per questa gita. I ragazzi francesi si sono rivelati essere compagni di viaggio formidabili. Si parla del più e del meno, della vita in Francia, di quella in Italia, dei viaggi fatti e dei piani per il futuro. I ragazzi hanno anche con loro una scacchiera da viaggio, così la sera trascorre tranquilla. Una partita a scacchi ai confini del mondo civilizzato. La stufa ha un solo problema: bisogna alimentarla. Se si è svegli, è facile, ma durante la notte è un inconveniente. Ci siamo svegliati tutti per il freddo circa tre volte, e ogni volta abbiamo riacceso il fuoco. La temperatura all’esterno sarà stata al di sotto dei meno venti, quindi la iurta priva del fuoco è impossibile da vivere.

Gli avventurieri

IL FREDDO

La mattina ci svegliamo e ci prepariamo per la cavalcata. I ragazzi francesi, saggi, hanno comparto a Beijing il loro equipaggiamento invernale. Tute da sci, giacche a vento, guanti da sci e scarponi impermeabili. Io mi presento con le mie Nike, una calzamaglia di pile e una tuta e la giacca cinese che ho comprato a Kaiping. Uno dei miei guanti ha raccolto un tizzone ardente durante la notte e ha il pollice bruciato. Un barbone e due professionisti. A posteriori, forse, sono stato un pazzo ad affrontare ciò di cui dirò in seguito senza un equipaggiamento adeguato, ma ad Ulaanbaatar mi sentivo in grado di fare tutto. Qui però non eravamo ad Ulaanbaatar. Basti pensare che pochi minuti dopo essere usciti dalla tenda, la mia barba ed i miei baffi erano sempre completamente ghiacciati. Coprirli con la sciarpa è stata un’idea stupida, perchè una volta sciolto il ghiaccio, quindi diventao acqua, dopo pochi istanti ad essere ghiacciati sono sia la barba che la sciarpa. Per riempire le nostre bottiglie ci siamo fatti portare dell’acqua bollita, evitando così i germi mongoli. Pensavo che non sarei riuscito a bere acqua fresca per almeno un paio d’ore, invece dopo aappena mezz’ora, non solo l’acqua era freschissima, ma all’interno della bottiglia era possibile vedere alcuni pezzi di ghiaccio. Non ho mai provato un freddo simile in tutta la mia vita.

Freddo

I CAVALLI

La prima cosa che ci hanno detto i mongoli sui loro cavalli è stata “Mongolian horse crazy”. Nessuno di noi tre aveva mai avuto esperienza coi cavalli. Nonostante gli avvertimenti, i mongoli ci fanno montare e ci abbandonano un po’ a noi stessi. Due cose ci insegnano (se è possibile utilizzare questa parola): per fermare il cavallo tira le redini verso di te e per farlo muovere dagli una pacca sul sedere gridando “CHOW”. Tutta qui la lezione di equitazione. In meno di cinque minuti, secondo loro, siamo in grado di partire. Va detto che i mongoli ci tengono che i loro cavalli camminino, e per essere sicuri che lo facciano, oltre ad aizzarli con le grida utilizzano calci, schiaffi e bastonate. Folkloristico, ma quando stai avanzando e il mongolo da dietro sprona il tuo cavallo senza che tu ne abbia la minima idea, allora diventa tutta un’altra storia. Il mio cavallo, per fortuna, è abbastanza tranquillo. Essendo io un grande fan del film “L’uomo che sussurrava ai cavalli”, ho speso un sacco di tempo a parlare al mio cavallo e ad accarezzargli il collo. Forse parlare in inglese ad un cavallo mongolo è una cosa abbastanza inutile, ma non ho mai avuto problemi con lui. La stessa cosa non si può dire dei ragazzi francesi. Uno di loro è stato disarcionato, mentre l’altro ad un certo punto ha perso il controllo del cavallo e si è fatto una galoppata non desiderata. Quando l’ho raggiunto mi ha detto di non avere mai avuto tanta paura in vita sua. La sella è di cuoio e dopo appena un’ora diventa insostenibile. Il culo fa male e, a causa del moto del cavallo, anche la schiena comincia a subire. Non essendo abituato ai movimenti, metto tutta la mia forza nelle gambe e sulle staffe, quindi anche le gambe dopo un po’ cedono. Ma il paesaggio vale tutto questo. Un’area totalmente incontaminata. Neve, alberi e pendii rocciosi a perdita d’occhio. Mi sento un sacco avventuriero a percorrere a cavallo queste terre. Siamo tutti su di giri per questa esperienza, io e i ragazzi francesi, ma dopo tre ore il freddo ha la meglio. Giuro che ero strasicuro che avrei perso almeno un paio di dita dei piedi. Non sentivo più nulla dalla vita in giù. Le gambe paralizzate, i piedi inesistenti. Avrebbero potuto tagliarmeli che non avrei sentito alcun male. Il mio pollice, scoperto a causa del tizzone, era violaceo. A nulla è servito tenerlo tra i crini del cavallo. Bisognava tornare, non c’era soluzione. Una volta rientrati nella iurta ci siamo mesi vicini vicini attorno all stufa che quella brava donna di casa mongola aveva mantenuto accesa durante la mattinata. Ci viene servita una zuppa di carote e quant’altro con alcuni ravioli cinesi e riso. Io ero talmente affamato che avrei mangiato del legno. Il pomeriggio, di nuovo sui cavalli, è stato molto meglio. Il freddo era meno pungente e inoltre avevamo maggiore dimestichezza coi cavalli. Io ho discusso con la nostra guida. Il mongolo aveva raccolto una sferza e ogni volta che si avvicinava al mio cavallo, questi si spaventava e faceva le bizze per paura di essere frustato. Non ho detto nulla, da principio, ma poi la situazione è degenerata. Una frustata nel punto giusto e il mio cavallo è impazzito, è saltato in mezzo alla neve ed ha comiciato a scalpitare. Io sono riuscito a restare in sella (i ragazzi francesi hanno applaudito, mi hanno detto che sembravo Jhon Wayne) e una volta tranquillizzato il cavallo sono andato dal mongolo e gli ho detto di stare lontano da me. Credo che abbia capito, perchè da quel momento mi ha lasciato solo in coda al gruppo. Qui ho cominciato davvero a cavalcare. Ho scoperto che non era sufficiente incitare il cavallo con le urla ma bisognava incitarlo coi garretti nei fianchi. Poche garrettate vuol dire al passo, tante garrettate vuol dire al galoppo. Piano piano diventavo padrone della bestia e la conducevo come più mi piaceva. E’ stata un’esperienza incredibile. A cavallo in un deserto di ghiaccio: una vera avventura.

IL RISULTATO

Dopo tutto questo il risultato è che ho male al culo e alla schiena. Le gambe hanno la carne greve nonostante i miei 60 giorni e più di cammino. Però lo spirito si è arricchito e il morale è sempre più alto. Siamo rientrati ad Ulaanbaatar in autobus. Il viaggio è stato piacevole e i mongoli si sono dimostrati contenti di averci a bordo. Mi piace la Mongolia. E’ un luogo ancora incontaminato, dove gli abitanti sono nomadi per la maggior parte e dove la densità di popolazione in certe zone raggiunge la cifra di un abitante ogni tre chilometri quadrati. Credo che tutto questo cambierà. Il turismo si affaccerà sempre di più e questi prezzi inevitabilmente si alzeranno. Come se non bastasse il governo ha un progetto in corso per costruire nuove città. Nuove abitazioni, meno tende e meno nomadi. Ma non credo che il nomadismo cesserà mai di esistere su queste terre. I discendenti di Gengis Khan sono nomadi, ce l’hanno nel sangue e credo che si manterrano tali anche per i millenni a venire.


Incontri

Ulaanbaatar, Mongolia, 19 mar 2011, giorno 67, ostello

Quello che sembrava essere la casa di un brutale marito, si è rivelato invece essere il modo migliore per risolvere i miei problemi. Ieri sera era veberdì ed io sono andato in disco. Sì, una vera disco mongola. Ci sono andato assieme alle ragazze americane che lavorano in Mongolia e che sono qui da sei mesi e con due ragazzi francesi. Questi due ragazzi, soprattutto, sono stati la mia benedizione. Oggi, infatti, andrò con loro per una gita fuori Ulaanbaatar in un parco naturale. Non so nè dove, ne come, ma sono già felice di poter finalmente vedere questa terra magica di cui tutti parlano. Andarci da solo sarebbe costato molto di più, ma in tre divideremo come i bravi fratellini. Mi trovo bene con loro, mi sembrano simpatici e soprattutto sono in viaggio da settembre, quindi di esperienza ne hanno da vendere. Mi hanno anche detto che per loro è possibile richiedere il visto russo qui a Ulaanbaatar. Una notizia che mi ha fatto impazzire. Se possono loro, che sono francesi, perchè allora non io che praticamente sono loro fratello. Burocraticamente parlando, s’intende. Ma torniamo alla mia serata. Le discoteche mongole, mi dispiace deludere l’uditorio, sono quasi come quelle italiane. Una pista, un DJ, un bar e qualche tavolino. Niente stanze coperte di tappeti o di pelli, per intenderci. L’ingresso costa 10.000 MRT, che sono tipo sei o sette euro, e il guardaroba è compreso nel prezzo. Il bar, dalla sua, offre una selezione di vodke che vanno dal distillato di patate fatto in casa, la scelta più economica, per arrivare fino alla Viborowa o alla Moskovskaya (credo si scrivi così). Per ogni bevanda è possibile scegliere la quantità da comprare: 50 ml, 100 ml, o la bottiglia intera. Alla faccia del “Bevi la vodka responsabilmente”. La cosa che mi ha fatto quasi piangere, è che c’era anche il Martini. Incredibile, ma vero. Oltretutto venduto ad una cifra anche accettabile, considerando che lo si trova quasi dall’altra parte dle mondo. La cosa più divertente del locale, comunque, sono di certo i mongoli. A parte il fatto che l’abbigliamento da pista va dalla camicia alla maglietta della CorriUlaanbaatar, loro fanno proprio sputtanare. Non sono tamarri, ma ballano (mi viene da dire come dei mongoli, ma la descrizione sarebbe obsoleta in questo caso, in quanto è sicuro che un mongolo balli come un mongolo) in maniera molto divertente. le americane sono state circondate da attenzioni maschili, come è logico, ma anche noi siamo stati circondati di attenzioni maschili. Tutti che venivano lì, ti volevano stringere la mano, ti chiedevano da dove venivi, se ti piaceva la Mongolia, se volevi bere con loro. Fantastico, davvero un’esperienza da rifare.

Tra due ore e mezza ho il bus che mi porterà coi ragazzi francesi alla scoperta di un luogo a me ignoto. Per qualche giorno sarò irreperibile, dunque. Ci vediamo quando torno alla civiltà. Ci rivediamo a Ulaanbaatar.


Il Mercato Nero: Naran Tuul Market

Ulaanbaatar, Mongolia, 18 mar 2011, giorno 66, ostello

Contrariamente a quello che si può pensare d’istinto, il mercato nero di Naran Tuul non è quel posto dove si possono cambiare i soldi sottobanco e dove si possono trovare le mercanzie di contrabbando. Semplicemente viene chiamato così, senza nessuna ragione a me conosciuta. Leggendo sulla guida che si tratta di uno dei mercati più estesi dell’Asia, mi è venuta voglia di andarlo a visitare. inoltre avevo intenzione di cercare un bel pastrano russo vecchio stampo da aggiungere al mio guardaroba per proteggermi dal freddo. le indicazioni erano un po’ vaghe, ma chiedendo in ostello mi è stato indicato l’autobus numero 23. Arrivo alla fermata e aspetto. I mongoli non fanno tanto caso a me. Ripensando alla Cina, sono preparato a tutto quello che può capitare sull’autobus. Solo una prcauzione aggiuntiva, in questo caso: la guida diceva che il mercaato è il luogo migliore di Ulaanbaatar per incontrare scippatori e rapinatori. Forte di questo avviso, ho lasciato tuto in ostello. Avevo con me solo 30 euro in valuta mongolaa e 15 dollari americani. Ero in una botte di ferro. Salito sull’autobus rimango deluso. Anche qui nessuno fa caso a me. potrei esserci come non esserci che per i mongoli è lo stesso. Solo un signore anziano mi si avvicina per dirmi di sedersi al suo posto. io lo ringrazio ed insisto affichè si sieda lui, ma questi non ha voluto sentire ragioni. Una volta seduto, il vecchio mi chiede se sono tedesco. Tedesco? Rispondo che sono italiano. Annuisce e smette di considerarmi. ad un certo punto succede un fatto strano. L’autobus si ferma e tutti scendono. Nello scendere un ragazzo mi afferra per il braccio e mi trascina giù con lui, mi spinge verso una ltro autobus e poi mi ci8 butta dentro. io lo guardo senza capire, ma lui sorride e mi fa segno di ok. Va bene, andiamo avanti. Dopo qualche minuto si arriva al capolinea. lo capisco perchè l’autobus fa una grande curva e poi tutti i passeggeri scendono. non c’è traccia da nessuna parte di uno dei mercati più grandi dell’Asia. Siamo arrivati in periferia, le strade non sono più asfaltate e in generale c’è un’aria di degrado. Chiedo all’autista se mi sa indicare la strada per il mercato. O meglio, tiro fuori la Lonely Planet e gli faccio leggere il nome del mercato in cirillico. lui fa segno di sì con la testa e mi con la mano mi fa capire che il mercato è tutto intorno. Non capisco ma ringrazio e scendo. Non sapendo bene che cosa fare e dove andare, mi metto a seguire gli altri passeggeri. Ci addentriamo in una specie di…. No, non trovo le parole giuste. Per semplificare dirò che camminavo per una strada di sassi tra case fatiscenti, rottami e immondizia. Sì, è una buona descrizione. Addemtrandomi in questa baraccopoli, passatemi il termine, si arriva ad un muro. E’ un muro tipo il muro di Berlino, ma più basso e con molti buchi larghi abbastanza da diventare porte. attraversata la porta arrivo in un parcheggio e in lontananza vedo la porta di quello che immagino essere il mercato. I frequentatori di questo mercato vanno dagli anziani ai giovani, dagli ubriachi che stramazzano nel fango alle dieci di mattina alle mamme coi bambini. Non è pericoloso, non mi sento affatto intimorito o spaventato. Semplicemente nessuno mi considera. io per loro non esisto. Arrivato ala porta del mercato mi è richiesto un pedaggio del valore di due centesimi di euro. Avevo letto di questo biglietto d’entrata, quindi sono sicuro di essere nel posto giusto. Il mercato è davvero enorme. Si può descrivere come un ammasso sconclusionato di banchetti e di ambulanti che vendono di tutto. Biancheria, scarpe, corde, zaini, antiquariato, bagni, vestiti e qualunque altra cosa vi venga in mente. Le file non sono proprio ordinate, ma la folla non è tanta, quindi mi muovo con agilità. I settori sono divisi, senza indicazioni, per genere di merce venduta. I venditori sono tranquilli, le uniche grida che si sentono sono quelle degli ubriachi. Passeggio tranquillo tra le bancarelle. Se non trovo qui il mio pastrano sovietico, non lo troverò da nessun’altra parte. Difatti, poco dopo, arrivo nella zona delle giacche: Nike, North Face, Adidas e altre marche occidentali clamorosamente false, riposano accanto ad abiti tradizionali mongoli e giacche di pelle di fattura cinese. Ci sono anche le giacche che cerco io, ma sfortunatamente o sono il modello corto, inutile con questo vento, o il modello militare. Niente giacca. I prezzi sono molto bassi, meno della metà di quello che si pagherebbe in un grande magazzino del centro. la mia ricerca continua per quasi due ore. In tutto questo lasso di tempo nessuno, nessuno mi ha mai chiesto di comprare o di dargli qualcosa o di vedere qualcosa. Sarà il freddo o la bassa stagione, ma gli stranieri qui non vengono minimamente considerati. Anche per quello che riguarda i borseggiatori, ho da ridire. Per quanto io fossi l’unico uomo bianco del mercato, mai, in nessun momento mi sono sentito osservato o seguito o taccato da nessuno. Forse in agosto, per via del boom dei turisti, è diverso, ma io mi sento di dire che non c’è alcun pericolo. Al ritorno non sono riuscito a trovare l’autobus. Il 23 non passava dal mercato e quello che lo ha sostituito all’andata non aveva numero, solo scritte. Me la sono fatta a piedi. Per quanto abbia un milione di abitanti, a me Ulaanbaatar sembra piccolissima. Forse è un’impressione, ma mi sembra molto, molto più piccola di Modena. Però ha uno dei mercati più grandi dell’Asia. Una chicca: sono capitato per caso nel settore dei giocattoli. Mentre nella zona NATO del mondo i bambini che giocano con le armi finte annoverano nel loro arsenale M4, M16 o Berette, nel ex blocco sovietico i pargoli hanno invece AK-47, AK-74 e Dragunov. Grazie Guerra Fredda per queste deliziose differenze.


Violenza domestica o sesso sfrenato?

Ulaanbaatar, Mongolia, 18 mar 2011, notte, ostello

Un urlo. Mi sveglio. Un altro. Che succede? L’americana nel letto a fianco al mio russa come la filarmonica di San Francisco. Accendo la torcia e vedo che i letti sono tutti vuoti. Hum. Che sia stato un sogno? No, le urla continuano. Tendo l’orecchio, ma non riesco a capire se sono di piacere o di dolore. Mi alzo dal letto, apro la porta e resto in ascolto. Si sente parlare, poi un rumore come di lotta e infine altre urla. In quell’istante fa capolino dalla porta della sala comune un’altra ragazza. E’ perplessa quanto me, se non proprio spaventata. Mi chiede se so cosa stia succedendo. Non ne ho idea. Restiamo in ascolto: il misterioso avvenimento continua. Stanno facendo sesso? mi chiede la ragazza. Non credo, secdondo me si menano, e a giudicare dalle urla, la donna è in svantaggio. Dalle voci soffuse e dai rumori e dalle urla avevamo capito solo questo: dentro alla stanza misteriosa da cui provenivano le urla c’erano un uomo e una donna. Entro nella sala comune e vedo che ci sono altre ragazze che si stanno chiedendo cosa fare. Qualcuna propone di bussare, un’altra di chiamare la polizia, un’altra ancora di chiamare il loro supervisore e sentire cosa dice. Optano per quest’ultima scelta. Ho scoperto più tardi che queste quattro ragazze sono delle americane che fanno servizio di volontariato nei corpi di pace o  una cosa del genere, ma questa è un’altra storia. Mentre si svolge la discussione e la telefonata, i rumori, o forse dovrei dire le urla, continuano. A volta mi sembra addirittura di sentire rumori come di schiaffi o di una persona che sta soffocando. Il loro supervisore dice di non chiamare le polizia, dice di aspettare cinque minuti e poi le avrebbe richiamate. Non succede nulla di nuovo. Le ragazze sono particolarmente preoccupate. Vorrebbero andarsene, ma sono le tre di notte e Ulaanbaatar a quest’ora non è il massimo. Io sono stupito ma non spaventato. So che è brutto dirlo, ma magari da queste parti menare la moglie e strozzarla è normale. Discutibile come usanza, non c’è che dire, ma non meno di altre. Forse più grave, ma comunque un’usanza. Magari invece il tipo è un pazzo omicida e le leggi mongole lo condannerebbero a morte. Non lo so.  So solo che in tanti anni e in tanti ostelli, non mi era mai capitata una cosa del genere. Adesso si sente il pianto di una donna provenire dalla stanza. Parla, dice qualcosa, ma dei rumori sordi le impediscono la favella. Sono pugni? Altre urla e altri pianti. Il supervisore richiama e dice che ha intenzione di chiamare l’ostello per sentire se è tutto a posto. Nel caso in cui la voce del proprietario o qualcosa di altro non l’avesse convinto, avrebbe chiamato la polizia. Il telefono suona. Nessuna risposta. Suona di nuovo. Stavolta qualcuno risponde. Siamo tutti zitti, fermi immobili, non osiamo nemmeno respirare per cercare di cogliere qualche significato nelle parole che udiamo. No, no, no. Everithing ok. Everibody sleeping. Il telefono riattaccato e la porta richiusa a chiave. Il supervisore richiama. Dice che gli è stato detto che la confusione è stata creata da un ospite che ha lasciato l’ostello, ma che adesso è tutto tranquillo. In effetti c’era un letto occupato da una ragazza che al momento manca all’appello, ma non crediamo che sia la verità. Ciononostante le urla cessano e con essi i rumori sordi. Tutto sembra tranquillo. Non del tutto convinti andiamo a letto e rimandiamo le spiegazioni all’indomani mattina.

Ore 10:12

Mi sveglio e ricordo gli avvenimenti della notte. Sembra incredibile. Questo è uno degli ostelli più belli che abbia mai visto, e al mio check in il personale sembrava un pezzo di pane. Tutti gentili, tutti servizievoli, tutti sorridenti. Mi vesto e cerco la proprietaria. Se è stata picchiata di sicuro ne porterà i segni sul corpo o addirittura sul viso. La incontro nella sala. Mi sorride e mi chiede scusa se durante la notte c’è stata un po’ di confusione. Il suo viso è perfetto, le braccia non presentano lividi o altro, la postura è corretta. L’ho esaminata a lungo e attentamente prima di dirle che se non era un problema per lei, non lo era nemmeno per me. Non so se abbia colto l’invito e l’abbia ignorato, ma non ha detto nulla e io mi sono messo a fare colazione. Le ragazze parlano di cambiare ostello. Se così fosse io rimarrei l’unico ospite nel caso nessuno venga alloggiato oggi. Non mi interessa più di tanto. Magari c’è un’altra spiegazione a tutto quello che è avvenuto; non era nè sesso nè violenza domestica, ma una televisione a volume troppo alto, la prova di una tragedia, un ballo rituale mongolo che si svolge alle tre di notte in camera col coniuge. Non lo so. Se però dovessi scommettere, io punterei sulla violenza domestica. Welcome to Mongolia, mi sorridono amaramente le americane.


Oggi cucino io: la Mongolia

Ulaanbaatar, Mongolia, 17 mar 2011, giorno 65, ore 15:45, ristorante dal nome impronunciabile

Ecco la ricetta per preparare la Mongolia. Prendete un po’ di Norvegia, abbondate ma levatene il filetto. Unite ora una buona dose di Siberia. Quella che trovate sulle cartoline va benissimo. Spolverate il tutto con un pizzico di Cina. Mescolate bene, curandovi di togliere tutte le case che trovate sparse, e lasciate riposare in freezer per qualche ora. Servite ben freddo. Il piatto non è di vostro gusto? Forse che è un po’ troppo per voi? Allora provate quest’altra ricetta, quella di Ulaanbaatar. Chiedete al vostro negoziante di fiducia di tenervi da parte per una settimana tutti i casermoni sovietici su cui riesce amettere le mani. Prendeteli e coloratene qualcuno di azzurro pallido o di verde acqua, gli altri lasciateli grigi. Una volta fatto ciò aggiungete qua e là qualche costruzione di fattura cinese. Senza esagerare. Cospargete il tutto con fango e ghiaccio e arricchite con abbondante vento freddo del nord. Forti raffiche costanti se riuscite a trovarne. Per servire al meglio questo piatto, adagiatelo su un reticolato di strade dissestate e infestate da un traffico tipo Manhattan nell’ora di punta con una dose di clacson cinesi. Servite gelato.

L’arrivo a Ulaanbaatar col treno è piuttosto bizzarro. Un momento prima sono iurte e deserto, un momento dopo si scende in città. Se vi voltate verso la direzione da cui siete venuti ecco riapparire le iurte e il deserto. Non ingannatevi: la stazione non è in periferia, ma a quattro chilometri dal centro. Non sono mai stato a Murmansk o nell’estremo nord della Russia, anche se spesso mi ci sono recato nei miei viaggi immaginari. Bè, se la dovessi dipingere a fantasia, la dipingerei esattamente come la città che mi circonda in questo momento. Aggiungerei soltanto il mare, di cui qui non c’è traccia. Non è una brutta città, in fondo. Credo che necessiti di un po’ di tempo per abituarcisi. Il freddo, però, è reale. Non tanto per la temperatura, di cui tra l’altro ignoro il valore, quanto per il vento. Un soffio gelido, potente e costante, che metterebbe a dura prova persino gli abitanti di Trieste. I Mongoli invece sonop tranquilli. Molti di loro girano beati sonza sciarpa, cuffia o guanti. Tempra d’acciaio, quella mongola. Non così la mia, che risente di quest’aria che penetra nei vestiti come aghi e ghiaccia le coscie e il viso. Per mantenersi al freddo, è risaputo, bisogna bruciare molte calorie, e ciò mette fame. Sorpresa delle sorprese, la Mongolia non ha l’onore di annoverare tra i suoi ristoranti nessuna catena di fast food occidentali. Almeno io non ne ho trovate. Poco male, ho una fame che mangerei persino le frattaglie di montone bollite e servite in brodo. Niente del genere, per fortuna. Entrando in un locale a caso mi servono pollo al forno, riso, patate, carote e salsicce viennesi. Il pasto più europeo che abbia mai mangiato da due mesi a questa parte. Ho visto che servono anche una specie di spaghetti al ragù, “spaghetti alla bolognaise”. Credo che li assaggerò, se non altro perchè il loro prezzo, un euro e mezzo, vale tutto il rischio che si corre.


Il risveglio

Linea Pechino – Ulaanbaatar – Mosca, 17 mar 2011, giorno 65, ore 9:23, treno

Un rumore metallico mi desta dal mio dormire. Nello scomparto fa freddo, ma la coperta che mi avvolge mi impedisce di sentirlo. In ventisei ore di viaggio ne avrò dormite quattordici. Manuel, se possibile, forse anche di più. Uno dei viaggi più piacevoli che abbia mai fatto. All’improvviso mi rendo conto di dove sono. Il confine mongolo è stato superato con successo all’una di notte, ricordo. Quindi adesso sono in piena Mongolia. Il treno è fermo, quindi sono in una stazione. Vediamo come sono le città mongole. Mentre pensasvo a tutto questo ero sdraiato. Mi alzo, indosso gli occhiali, mi avvicino al finestrino e tutto quello che vedo è niente: una stalla, una decina di iurte e il deserto. La città è tutta qui. Rimango molto meravigliato da tutto ciò, sembra di essere in un western di Sergio Leone. A conferma della mia sensazione, un cespuglio secco rotola spinto dal vento sul binario. E poi un altro. E un altro. Cerco a lungo Clint Eastwood, ma non lo scorgo. Il treno riparte e persino quelle poche tende che costituivano la città, spariscono per lasciare posto ad un ambiente spoglio e desolato, ma totalmente incontaminato. Non una strada, non una linea elettrica turbano la sua desolazione. Tutto è come perso in un incanto, addormentato. O forse sono solo io che sto ancora dormendo e questo è un sogno. Benvenuto in Mongolia.


Il treno

Cina, 16 mar 2011, giorno 64, ore 12:00, treno Beijing, Ulaanbaatar, Mosca

Il treno su cui giungerò in Mongolia, mi dicono appartenere alla linea Transmongolica, il ramo mongolo della Transiberiana che arriva fino a Beijing. Questo stesso treno sul quale sono coricato a scrivere, arriverà a Mosca tra otto giorni. Tutto questo lo so per due motivi: il primo è che su ogni carrozza c’e scritto in cinese, russo e mongolo Beijing, Ulaanbaatar, Moskva, il secondo è che nel mio stesso scompartimento ho ritrovato un italiano: Manuel. Siamo gli unici due a dividere lo scompartimento. Costui ha quarantadue anni, come lavoro fa l’accompagnatore turistico ed è un esperto di treni. Vive a Londra, quando non è in viaggio, e laggiù per quindici anni ha lavorato come capotreno sull’Eurostar della tratta Londra – Parigi – Bruxelles. Da un paio d’anni ha voltato pagina e accompagna i turisti per un’agenzia londinese attraverso le ferrovie, soprattutto orientali, che conosce così bene. Russia, Cina, Mongolia, Europa dell’est e Turchia sono ormai per lui come una seconda casa. Mi ha raccontato tantissime cose interessanti, sia sui treni che su ciò che gli è capitato. Di gran lunga l’incontro migliore che abbia mai fatto su un treno.

La Transiberiana mi affascina tantissimo, non c’è che dire. Una strada ferrata che corre da un capo all’altro del mondo attraversando paesaggi incantati e desolati allo stesso tempo. Prometto a me stesso che quando sarà il momento farò di tutto per poter tornare a casa viaggiando su quel treno. La Russia, come sempre, esercita il suo richiamo su di me. Mi chiama e mi attira ogni volta che anche solo ne parlo.

Lasciando Beijing si attraversa una terra arida e inospitale. Tutto è dello stesso colore, un marrone terra secca che alla luce abbagliante del sole fa apparire tutto come se fosse un immenso deserto. Alberi spogli dello stesso colore della terra e fiumi ghiacciati grigio sporco sembrano dipinti sulla tela del Pianeta. Sullo sfondo, il pittore, ha posto delle catene montuose; brulle, aride, marroni anch’esse. Non una casa o una macchia di vegetazione si scorge sulla loro nuda roccia. Alcune serre, alcuni campi incolti su cui è riconoscibile la geometria dell’uomo. E’ tutto qui. Il treno scivola lentamente sulle rotaie, le quali formano l’unico segno inconfutabile della presenza dell’uomo su querste terre. Almeno su una piccola parte di esse. Sembra che il treno domandi il permesso per attraversarle. All’interno delle carrozze fa un po’ freddo. Il riscaldamento è indipendente per ogni carrozza, la quale possiede un comignolo ed una stufa a carbone. Si riesce proprio a percepire tutta la tradizione, tutta la storia di questa linea ferroviaria anche solamente passeggiando lungo i corridoi del treno. Tutto è poesia, tutto è romantico. Il viaggiatore sul treno storico che attraversa il deserto per giungere nell’Impero. Quali orizzonti mi porgeranno il saluto una volta attraversate le montagne? Un altro deserto, questa volta quello del Gobi, una creatura temuta da tutti e rispettata dai più. Mi sto avvicinando lentamente ad uno dei punti più inospitali ma allo stesso tempo affascinanti della Terra. La geografia remota del sussidiario delle elementari vissuta di persona. Non un rumore, non un movimento sembra trapelare al di là del finestrino. Una cartolina reale che scorre col treno, che viaggia con lui. Lo scompartimento sembra un piccolo salottino, per quanto eccezionalmenmte spartano. Quattro letti, non sei come sui treni di linea cinesi. Può sembrare una differenza da nulla, una bazzecola, ma dove si sta stretti e male in sei, si sta alquanto bene in quattro. Senza contare, poi, che per ora siamo solo in due. Nel salire sul treno ci consegnano anche due buoni pasto, premura del tutto inattesa. Pranzo dalle 11:30 a mezzogiorno e cena dalle 17:30 alle 18:00. Il bagno ha un water, un rotolo di carta igienica e persino un coprisedile igienico. Il letto è lungo e largo, ci sono un cuscino vero, un lenzuolo e una coperta. Un treno di lusso, secondo i miei standard, sebbene abbia pochi passeggeri. Ma non mi preoccupo, mi siedo col mio compagno di viaggio e mi godo il panorama.

Improvvisamente appare qualcosa a nord, nel paesaggio. E’ un muro enorme che si snoda lungo la vallata fino a perdersi tra i meandri della montagna. Un serpente di pietra disseminato da torri d’avvistamento che corre inarrestabile parallelo al treno. E’ lei, la grande muraglia. Un regalo d’addio giunto d’improvviso e prezioso, un souvenir da parte della Cina che mi augura buon viaggio. Per togliermi ogni dubbio chiedo conferma al controllore. E’ lei, giunge la conferma. Non posso chiedere di meglio da questa tratta. Nessun restauro, nessun turista. Niente cartelli, autobus o ambulanti. La muraglia cinese originale così come doveva apparire ai viaggiatori del passato. L’Atomica Cinese dei Modena in questo frangente ha tutto un altro sapore. Alcuni contadini cessano il loro lavoro per vedere il treno passare. Con due treni alla settimana, forse qui è ancora un avvenimento per cui valga la pena fermarsi a guardare.


Arrivederci Cina

Beijing, Cina, 15 mar 2011, giorno 63, ore 23:00, ostello
Ultima notte in Cina. I preparativi sono ultimati e dopodomani sarò in Mongolia. Ho conosciuto una coppia in ostello, lei svedese, lui australiano, che sono arrivati proprio da Ulaanbataar. Hanno parlato di una città accogliente e meravigliosa. Unico neo la temperatura che, a sentire loro, la notte, raggiunge i meno venti gradi. Il mio equipaggiamento non so se potrà reggere. Per i vestiti basta mettersi addosso tutti quelli che si hanno nello zaino, ma per i piedi c’è poco da fare. Le mie Nike si sono distinte durante questo viaggio, ma hanno parecchi buchi, quindi forse sarò costretto a rimpiazzarle. Lo farei con dispiacere. Per quanto mi sia stato sconsigliato di partire per un viaggio del genere con un paio di scarpe da ginnastica, devo smentire tutte le voci. Sono state eccezionali. Mai una vescica, mai i piedi bagnati o qualunque altro disagio. Nel fango, nella pioggia, lungo la strada o attraverso la foresta, non hanno mai dato alcun segno di debolezza. Chapeau per il signor Nike.

Sono contento di lasciare la Cina. Ho davvero voglia di cambiare aria, e per quanto non abbia la più pallida idea di quello che mi attenda, sono ricco di entusiasmo per il Paese che sto per raggiungere. La Mongolia, terra di deserti e di cavalli. Si dice che ci siano più cavalli che uomini. Si dice anche che i mongoli abbiano il vizio di alzare il gomito, ma perchè biasimarli? A sentire chi ci è già stato, essi si rivelano un popolo ospitale e gentile, disposto ad aiutarti e aperto agli stranieri. Questa è la teoria, per la pratica bisognerà aspettare. Per ingannare l’attesa ho pensato bene di farmi truffare. Una piccola truffa, la prima, una bazzecola che fa sorridere. Si tratta di Marlboro. Oggi ho comprato il mio primo pacchetto di sigarette falso. Bruciano in trenta secondi e hanno un gusto che sa di cartone. Le ho regalate ad un passante. Lui era tutto contento, mille sorrisi e ringraziamenti. Aspetta di fumarle, campione. Forse però, conoscendo i cinesi, le troverà buonissime.

L’unico scoglio che non sono riuscito a superare è quello della valuta. Gira voce che la valuta mongola, in Mongolia, riscuota poco successo. Il dollaro americano, d’altro canto, è accettato come l’oro, quasi come se fosse la valuta ufficiale. Quando ero ad Hong Kong avevo trovato una banca che al bancomat ti faceva scegliere se prelevare dollari o valuta locale. L’ho ricercata a lungo, ma invano. Sono costretto a cambiare i soldi cinesi che mi sono avanzati in dollari. E’ uno spreco enorme. Oltre a dover pagare la commissione della banca al prelievo, il tasso di cambio fa invidia a quello delgi strozzini. Su www.xe.com controllo periodicamente i tassi di cambio e verifico con l’estratto conto della mia banca quanto questi signori trattengano per il loro disturbo. Tutte le volte sono circa dieci euro, tra commissione e tasso sfavorevole. Se a questi ci si aggiunge la commissione dello sportello di cambio, quello che ci rimetto su 200 euro sono circa 15, 20 euro. Non male, per la fatica che fanno. Eppure i dollari sono necessari. Anche la svedese me lo ha detto. 150 dollari americani nel portafoglio possono fare la differenza in certe situazioni. Quando arriverò in città, pertanto, seppur malvolentieri cercherò un cambio.

Per la prima volta ho anche contattato l’ostello per farmi venire a prendere alla stazione. Come i veri signori. Arrivo, mi prendono il bagaglio e mi portano all’ostello. Il Montecristo dei poveri. Non mi costa nulla, quindi mi sembrava stupido non approfittarne. Chissà, magari ci prenderò gusto a farmi trattare come un signore. Oggi mi sono anche fatto la doccia e ho cambiato gli abiti. Alcuni, la tuta no. Da che io mi ricordi la indosso da Chegdu. Il bagno però era doveroso, più che altro per quelli che dormiranno in treno con me. Lavarsi è come il sonno e il mangiare. Se l’appetito vien mangiando e il sonno dormendo, la voglia di lavarsi viene lavandosi. Contando che non mi lavo molto, ne ho sempre meno voglia. E’ che è laborioso. Non ho nè l’accappatoio, nè l’asciugacapelli. Per asciugarmi uso un asciugamano grande come un francobollo e dopo che me lo sono passato in testa risulta essere irrimediabilmente spolto. Per asciugarmi i capelli metto in testa una maglietta fino a che non sono abbastanza asciutti per indossare la cuffia. Poi aspetto. Non è comodo, nemmeno rapido, però è il meglio che sia riuscito ad escogitare.

Amo la vita del viaggiatore. Fate largo, mongoli, sta arrivando il re dei topi!


Le vacche

Beijing, Cina, 11 mar 2011, giorno 59, ostello

Ogni popolo potrebbe essere rappresentato nei modi e in quant’altro da un animale. Se per esempio dovessi dire quale animale rappresenta per me i giapponesi, direi senza dubbio alcuno le formiche. Ordinate, tutte in fila, pulite e laboriose. L’animale che invece rappresenta, sempre a mio avviso, i cinesi, è la vaccha. Una mandria sconfinata di vacche. Soffermiamoci su questo animale, considerato sacro dagli indiani e da noi mangiato e allevato. Immaginate vacche a perdita d’occhio. Esse, nella loro tranquilla esistenza, non hanno altro pensiero che mangiare, dormire, espellere le scorie e riprodursi. Immaginate adesso un campo sconfinato dove queste compiano il primo e il terzo dei bisogni sopra citati. Li compiono con noncuranza, senza alcuna remore ed esattamente nello stesso luogo. Nessuno si scandalizza. Immaginate adesso il mandriano che le deve condurre e controllare. Esso non può comunicare in alcun modo con loro se non tramite l’uso di suoni e di recinzioni. A volte le batte, ma in Cina questo non succede. Tutto il resto però sì. I miei occhi hanno veduto cose che se accadute in Europa, certo è successo solo in un passato assai lontano.

Stazione dei treni di Xian. Cinesi a perdita d’occhio che attendono il treno. Alcuni sulle panchine, altri a terra, qualcheduno in piedi ma tutti con un ingombrante bagaglio da portarsi appresso. In un angolo una madre e un pupo. I bambini cinesi, almeno quelli molto piccoli, hanno tutti un curioso vestiario. Le loro braghe e le loro mutande dispongono di un taglio verticale sul posteriore che lo attraversa in tutta la loro lunghezza. Quando questi stanno in piedi e camminano, una piega particolare nascondo le loro innocenti intimità, ma quando necessitaano di andare di corpo, non occorre che la madre tolga loro i calzoni. Essi sono già predisposti. Torniamo alla stazione e alla madre. Un suono, forse anche solo un’espressione del pupo, le fanno capire che egli deve fare la cacca. E che si può perdere forsse tempo prezioso per cercare un servizio? Giammai. Infatti la madre si alza e, condotto il bimbo in un angolo della stazione, gli dà il consenso per liberarsi. Così, mentre un signore anziano consuma i suoi noodles seduto appresso alla famigliola, il pupo fa la cacca. Non fa una grinza. Ecco però che il mandriano, in questo caso una sirena, dà il segnale: si aprono i cancelli. Subito è un calpestìo generale e una massa informe e indisciplinata si dirige verso uno strettissimo cancello. Se qualcuno dovesse cadere, sarebbe certamente perduto. Manca solo la polvere e vi sembrerebbe una mandria. Chi impreca, chi è tranquillo, chi ha perso il bagaglio, chi ha il pacco incastrato tra la gamba e il trolley di un vicino: non importa. Il flusso umano conduce tutti verso il cancelletto. Transenne lungo il camminamento impediscono ai più indisciplinati di lasciare la mandria. Non c’è da pensare, solo da muoversi. Niente formiche: vacche.

Beijing è una città straordinaria. Davvero un capolavoro di architettura e di storia. E di polizia. Forse la Cina è in guerra, forse ha paura, non so. Quello che so è che non ho mai visto tanti metal detector e punti di controllo in vita mia. Piazza Tienanmen. Uno si immagina, da viaggiatore che ha ancora fiducia negli uomini, di arrivarci e di camminarci immerso nello stupore dettato dalla dimensione e dalla sensazione di storia. Sì, si può fare, ma prima bisogna passare i controlli. Arrivi e ti fanno mettere lo zaino dentro all’apparecchio a raggi X. Davanti a te c’è una vecchia che viene quasi fatta spogliare. Poi è il tuo turno. Che fai? Vado in piazza. A fare che? Mah, un giro. Sei un terrorista? No, no. Che cos’hai in tasca? L’iPod. C’è dentro esplosivo? No, non è un’arma; potrei tirarlo, ma non lo farò. Cosa? No, no, agente. Costa troppo per ammazzarci un cristiano. E così si passa il controllo e si arriva in piaazza. Qui, ad ogni mattonella c’è un agente. E’ una cosa incredibile, davvero. Io aggiungo un po’ di finzione letteraria, ma non tanta da far offuscare i fatti. Controlli a parte, è un posto in cui recarsi almeno una volta ne3lla vita. In fronte alla piazza, la città proibita. Un enorme muro ne occulta la vista, e non è che il primo cortile. L’imperatore doveva amare davvero la privacy. Non sono entrato, lo farò domani. Oggi allenamento.

La tecnologia mi sta tradendo. La mia macchina fotografica da un po’ di giorni si è ammalata. Più che altro è vecchiaia. 33.000 scatti in un anno e mezzo sono tanti per la mia fedele amica. Spero che non decida di morire in Cina perchè altrimenti sarei rovinato. Come se non bastasse anche il mio pc ha cominciato a fare le bizze. Non so dare una definizione precisa del problema: si rifiuta di eseguire i miei ordini, è svogliato, spento. Se mi dovessero abbandonare entrambi, mi priverebbero di due dei miei principali interessi: la fotografia e la scrittura. Oppure potrebbero aprirmi nuovi orizzonti. Chissà? Staremo a vedere.

Il mio futuro si chiama Mongolia. Mercoledì, due giorni prima che mi scada il visto cinese, ho il treno per Ulaanbaatar. Per quelli di voi che desiderassero recarvisi da Beijing, due cose: il visto non costa 30 dollari americani ma 55 euro sonanti, mentre il biglietto del treno, il più economico, non costa 770 RMB ma 1350. Oggi ho quasi pianto a queste due notizie, ma fuori dal Paese ci devo andare, quindi c’è poca scelta.

Evviva la Cina. Evviva le vacche.


Niente Ovest rotta a Nord

Chengdu, Sichuan, 1 mar 2011, giorno 49, Dragon Town hostel

Una canzone di Mingardi recita: “Sono così sfigato che se mi casca l’uccello mi rimbalza nell culo”. Oh quanto mi sento quel personaggio. Il governo di Lhasa (credevo che fosse quello cinese il governo di Lhasa, ma a quanto pare non è così) ha chiuso le frontiere per un mese. E’ inspiegabile, ma è così. Questo significa due cose: la prima è che devo aspettare un mese per poter andare in Tibet, la seconda è che ad aprile, quanto i valichui riapriranno, Lhasa sarà invasa da turisti come una forma di cacio lasciata nella stazione di Ling Feng dai topi. E io odio i turisti. La prendo sul ridere però. Ormai isono talmente abituato alle delusioni da non farci più caso. Questo vorrà dire che mi dirigerò a nord, verso Xi’an, Beijing e la Mongolia. Ho ancora due settimane circa per poter stare in Cina prima che mi scada il visto. Il 17 marzo devo essere fuori dal Paese, e visto che non potrò uscire in Nepal, uscirò in Mongolia. Dopo l’equinozio di primavera tornerò a fare rotta verso Chengdu e se non dovessero esserci ulteriori complicazioni finalmente sarò in Tibet. Io e un alto milione di persone.

Chengdu, d’altra parte, si è rivelata la più bella città vista da me in Cina fino a questo momento. E’ moderna e ben tenuta, ha una piazza principale bellissima, una metropolitana e il traffico è abbastanza accettabile. Ed è in fremente espansione, come tutta la Cina d’altronde. In ogni angolo ci sono cantieri e scavi a cielo aperto. Grattacieli, biblioteche, centri di ricerca e centri di congressi spuntano come funghi. Sono contento di essere venuto in Cina in questo momento storico. Il Paese sta cambiando e il cambiamento è visibile nei suoi contrasti, dallo sporco e arretratezza delle campagne all’ultramodernità di alcune zone di alcune città, dai quartieri moderni a quelli vecchi delle stesse, dalle abitudini e dagli atteggiamenti dei vecchi a quelli dei giovani. Sono sicuro che tra dieci o venti anni molto di quello che vedo adesso in giro per le strade sarà sparito e sostituito da quello a cui anche io sono abituato. Alex, il ragazzo che ho incontrato a Yangshu, il quale era già stato in Cina quattro anni fa, mi ha detto che nell’arco di questo tempo lui ha potuto vedere molti cambiamenti, soprattutto un forte miglioramento della rete dei trasporti e nella pulizia delle città. Forse un giorno si parlerà di miracolo cinese, forse se ne sta già parlando. Se mi chiedessero di dare un nome al futuro, quel nome sarebbe di certo Cina. Aspettiamo fiduciosi il momento in cui il futuro sarà Cina VS USA. Se la storia non si sbaglia, e non si sbaglia mai, se tutto continua così un giorno quel giorno verrà. Due galli in un pollaio non ci stanno. Almeno questo è il mio parere.